Storia di un poliziotto speciale

testo Francesco Scuderie
foto Archivio Loizeaux,
traduzione Alessandra Allegri
Tratto da Motociclismo
2000

Fin dalla sua nascita, nel 1979, il raid africano più appassionante ed impegnativo ha visto centinaia di moto confrontarsi sul suo tracciato. Alla Dakar alcuni hanno conquistato la gloria, altri hanno perso la vita… Raymond Loizeaux, dopo venti edizioni senza interruzione, ha guadagnato in saggezza.

Raymond Loizeaux abita a Marcoussis, cittadina situata a una trentina di chilometri da Parigi. Arrivando nei pressi delle prime abitazioni, come a simboleggiare una presenza africana in questo angolo del nord della Francia, un cartello indica il gemellaggio tra Marcoussis e il villaggio di Beregadougou nel Burkina-Faso. Incontriamo Raymond nell’officina della sua casa, costruita in prossimità di una foresta, il luogo dove trascorre la maggior parte del suo tempo libero. Nell’incredibile confusione che vi regna, una sorta bazaar di pezzi meccanici, riconosciamo una Montesa Cota, una BMW RS (che, scopriamo, ha più di 200.000 km al suo attivo) e una delle sue vecchie GS della Dakar. “Quella con cui ho partecipato all’ultima Dakar non c’è, è stata esposta da qualche parte da uno dei miei sponsor”, qui, nell’intimità della solitudine, che il nostro uomo prepara le sue moto prima di partire per terre lontane.

Loizeaux, classe 1952, ha debuttato nel 1981 ed è al suo cinquantottesimo raid; oltre alla Dakar ha partecipato al raid dei Faraoni, alla Parigi-Pechino, all’Atlas, è stato in Mongolia e alle gare tipo Baia. Un personaggio dai trascorsi non certo comuni, che merita di essere conosciuto più da vicino. Dopo qualche anno di studio, all’età di ventun’anni entra nella Polizia Nazionale. Forse per scappare alla dura vita della fattoria dov’era nato, ma soprattutto per l’alta considerazione che aveva e che tutt’ora ha per L’uniforme. Tre anni dopo averla indossata, già fortemente appassionato alle due ruote, entra nel corpo di polizia in moto per vivere quotidianamente la sua passione. Durante la settimana esercita il suo mestiere sulle strade, nei week-end partecipa a gare di regolarità come la Coppa dell’Armistizio e il Tour de France Moto.

Contrariamente ai partecipanti alla Dakar dei tempi moderni, Loizeaux ha sempre privilegiato il rapporto con la gente. Identificarlo come il motociclista più famoso in Africa non sarebbe mentire.

La sua passione per i rally arriverà più tardi. “Nel 1978 (edizione 1979 ndr) andai a Parigi per vedere la partenza della prima Parigi-Dakar. C’erano 90 moto e alcuni “scampati” ai rally Abijan-Nizza e al Cóte-Cóte, come i piloti Gilles Comte e Cyril Neveau. Vedere quei matti con le loro moto quasi nuove, per la maggior parte Yamaha XT500 e Honda XL250, mi fece sognare così tanto da farmi decidere all’istante che presto vi avrei preso parte anch’io. La mia scelta cadde su di una boxer BMW: ne conoscevo a memoria la meccanica e una amico concessionario della Marca tedesca si offerse di aiutarmi. Mi ci vollero due anni per trovare i soldi necessari a portare a termine il progetto, d’altra parte a quel tempo ero un pilota senza palmarès”.

Raymond inizia così la sua epopea africana, con una moto poco modificata, un budget di soli 50.000 franchi e una incredibile voglia di vedere la spiaggia di Dakar. Grazie alla determinazione, alle sue qualità fisiche e alle conoscenze meccaniche riesce facendosi anche notare dalla BMW che gli propone di diventare il “portatore d’acqua” della propria squadra nell’edizion successiva. Una collaborazione fruttuosa poiché la sua presenza permetterà a Hubert Auriol di vincere l’edizione del 1983. “All’arrivo, Hubert mi ringraziò. Lo fece più come un amico che non un capitano di squadra che si felicità del buon comportamento del suo equipaggio. Da quel giorno, tra me e lui si è stabilito qualcosa di forte. In seguito abbiamo seguito strade differenti, ma siamo molto legati ancora oggi”.

La collaborazione tra Loizeaux e la BMW continuerà per cinque anni. L’edizione dell’84 lo vede persino quinto all’arrivo, dietro a Rahier e Auriol. Nei vent’anni di partecipazione alla gara africana Raymond ha tradito una sola volta il Marchio bava-rese, guidando un monocilindrico Suzuki nella squadra di Gaston Rahier. Oggi è il decano della Dakar. Di lui, tutti quelli che l’hanno conosciuto, dicono che è un tipo semplice, una “forza tranquilla” che non si accontenta di girare la manopola del gas, un tipo che ama l’Africa e i suoi abitanti. “L’esperienza acquisita sul suolo africano mi ha insegnato soprattutto la modestia e la semplicità.

Una scuola fondamentale, che mi ha dato un grosso aiuto nei miei progetti, nella preparazione della moto, nei miei incontri con la gente o, più semplicemente, nella vita quotidiana. Si è talmente piccoli paragonati all’immensità del deserto, c’è così tanto da imparare dalle persone che si incontrano lungo la strada…” Capace di commuoversi al pensiero delle esperienze vissute, Raymond racconta alcune storie africane. “Nel 1983, una fuga di carburante mi bruciò letteralmente una coscia. Durante il giorno di riposo a Bamako, nel Mali, un uomo mi propose di accampagnarmi all’ospedale per curare la ferita e la sera stessa mi invitò a dividere il pasto con la sua famiglia. Per ringraziarlo, una volta tornato a Parigi gli mandai il mio numero di gara con qualche parola di ringraziamento”.

Qualche anno più tardi, invitato dalla televisione del Mali, incontrai un giovane del posto che partecipava al rally come me. Questo ragazzo non era altri che il figlio dell’uomo che mi aveva ospitato a Bamako ne! 1983. Aveva conservato il numero 102 e aveva chiesto all’organizzazione di poterlo utilizzare in gara… Non mancano racconti più tristi. “Anche i brutti ricordi lasciano tracce incancellabili, Come quelli legati all’edizione del 1988, quella in cui guidai anche di notte, per assistere per quasi 900 km un compagno di squadra rimasto in panne. Ricordo con l’amaro in bocca anche la Dakar del 1986, l’anno in cui morì Thierry Sabine, Rimpiango molto la sua scomparsa perché anche Thierry, come me, era innamorato dell’Africa e dei suoi abitanti. Sapeva dialogare con loro, contrattare con equità senza trattarli con superiorità”. Al contrario di suo padre Gilbert. Lui non amava né l’Africa né i rally e nonostante ciò ha voluto conservare l’eredità di suo figlio. Gli ci è voluto del tempo per capire che questa eredità non era destinata a lui”.

L’edizione del 1988 è quella più importante per la BMW, che guadagna la vittoria con Rahier e Auriol al secondo posto. Raymond finisce quinto nonostante abbia dedicato buona parte del suo tempo all’assistenza dei suoi compagni.

Quando si chiede a Raymond se non è stanco della Dakar e se ha intenzione di continuare ancora per molto, la risposta si fa attendere. Con un sospiro, quasi di rassegnazione, confessa una sorta di incertezza che la dice lunga dul suo pensiero riguardo al rally e alla sua organizzazione. “In effetti, negli ultimi tempi mi pongo spesso uno domanda: bisogna continuare in questa direzione o cambiare rotta? I piloti utilizzano il telefono satellitare sono super assistiti e la classifica, oramai, è una questione di minuti. Sono insomma lontani i tempi dell’avventura, quelli in cui dovevi preoccuparti di tutto, anche di chiedere la strada alla gente. Nel 1985 Gaston Rahier accumulò due ore di ritardo a metà percorso ma questo non gli impedì di vincere il rally. Oggi, tranne che in caso di grossi guasti o incidenti, sarebbe impossibile. Le somme in gioco sono troppo alte per lasciare qualcosa al caso.

Si è arrivati al punto in cui i media si occupano più di quello che ruota intorno alla corsa che al rally stesso. Penso che la TS0 dovrebbe riflettere su tutto ciò, anche in funzione delle difficoltà legate all’ultima edizione. Dico questo consapevole del fatto che Auriol ha già confermato l’edizione del 2001. Da parte mia, se continuerò, sarò ancora una volta con un boxer BMW e sempre con uno spirito amatoriale, preparandomi da solo la moto e occupandomene durante la gara”. Osiamo domandare di un’eventuale partecipazione di Raymond con la squadra ufficiale BMW (che il prossimo anno si presentarà alla partenza con i boxer GS), sia come pilota che all’interno dello staff tecnico. “Quando nel 1998 la BMW ritornò alla Dakar rifiutai l’offerta di integrare l’equi-paggio ufficiale perché c’erano altri che avrebbero potuto fare assistenza meglio di me.

Come Jean Brucy, che è un buon meccanico e un eccellente pilota. Ha dalla sua parte la gioventù e la voglia di riuscire. Quest’anno ho comunque beneficiato di un piccolo aiuto tecnico e finanziario da parte della BMW, in cambio provo alcune delle messe a punto delle nuove soluzioni. Non voglio insomma legarmi a nessuno. Intendo vivere la Dakar e gli altri rally con lo stesso approccio di un marinaio che parte per una navigazione in solitario intorno al mondo. La corsa è importante, ma lo è altrettanto il vivere bene con l’ambiente e con se stessi. La sola cosa che mi impongo sono le e-mail che tutte le sere invio dal bivacco agli alunni di una scuola parigina. Leggendo il resoconto della corsa sul loro computer, i ragazzi partecipano alla mia avventura e scoprono la geografia africana.

Da qualche anno viaggio in nuovi Paesi, uno di questi è la Mongolia, un luogo magnifico ma l’Africa ha un posto particolare nel mio cuore. Non so quello che il futuro ha in serbo ma di una cosa sono sicuro, ci tornerò con o senza la corsa. Posti come il Ténéré, Tombouctu, Bilma o Djanet continuano a farmi sognare. E poi non posso invecchiare in pantofole davanti al caminetto.” Mentre Raymond commenta gli innumerevoli album fotografici, la moglie Annick ascolta con attenzione i suoi racconti. Christelle, la loro figlia, è molto fiera di vedere che suo padre viene intervistato da un giornalista e Frank, dall’alto dei suoi 15 anni, non sogna che una cosa: seguire le tracce del padre. Ma il tempo pressa, il presidente di un Paese africano arriva questa sera a Parigi. Raymond deve indossare la sua divisa da poliziotto motociclista e far brillare la sua BMW ufficiale, quella con la quale effettua la scorta presidenziale.