Fenouil, l’Africa nel suo destino
E uno chapeau non basterebbe quando si incontra, si parla o si scrive di Jean-Claude Morellet, classe 1946, un’infanzia trascorsa nel Camerun. Già, l’Africa nel suo destino, ancora prima di cominciare. Una laurea in filosofia, sulle barricate a Parigi, nell’inquieto, 68 francese, entrò nella redazione di “Moto Journal”, la rivista più importante del settore. Da grafico era passato alla mansione di tester. La trasformò in condizioni estreme. Proiettò le prove delle moto su lunghe distanze, soprattutto in terra africana. In qualche modo contribuì ad alimentare lo spirito nuovo dell’avventura, raccolto ed esaltato da Thierry Sabine.
I due personaggi si conobbero alla Abidjan-Nizza, fecero amicizia. Quando Sabine decise di imboccare la strada della grande avventura, fu Jean-Claude a fargli cambiare idea su quel-la che Thierry prefigurava come Dakar-Città del Capo. Non pensando quindi a Parigi che, dal punto di vista mediamo, sarebbe stata la città, palcoscenico ideale per una manifestazione di tale portata. Fu Morellet ad effettuare le ricognizioni con una Yamaha XT 500 fornitagli dalla Sonauto.
Alla “prima” non poteva non esserci. Da tecnico esperto quale era decise che la moto giusta sarebbe stata una bicilindrica, più pesante ma più performante della “mono” nipponica, Casa con la quale aveva già sottoscritto un impegno. Avrebbe dovuto infatti essere uno della squadra Yamaha con Neveu, Auriol, Comte, Olivier… Chiese alla BMW un mezzo. La richiesta venne accolta e girata al preparatore-collaudatore Herbert Scheck.
Per affrontare la maratona scelse la R75 stradale. Poche le modifiche, serbatoio maggiorato, tutto il resto di serie. Due le BMW al via nella prima edizione del 1979, quelle di Morellet e Scheck. Andò male, il tedesco si fermò quasi subito, così pure Jean-Claude, troppo fragili si dimostrarono i mezzi allestiti in fretta e in maniera superficiale. L’intuizione di Morellet si rivelò troppo avanti, doppietta Yamaha con Neveu e Comte. Nel 1980 Jean-Claude, che ormai tutti chiamavano familiarmente “Fenouil”, portò la bicilindrica di Monaco di Baviera al quinto posto assoluto, mentre nel 1981, l’anno del trionfo di Auriol, si piazzò quarto.
Aveva visto lontano. Il suo curriculum alla Dakar segnò un ritiro, con la BMW GS nel 1982, un 9° nel 1983, l’11° con la Yamaha 600 XT Ténéré e un altro ritiro (BMW 1000 GS) nel 1985. Dalle moto passò all’abitacolo delle auto, come navigatore. Nel 1987 finì terzo con Shinozuka con la Mitsubishi e si ritirò l’anno dopo con Zaniroli su una Range Rover. Nel 1989 lo chiamò la Peugeot. Si classificò quarto con Frequelin, sulla 205 Grand Raid nel 1989, mentre nel 1990 coronò la sua carriera con il secondo posto al fianco di Bjorn Waldegaard.
La vita da corsa di “Fenouil”, avventuriero, giornalista, romanziere, fotografo, è soltanto una scheggia di quanto è riuscito a compiere. Organizzò, tra le tante gare, il primo rally di Tunisia nel 1980 e soprattutto inventò il Rally dei Faraoni in Egitto nel 1982. Una gara seconda soltanto alla Dakar. Quando il padre di Thierry Sabine, Gilbert, decise di passare la mano e mollare il timone della grande corsa, pensò subito a lui “Fenouil”. Era il 1994. Un anno soltanto, ma fu una scelta dettata dalla continuità. Raid, libri, articoli, fotografie… “Fenouil”, lui stesso un personaggio da romanzo.
Testo tratto da “Dakar l’inferno nel Sahara” di Beppe Donazzan edito da Giorgio Nada Editore