Erano 4 anni che non facevo più la Dakar, mi mancava, finalmente riesco a organizzarmi meglio e sistemare gli impegni lavorativi. Nel 1991 Nikon ha deciso di assegnare la distribuzione al nostro gruppo, e si e dovuto fare una nuova società la Nital sulle orme della Swa, sono stati anni di fuoco dove ovviamente non si e potuto fare altro che mettere tutto l’impegno in questo progetto. Ma mi mancava qualcosa. Mi mancava l’adrenalina dell’avventura della Dakar. Dopo 4 anni praticamente di solo lavoro me lo sono meritato, e quindi decido: vado a farla.

Mi metto in contatto con Bruno Birbes e Pollini del team Assomoto con i quali avevo partecipato l’ultima volta. Oltre a provare sentimenti di forte amicizia per loro, con Bruno ci siamo conosciuti alla Dakar 1988, lui correva con una BMW e praticamente siamo stati insieme per metà gara, dividendo ansie e felicita, cosa che ci ha legati profondamente anche dopo la gara. Il loro team era perfetto: un’assistenza, una logistica, e Fatichi, il suocero di Bruno, grande meccanico che si e messo subito in opera allestendo per me un Kawasaki 650. La scelta della moto era facilmente dettata dal fatto che Bruno era concessionario Kawasaki.

Libero da impegni organizzativi e di preparazione della moto mi dedico all’allenamento fisico e in moto, facendo una grande preparazione. A dicembre ero in splendida forma!

La moto non la provo nemmeno, ma devo dire che era bellissima: semplice, piccola e maneggevole.

Prendo l’aereo per Granada dove mi aspettano tutti e dove si devono fare le verifiche tecniche e amministrative. Piccolo inciso: il taxi che dall’aeroporto mi portava all’albergo buca una gomma, sotto una pioggia torrenziale e da vero gentleman mi offro di aiutare l’autista donna. Inizio bagnato, inizio fortunato. Al mattino si parte per due prove, la prima viene subito annullata per il maltempo. La pioggia torrenziale della sera prima non accennava a calare neanche per un momento. Nemmeno il tempo per prendere confidenza con la nuova moto che e diventata un blocco di fango.

 

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Dopo un trasferimento arriviamo al porto per l’imbarco. Tutto procede bene, ci sono le cuccette e si dorme. Fattore non secondario, visto che in passato si dormiva per terra e non c’erano le cuccette per la traversata in naveda Sete ad Algeri. Che comodità! Prima coricarmi prendo l’Ariam, il medicinale per la malaria. Questa volta decido per questo farmaco perché si assume una volta alla settimana, e non tutti i giorni. Chiaramente il dosaggio è maggiore e mi viene un mal di testa terribile e una nausea spaventosa. Al risveglio sembra di essere passato sotto un camion. Sarà l’ultima volta che prenderò un antimalarico.

Finalmente in Africa, è sempre un’emozione sbarcare in questo continente pieno di fascino e avventura.

Partiamo per la speciale, ed è importante prendere confidenza con la moto nelle prime tappe. E’ una speciale molto tecnica tra le montagne, non sono in forma e mi stanco tantissimo, sicuramente mi porto ancora addosso l’effetto dell’antimalaria misto alla tensione. Non comincio troppo bene perché tutti e due i trip si guastano, scopro che è l’attacco della calamita sulla ruota. Poco male tanto non c’era navigazione. A metà speciale sono senza freno posteriore. Probabilmente non ancora abituato alla moto, ho tenuto il piede troppo appoggiato sul pedale e visto il ripetersi di molte curve è entrato in ebollizione l’olio.

Questa è la mia prima esperienza con il GPS. A parte la necessità di capirlo bene, da sicurezza, ti dice la direzione giusta ed è molto rassicurante. Senza l’ansia che ti assale quando non sei certo della rottura giusta, (prima te lo dicevano le tracce degli altri piloti). Però mi pento subito, seguendo le tracce ovviamente dritte per il waypoint, tutti seguono la via diretta, ma mi trovo nel bel mezzo di una salita degna di un mondiale di trial. Mi sono sempre chiesto dove portassero quelle tracce.

 

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Il GPS si ti dà la direzione, ma usandolo per strada e una cosa,  usandolo nel deserto ti porta in direzioni che ti portano ad incontrare difficoltà estreme. Continuano ad esserci delle tracce segnate da altre moto, ma questa volta decido di tornare indietro e seguire alla lettera il roadbook. I bei vecchi metodi di navigazione sono una sicurezza, seguendo le indicazioni trovo una pista bella e facile. Purtroppo la sera controllando la classifica mi accorgo che sono molto indietro e con davanti a me molti piloti molto piacere lenti. Mannaggia a me che ho seguito il road book. Imparando ad usare questo infernale GPS molti piloti hanno avuto agevolazioni sulla navigazione sopravanzandomi in classifica. Comincio un pò a maledire queste nuove diavolerie.

Il giorno dopo parto per la tappa. Mi sento bene, tiro parecchio e tutto procede bene, rimonto molte posizioni.

Ad un certo punto la pista ha una strozzatura, si stringe, si rallenta leggermente, raggiungo un altro pilota ma c’è tantissima polvere e non c’è modo di superarlo. Gli sto dietro per parecchio tempo, ma mi spazientisco e rischio il tutto per tutto, voglio passarlo a tutti i costo, ma della polvere prendo un grosso pietrone. A momenti mi cappotto ma sto in piedi per miracolo, mi vengono le formiche ai piedi per lo spavento.  Mi fermo per fare un check dei danni, vedo che il cerchione anteriore è tutto bollato e storto. Do una tirata ai raggi e con la coda tra le gambe finisco la speciale piano piano. Arrivo al bivacco e solo qui mi rammentano che la tappa era “marathon” ossia senza assistenza. Non posso sostituire il cerchione e mi trovo costretto a partire il giorno successivo nelle stesse condizioni in cui sono arrivato.

Si entra in Mauritania, conoscevo quelle piste, le avevo già percorse nelle precedenti edizioni, ma causa dei disordini nella zona a causa del fronte belisario si corre in una specie di corridoio transennato da balize, dove l’organizzazione si è fortemente raccomandata di non uscire per non incorrere nel rischio di entrare in un campo minato. 

Ai bordi della pista ci sono molte camionette dell’ONU.

La tappa è molto lunga e impegnativa con tante dune difficili, incomincia a calare il sole. In passato ho fatto parecchie tappe di notte e ne sono terrorizzato, tiro più che posso, ad un certo punto il GPS perde il segnale, seguo le tracce fin che posso e poi seguo semplicemente la stessa direzione. Che ansia. Maledico continuamente il GPS, che finalmente riprende il segnale e mi segnala che sono a soli 3 km dall’arrivo.

 

 

La mattina dopo mi aspetta una tappa dura. Si deve attraversare un erg di dune molto lungo, mi insabbio parecchie volte e consumo tantissima benzina. Faccio due calcoli, e i risultati mi dicono che non arriverò mai alla fine. Vado piano per non consumare e per fortuna la pista diventa più scorrevole e arrivo con un goccio solo di benzina nel serbatoio. La gara comincia a farsi davvero dura. Parto per una tappa difficilissima, praticamente un pianoro enorme di pietre grosse che mi mettono a dura prova. Mi stanco moltissimo, non puoi mai procedere seduto per riposare le gambe. Procedo in piedi sulla moto, sono cosi stanco che a volte mi siedo andando a passo duomo, arrivo col buio.

 

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Il giorno dopo la tappa prevedeva di percorrere la pista in senso contrario del giorno precedente. Le tracce sono ancora evidenti e senza nessun problema di navigazione tiro come un matto, raggiungo parecchi piloti. Tutto andava da favola, ero veramente messo bene in classifica, un solo piccolo inconveniente deriva dal GPS che segnava la rotta leggermente verso sinistra. Preso dalla bagarre e confortato dal fatto che parecchi altri piloti stavano procedendo in quella direzione, si va avanti. Che errore da principiante. Ci accorgiamo dopo diversi chilometri che non seguendo il GPS ci eravamo allontanati dalla pista. Cosi torniamo indietro fino a Zouerat. Siamo in sette, facciamo il punto, la pista si biforcava a V, e noi abbiamo seguito le tracce del giorno precedente. Uno decide di tagliare dritto, lo seguono in quattro, io e un altro decidiamo di tornare indietro, io del GPS non mi fido. Non più. Torniamo al famoso bivio, ci rendiamo conto che con i km fatti in più non saremmo mai arrivati al rifornimento di benzina.

 

 

Arrivano pero le macchine, e mannaggia a loro se ne fermasse solo una. Finalmente due giapponesi si fermano, gli chiediamo della benzina, ma è veramente difficile tirarla fuori dal serbatoio e perdiamo tantissimo tempo. Riparto sulla strada giusta, quanto tempo ho perso, mi metto a tirare più che posso, sapendo che ogni km fatto in più con la luce sono ore in meno regalato al buio. Viaggiare di notte è veramente una cosa brutta non si vede nulla, la pista è rovinata dal passaggio di tutto il rally ed e facilissimo cadere. Inoltre le dune, già difficili di giorno, di notte non ti perdonano e ti insabbi così tante volte non avendo il riferimento della fine della duna. Sono profondamente arrabbiato con me stesso per un errore cosi stupido.

Faccio parecchi km con Alberto Morelli forse e lì ci conosciamo meglio gettando le basi per una profonda amicizia e correremo insieme tanti rally futuri. Ovviamente arriva la notte, di conseguenza cado parecchie volte, per fortuna ci sono poche dune ma tantissima erba a cammello,(sono delle montagnette di sabbia dura con sopra dei ciuffi di erba the devi zigzagare, me se ne prendi una il volo è inevitabile). Arrivo all’una e naturalmente come una buona legge di Murphy scopro che è una tappa Marathon. Pulisco il filtro e controllo l’olio, ero a secco, me lo faccio prestare e crollo in braccio a Morfeo.

Per la cronaca, i 5 motociclisti che tagliarono dritto non sono arrivati e si sono ritirati tutti.

Al mattino si riparte, la moto si avvia in una nuvola di fumo. La sera prima al buio avevo messo troppo olio, ne tolgo un po’ e riparto. Il percorso è veramente duro, sabbia molle alternati con pietroni grossi. Si fa il pass di Nega (un posto infernale, lo avevo già fatto al contrario in salita, una pendenza infernale ed è rimasto famoso perché le auto si son quasi fermate tutte tanto era ripido). Ma in discesa la musica è cambiata.

 

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A 30 km dall’arrivo di tappa prendo una buca abbastanza forte, nulla di speciale ma sento un rumore metallico. Rallento per vedere cosa sia successo: niente freno. Mi fermo e guardo meglio, vedo il tubo dell’olio tranciato di netto e il forcellone dalla parte destra si è staccato di netto dall’attacco girandosi all’indietro.

Piano piano riparto e arrivo.

Birbes mio amico e compagno di tante avventure mi accoglie all’arrivo, ero disperato per il mio forcellone. Decidiamo di andare nel paese vicino per vedere se per caso c’era un meccanico. Troviamo un “saldor” come li chiamano da quelle parti. Questo prende subito il cannello, Lo blocco! E’ alluminio, non puoi saldarlo cosi! Bruno cerca di ingegniarsi, vede una sedia e si accorge che le gambe sono perfette per risolvere il problema, si incastrano perfettamente dentro al forcellone, avendo forma rettangolare e le infiliamo dentro e poi ce ne torniamo al bivacco. Tutta la notte aspettiamo i camion assistenza, ci vuole assolutamente il una saldatrice al tig per l’alluminio.

Arriva il camion Honda France, loro hanno il tig ma la proverbiale simpatia transalpina non si smentisce mai, nonostante la nostra insistenza non ci prestano la saldatrice. Alle tre del mattino arriva la Yamaha e loro sì che sono gentili e mi promettono che ci daranno una mano. Io però ero stanchissimo e vado a dormire, Bruno mi rassicura ci penserà lui ad effettuare la riparazione. Effettivamente al mattino trovo il forcellone saldato e con un fazzoletto di alluminio che chiudeva la parte rotta.

Saluto Bruno, che era aviotrasportato, parto e ad un ritmo di tutta sicurezza arrivo a Kaies.

Anche questa era una tappa Marathon quindi le moto si portano al parco chiuso ed è vietato toccarle. Mentre vado a farmi timbrare il passaporto perché siamo entrati in Mali, vedo passare un camion scopa e vedo che su ha una moto verde. La guardo meglio ed è una KLR come la mia! Mi viene l’idea di cambiare il forcellone, lo smonto tutto felice sapendo che forse cosi avrei potuto finire la gara, e mi preparo per la sostituzione, ma mi beccano subito. I commissari mi cacciano a male parole, decido di mangiare un po’ al buio e aspetto che si allontanino per ritentare più tardi.

 

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Non sono un bravo meccanico ma con pazienza e con logica si fa tutto, solo che ci metto tanto tempo a fare le cose. Anche perché al buio e molto difficile e non si vede nulla, ma ovviamente non potevo accendere la pila altrimenti i commissari mi avrebbero scoperto. Riesco a montarlo, ero stanchissimo ma non riesco a montare la pinza del freno e mi accorgo che era diversa e diversi erano gli attacchi. Ritorno alla moto ritirata e prendo anche la pinza, il tutto facendo un giro lunghissimo per non farmi vedere. Riesco a montarla resta solo di montare la ruota, tocca al perno e scopro che anche lui era diverso rispetto alla mia. Mi accorgo che la mia moto era dell’anno precedente, mentre quella ritirata era dell’ultimo anno e chissà perché Kawasaki aveva cambiato così tanti particolari. Ero stanchissimo e probabilmente mi è venuta una crisi di nervi, mi sono messo a piangere come un bambino.

 

 

Vengo scoperto dal commissario e probabilmente vedendomi in quelle condizioni ha provato pena per me, e intenerendosi mi ha aiutato a finire il lavoro che non sarei più stato in grado di finire. Cominciano a vedersi le prime luci dell’alba. Appena finito l’ho abbracciato e baciato per dimostragli la mia gratitudine. Una veloce colazione e si riparte, stanco ma felice di essere sulla mia moto perfetta come nuova.
(NB: a Dakar ho poi risostituito il pezzo con il mio rotto, ho scoperto che la moto ritirata era di un italiano e ora il Kawasaki è nel mio garage tra le moto a cui tengo di più e dentro al forcellone ci sono sempre le gambe della sedia.

Avevo già fatto questa speciale e me la ricordavo come una tappa lunghissima e difficilissima. Il paesaggio è cambiato e corriamo all’interno di una foresta, dopo tanta sabbia fa piacere vedere un po’ di verde. Si vedono animali, molte scimmie. Si deve anche guadare un corso d’acqua profondissimo, Auriol mi aiuta e spinge la moto che si era spenta. Lungo la sponda del fiume c’era una ecatombe di moto, tutte con problemi, filtri intasati, marmitte piene d’acqua. Per una volta ho la fortuna dalla mia parte, il kawa riparte quasi subito, dopo aver asciugato il filtro.

 

 

Si attraversano tanti paesini, la gente si vede ai bordi, sorridono tutti, esprimono gioia nel vederti. Che contrasto con la grande città, qui siamo praticamente blindati nel campo. L’indomani parto per una tappa di montagna, la stanchezza accumulata era tantissima, ma si comincia a sentire un certo profumo di arrivo. Arrivo in un punto di fesh fesh (sabbia borotalco che non vedi il terreno). Cado. La pista era stretta, sopraggiunge un’auto, era sicuramente tra le prime in classifica (ma nel trambusto riesco ad identificarla). Si ferma e si mette a suonare come un pazzo, affinché liberassi il passaggio. Cerco di fare il più in fretta possibile, ma ero davvero stanco, stanchissimo. Rialzo la moto, che non parte, e per premura la spingo a lato. 

Il pilota dell’auto, spazientito mi spinge e mi butta a terra al lato della strada. La sua fortuna è stata che sia riuscito a passare velocemente. Ero talmente arrabbiato che gli ho detto tante di quelle parolacce e maledizioni da vergognarmi. Nella caduta si è rotto il faro e il serbatoio dell’acqua del radiatore di recupero. A fatica ritorno in pista in un punto molto ripido. Quel pilota è stato fortunato, perché se lo avessi riconosciuto al al bivacco non so cosa avrei fatto.

 

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L’ultimo giorno ci sono due speciali da percorrere e tanta tensione. L’obiettivo è arrivare. La moto è allo stremo, non ce la fa più. Nell’ultima speciale che porta al Lago Rosa c’è una sabbia mollissima, e sentire urlare il motore agonizzante mi stringe il cuore. Sale l’ansia. Ho in mente il povero Angelo Cavandoli che ruppe la moto a 3 km dall’arrivo.

 

 

L’arrivo è una liberazione! Arrivato! Stava diventando un’ossessione, gareggiare 20 giorni con questo unico scopo riempie di gioia ma al tempo stesso si avverte anche un vuoto interiore. Per me il post Dakar è una situazione da metabolizzare. Si deve recuperare una stanchezza micidiale che rimane per un po’ di tempo, ma mi viene anche un po’ di crisi esistenziale. La Dakar da. La Dakar toglie. Tutte le volte.

 

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Questa Dakar 1996 è un premio, mi ha dato tanto e si è presa tanto, senza al Team Assomoto e a Bruno Birbes non ce l’avrei mai fatta.  Ho anche ho conosciuto una persona meravigliosa, grazie Alberto.

Fonte foto e testi: pagina facebook di Aldo Winkler

di Nicolò Bertaccini

E adesso basta, questo sassolino è giusto toglierselo dalle scarpe, anzi, dagli stivali. Perchè in giro ci sono mille documenti, tutti ufficiali e su questi compaiono solo sentenze: fuori tempo massimo, ritirato, squalificato, settanduesimo con ventidue arrivati al traguardo (!?). Invece, sul Lago Rosa e a Dakar, nel 1985 Beppe Gualini c’è arrivato. Eccome. Certo, a modo suo. Però se rompi un motore, ti fai trainare, cadi in mare, ti tirano i ricambi manco fossi Jeeg robot, allora è giusto che ti venga riconosciuto quanto hai fatto.

Dicevamo, anno 1985, il nostro Buon Samaritano Gualini è in sella ad una Yamaha Tenere allestita con un kit Byrd. É giunto alla penultima tappa, il Lago Rosa ed il traguardo sono ad un passo. Manca poco, si tratta di gestire quel che resta della moto, un occhio ai fuori tempo ed è fatta. Succede l’imprevisto, anzi, l’ennesimo imprevisto. La moto si ferma. Beppe fa mille controlli, mille check ma la moto non ne ha più, il motore è andato, cotto. Manca poco, si sente già l’odore di acqua salata ma non basta. Beppe non demorde. Ci prova. Da lì a poco incredibilmente passa il camion assistenza Byrd (Belgarda Yamaha Racing Division) che “non si sono neppure fermati, mi han buttato giù un motore e sono ripartiti”.

Il camion era preso dal seguire i piloti ufficiali Belgarda ma si ferma per capire di cosa avesse bisogno Beppe. Serve un motore, ad una tappa dall’arrivo c’è la possibilità di scaricarne uno al volo e lasciarglielo perché provasse a montarlo e farlo funzionare. Un motore non nuovo, anzi un po’ sfatto. Però con un grandissimo pregio: si accendeva e funzionava. Per Beppe parte una corsa contro il tempo, smontare e rimontare per poter arrivare entro il limite. Quindi, dopo una ventina di giorni di competizione, con la moto che ormai si regge assieme solo per miracolo ed una stanchezza fisica che difficilmente si può immaginare, il nostro si mette a sostituire il motore della sua Ténéré. Roba complessa in una officina.

 

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Ma Beppe ha metodo, conoscenze, pazienza e una forza disumana. Sostituisce il motore e riparte. Certo, la moto riparte alleggerita di alcune inutili infrastrutture, come si può vedere in alcune foto. D’altronde non è che potesse mettersi a rifinire le virgole, l’importante era arrivare al bivacco con la moto accesa, poi avrebbe potuto rattoppare ulteriormente in vista dell’ultimo giorno di gara. E siamo al fatidico ultimo giorno, l’ultima tappa, quella in cui nella testa di ogni pilota riecheggia una sola frase “non fare cazzate”. Eppure, come abbiamo visto succedere per tanti, l’ultimo km è sempre il più insidioso.

Beppe corre con la sua Yamaha che ormai sembra uscita dal film Mad Max. Corre lungo il bagnasciuga, dove la sabbia è più compatta e più agevole da attraversare. Succede ovviamente un imprevisto, altrimenti non sarebbe la Dakar. Sta procedendo assieme ad altri due piloti, sono abbastanza ravvicinati. All’improvviso un’onda anomala o comunque spinta un po’ più in avanti sulla battigia ed ecco i tre che si ritrovano in terra. Beppe fa un bel tuffo. Si rialza biascicando qualcosa in bergamasco e prova a riavviare la moto scaricando sul pedale di avviamento rabbia e frustrazione. Nulla. Riprova e nulla. Riprova con sempre più rabbia fino a quando rompe il kicksarter.

É finita, la moto non parte più. Anche se ormai è fatta, potrebbe caricarsi la moto in spalla e arrivare al traguardo. Il destino però non ha finito con Beppe e gli mette sulla pista un altro partecipante. Legano la moto e la Yamaha si fa trascinare per qualche metro. Un centinaio ne serviranno prima che un borbottio ed uno scoppio annuncino la ripartenza. La manovra non rientra fra quelle vietate, farsi aiutare per avviare la moto è concesso. É fatta, la moto riparte e Beppe può portarla fino al traguardo, trattenendo il fiato. Ventitreesimo recita il documento nelle sue mani. Ed alla fine, fra mille siti, mille reportage, mille documenti ufficiali l’unico che contiene la verità, per noi, è quello di Gualini. Lui nel 1985 a Dakar ci arrivò, entro il tempo limite.

È vero, alla Dakar ci sono persone speciali. Ne ho conosciute tantissime e con grande stupore, anche tra i piloti ufficiali. Tanti, anzi, tutti quelli coi quali ho avuto a che fare, anche per uno scambio di battute, sono stati tutti gentili, disponibili e per nulla superiori. Franco Picco non ha esitato a smontarmi sella e serbatoi per trovare il motivo di un piccolo inconveniente. Anche quando mi investì l’ubriaco a Montpellier, lui e Edi Orioli si fermarono per aiutarmi a ripartire con una pacca sulla spalla “dai tieni botta che ce la fai” che fece più effetto di qualsiasi antidolorifico. Franco mi diede gli strumenti senza esitare… “me li paghi poi a casa”.

Danny La Porte alla Le Cap fece il mio tempo al prologo e ci scherzammo su in fila per la cena al primo bivacco in Africa. Meoni non avevi neanche bisogno di cercarlo, ti salutava prima lui e ti chiedeva come va. In Passato il “Bogio” Andrea Marinoni mi diceva “bravo, vai piano…” ed io “non c’è problema, più di così non vado!!”

Ma chi mi ha fatto persino sorridere è stato il grande Stèphan Peterhansel. Alla Le Cap mi accompagna sul suo furgone camperizzato “Tullio Provini”, con Chicco Piana e rispettive signore. La moto infilata metà in bagno e metà in corridoio. Una tirata fino a Rouen dove erano allestite le verifiche. Passo la parte amministrativa e entro in un capannone affollato di gente coi piloti in fila per marche. Io spingo la mia moto e mi accodo, tutte Yamaha, private e ufficiali, in testa Motor France e Byrd.

Arrivo e già mi guardano, unico coi meccanici al seguito e due signorine che mi aiutavano a tenere documenti, casco e tuta, mentre Tullio e Chicco si prodigavano a fissarmi le luci obbligatorie posteriori che avevo ignorato. Pochi istanti e nel capannone irrompono dieci (10!) miei amici con un urlo da stadio “FIOREEEE” partiti da Bologna senza dirmi nulla, tutti in un camper da sei. Una vergogna incredibile, pure i tifosi!

Poi finalmente si parte! Con i road book di metà gara infilati ovunque nella giacca, vestito come un palombaro dal freddo che c’era. Due giorni di statali e provinciali fino a Marsiglia, passando da Parigi e la Borgogna. In un tratto di montagna, nevicava e l’ansia di arrivare in ritardo mi fece saltare diversi punti di ristoro dove i locali avevano allestito delle vere e proprie feste di paese con rampe, archi, striscioni e interviste. In un paesino mi diedero un caffè ustionante e mi appoggiarono due croissant sulla cassa filtro, via al volo anche lì con la merenda in bilico sui serbatoi.

Così raggiunsi un gruppo e mi accodai, c’erano persino le due Yamaha ufficiali e il passo era buono per me, in terra c’era uno sottile strato di neve compatta. Arrivati ad una grossa area di servizio vedo che entrano tutti per una sosta e il pieno, mi accodo, ma prima di entrare Peterhansel, probabilmente ingannato dal mucchio di neve a lato strada, non vede il marciapiedi e scivola in terra. Lo sento smadonnare, il suo assistente (su moto stradale) lo aiuta a sollevare a fatica, allora scendo e gli afferro il codino e in tre tiriamo su al volo la moto.

Appena entrati, insieme al distributore, un’altro urlo da stadio “FIOREEEEE”, quattro amici ubriachi, in giro per cantine a festeggiare il capodanno! Appena hanno visto delle moto sono corsi urlando ad abbracciarmi. Sento una mano sulla spalla ed era lui, Peterhansel, che mi guarda dietro la schiena per leggere il nome e mi dice: “excuse moi Fiorini, ma tu chi sei in Italia con tutti si tifosi che ti porti dietro?” La mia risposta fu: “nessuno, non ho mai vinto niente, ma ho un sacco di amici”. E ancora risate!

Perchè Dakar? Vi siete mai fermati a pensare perchè Sabine abbia deciso di far terminare la sua avventura proprio nella capitale del Senegal? Diverse volte abbiamo provato a risalire all’origine della scelta, cercando informazioni certe. Le uniche cose che si trovano sono ipotesi.

Certo, Sabine avrà sicuramente cercato una città affacciata sul mare, con un porto che agevolasse la logistica del rientro, una città francofona. Però Dakar non è la sola. Avrebbe potuto scegliere Algeri e pensare al suo raid in modo differente, rendendo ancora più agevole il rientro in Europa.

Insomma, dopo anni di studio della corsa africana la risposta non saltava fuori. Solo ipotesi. Sensate, legittime, ma ipotesi.

Come spesso accade la soluzione del problema la si trova ponendo attenzione a come si formula la domanda, a dedicare tempo a capire cosa cercare e cosa chiedere, prima ancora di iniziare a cercare e chiedere.

Quindi dal chiederci “perchè Dakar” siamo arrivati a riformulare la domanda e a chiederci: chi potrebbe saperlo? Chi era in contatto con Sabine ed è ancora oggi raggiungibile. Con una risposta univoca che manco la Cavallina Storna il nome è saltato fuori subito: Jean-Claude Morellet, noto a tutti con il nome di Fenouil.

Fenouil è un giornalista, fotografo e motociclista francese, uno di quelli che ha partecipato sin dalla prima edizione alla pioneristica gara organizzata da Sabine e che in seguito ne è stato anche Direttore Corsa.

Gli abbiamo scritto e gli abbiamo chiesto se si ricordasse il perchè di Dakar, se ci fosse un motivo, se Sabine gliene avesse mai parlato.

I due si conobbero durante la seconda edizione della Abidjan-Nizza, quella in cui Sabine rischiò di perdersi e che gli fece venir voglia di creare una gara che avesse direzione opposta, dall’Europa all’Africa.

Fu lo stesso Fenouil, stando a quanto ci riporta lui, a suggerire a Thierry Sabine di andare a Dakar. Fenouil aveva già raggiunto la capitale del Senegal nel 1973 in sella ad una Kawasaki Big Horn (il viaggio è raccontato in “In moto a Dakar nell’inferno del Sahara” edizioni Mare Verticale).

Quindi il mistero circa la scelta della destinazione è questo. La volontà di un avventuriero irrequieto e temerario come Sabine di organizzare una gara che partisse in Europa ed arrivasse in Africa e l’esperienza di un amico fotografo, giornalista ed avventuriero che gli suggerì la capitale senegalese.

Probabilmente fra gli ingredienti che hanno reso mitico ed immortale questo raid c’è l’intuizione di partire dall’Europa, la visibilità della partenza da Parigi hanno contribuito a rendere leggendaria la gara.

Testo di Nicolò Bertaccini

 

Dopo il forfait di Marinoni è Picco il caposquadra 

Dopo il successo di Franco Picco nel Rally dei Faraoni le credenziali della Yamaha – Belgarda sono altissime; il valore dei piloti è fuori discussione: scenderanno in gara Picco, Medardo e Grasso a sostituire Andrea Marinoni che non potrà DAKAR 87 Piccocorrere a causa dei postumi di un incidente.

Resta un solo neo: la moto a disposizione è sempre la 660 monocilindrica. Leggera, maneggevole ed affidabile, lamenta il problema della potenza, e di conseguenza della velocità massima, nel confronto con le bicilindriche BMW ed Honda e con la stessa Yamaha 900 quattro cilindri utilizzata dai francesi.

Ultimamente la Paris-Dakar è stata dominata dalle grosse pluricilindriche. moto che permettono d’andare a quasi 200 Kirih negli immensi rettilinei di sabbia del deserto e guadagnare tempo nei confronti delle più piccole monocilindriche. La scelta della Belgarda, invece, cerca di sfruttare le doti di maneggevolezza e di maggior semplicità ed accessibilità meccanica.

Un progetto legato anche alla commercializzazione dei mezzi: seppur modificate direttamente dal reparto corse Yamaha in Giappone, le Tenere 660 rispecchiano le caratteristiche del prodotto di serie. La potenza è stata aumentata ad oltre 50 CV, la capacità dei serbatoi è di 55 litri mentre il peso a secco supera di poco i 150 Kg.

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Caratteristiche che nei piani stessi della Yamaha dovrebbero consentirle di fronteggiare le varie pluricilindriche e recuperare nei sentieri della savana il tempo perso sui lunghi tratti rettilinei desertici.
Della stessa opinione è anche Picco: «Per riuscire a vincere la Dakar non basta poter disporre di tanta potenza. Gli altri Picco_Auriol_Neveu_1987potranno andare più forte, ma la guida di una moto più pesante richiede anche maggior impegno fisico. Dopo molte tappe, la fatica può giocare un ruolo determinante per non aumentare i rischi di cadute ed arrivare in fondo».

Hai un pò di rimpianti per non poter correre con la FZ 900 che useranno Bacou e Olivier?
«I francesi stanno portando avanti il progetto del motore derivato dalla FZ da alcuni anni, ma finora non sono riusciti a raccogliere dei risultati positivi. Mi auguro, poiché la marca da difendere è la stessa, che sia l’anno buono, ma io non l’ho mai provata e quindi non posso dire nulla. Aspettiamo che finisca la Dakar, ne riparleremo per quella dell’88». 

peterhanselE’ stata la gara della vittoria – la numero 6 ed un record – annunciata e scontata di Stéphane Peterhansel e della sua Yamaha 850 bicilindrica. Se per il pilota francese c’è la soddisfazione di avere sorpassato Cyril Neveu, fermo a 5, per la Casa giapponese è l’affermazione numero 9. E probabilmente sarà l’ultima poiché la Yamaha ha annunciato il ritiro dalla “più dura gara al mondo”.

Lascia lo spazio alle monocilindriche, alla KTM e alla BMW e, probabilmente, al ritorno della Honda. Di fatto la supremazia di questo fantastico duo è stata evidentissima sin dall’inizio della gara. Lasciati sfogare gli animi in Europa, nelle tappe in Francia e in Spagna dove l’avvicinamento all’Africa è stato un fatto di routine più che una gara vera e propria, “Peter” ha accumulato subito un notevole vantaggio, un distacco che ha saputo amministrare con la consueta intelligenza nella seconda settimana.

Solo piccole incertezze in un percorso trionfale: qualche caduta, lievi problemi tecnici alla velocissima bicilindrica Yamaha XTZ 850 TRX; insomma, niente che davvero potesse preoccupare questo grande campione che potrebbe, però, non schierarsi più alla Dakar con una moto: «Se la Yamaha lascia – così ha detto all’arrivo – abbandono anch’io. Sono troppo legato a questa Casa per accettare un’altra offerta. Potrei tornare in Africa solo guidando un’auto».

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Ci ha provato a insidiare questo strapotere lo squadrone KTM: una specie di armata motorizzata diretta dall’ex pilota Heinz Kinigadner, composta da dieci piloti ufficiali e da una numerosa schiera di privati. Le KTM LC4 660 non hanno potuto reggere la stessa andatura della bicilindrica giapponese ma si sono difese benissimo vincendo la maggior parte delle prove speciali (12 su 19). Su 55 piloti arrivati sulle spiagge di Dakar ben 31 erano in sella a una KTM.

Nonostante Peterhansel fosse inavvicinabile – lo dicono gli stessi uomini della Casa austriaca – l’avere piazzato Fabrizio Meoni alle sue spalle, con un distacco non proprio impossibile su 18 giorni di gara, è stata un’ottima performance. Il pilota italiano è stato il vero avversario del francese: attento nella navigazione nonostante i continui malfunzionamenti del suo GPS, un vero duro nel sopportare prima di tutto i suoi 40 anni e poi l’infortunio alla spalla sinistra, capace di trovare la giusta via in una tempesta di sabbia e di riuscire da privatissimo ad arrivare al terzo e al quarto posto nelle Dakar del ’94 e del ’95.

E anche lui potrebbe non essere più al via il prossimo anno poiché, pur essendo un “ufficiale” a tutti gli effetti, non ha un contratto con la KTM che lo tuteli per il futuro. Rientrando in Italia ha ritrovato la vita di tutti i giorni e una concessionaria di moto da mandare avanti. Alle sue spalle, sempre con la KTM 660, Andy Haydon un pilota australiano sicuramente abituato ai grandi spazi e già a suo agio alla prima Parigi-Dakar. E poi un sudafricano, Alfie Cox, già pilota di valore nell’enduro. Questi due piloti, al di là della loro ottima classifica, dimostrano come anche dei novizi della maratona africana possano far valere le loro capacità nella guida fuoristrada.

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La mancanza di veri trabocchetti nella navigazione ha quindi fatto emergere chi va davvero forte al di fuori dell’asfalto, ovvero i piloti da enduro. Non dimentichiamo che lo stesso Peterhansel è un protagonista dell’enduro Mondiale. Anche il nostro “Giò” Sala, più volte iridato della categoria, è andato fortissimo, trasformando la gara in una lunghissima mulattiera. Si è piazzato al 17esimo posto per qualche errore di lettura del road-book e per qualche problema di accensione della sua KTM. Ha rischiato anche di non finire la gara a soli 2 km dall’arrivo a Dakar per una caduta che lo ha lasciato senza conoscenza per pochi attimi e con la moto quasi distrutta.

GLI ALTRI ITALIANI Onore anche agli altri italiani che hanno terminato la durissima gara: 24esimo Guido Maletti (ben 11 partecipazioni) con la Maletti 1998-1sua Kawasaki KLX 650R, ma poteva arrivare più in alto nella classifica se non avesse preso la penalità forfettaria di nove ore per il malfunzionamento dell’accensione elettronica. Non si è perso d’animo e ha continuato a risalire nelle posizioni. Gian Paolo Quaglino e la sua Honda XR400R si sono classificati al 29esimo posto. Quaglino è alla Dakar numero 5 ed è la terza che finisce. Subito dietro, Aldo Winkler con la KTM 660. E’ uno dei veterani con le sue otto partecipazioni. Il torinese vince il premio fair-play perché, come un gregario d’altri tempi, ha generosamente dato a Giò Sala, bloccato da guai elettrici e “ufficiale” KTM, la centralina elettronica di scorta della sua Kappa.

E poi viene Roberto Boano (38esimo ma con 47 anni alle spalle), una volta crossista di buona fama e ora conosciuto come il padre di Jarno e Ivan, molto più che giovani speranze dell’enduro. Ha fatto la Dakar con la fida Honda Africa Twin, che è pur sempre una bicilindrica ma è lontana anni luce dalle prestazioni della Yamaha che ha vinto; non fosse altro che per il maggiore peso, la minore potenza e le diverse, e meno sofisticate, sospensioni. Al cinquantesimo posto Lorenzo Lorenzelli con la sua Suzuki DR 350. Ha fatto tutto da solo, senza un meccani-co ad aiutarlo, arrivando qualche volta tardissimo ai bivacchi, ma sempre spin-to dalla solidarietà degli altri piloti.

NOUAKCHOTT (Mauritania) – “L’Africa me la sono fatta praticamente da solo e questo più che un merito è un guaio, il più grosso guaio che possa capitare a chi corre una Parigi-Dakar. Non so ancora se sarò il vincitore, lo spero per la Cagiva, per il pubblico italiano che si aspetta di vedere per la prima volta una propria moto vincere questa corsa, ma è bene che tutti sappiano come stanno le cose”.

Hubert Auriol, un bel ragazzone francese, sempre allegro, elegante nei modi e nel parlare, sembra più un raffinato attore di teatro che una delle “bestie” che affrontano ogni anno questa follia ambulante che è la Parigi-Dakar. Auriol è un veterano di questa gara di velocità lungo deserti, savane e montagne, dell’Africa sahariana conosce ogni pietra, ogni duna, ogni miraggio e ogni arcano inganno. Eppure l’altro giorno anche lui è caduto in una delle mille e inaspettate trappole del deserto.

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Nel nord della Mauritania corre una vecchia ferrovia mineraria. Vi passa il treno più pesante del mondo: cinque locomotive da oltre 3mila cavalli ognuna e 10mila tonnellate di ferro sui vagoni. E ogni volta che passa, piccole schegge di binario, taglienti come spade, schizzano ai bordi della massicciata. Auriol, Vatanen e molti altri concorrenti per paura di perdersi nel deserto hanno voluto seguire la strada ferrata. Ma le forature sono arrivate a raffica una dopo l’altra.

Da quando viaggia in solitudine, a causa della discutibile squalifica degli altri due piloti della Cagiva, il povero Auriol vive con l’incubo delle forature. Perchè in questa gara l’ assistenza in corsa possono fornirla soltanto i compagni di squadra o altri concorrenti di buon cuore. Così chi è più avanti in classifica finisce col cannibalizzare piano piano le povere moto dei compagni. Oggi una ruota, domani una frizione, dopodomani un carburatore.

Ma Auriol è solo. Nei giorni precedenti aveva provato anche lui a montare le magiche gomme Michelin, che al posto della camera d’aria hanno una ciambella di gomma espansa. La Michelin, però, le aveva studiate per le moto giapponesi non avendo prestato molta attenzione alla casa motociclistica italiana. Così sulla moto di Auriol quella ciambella si scaldava troppo, fino a diventare una poltiglia. E allora il pilota francese non se l’ è sentita più di rischiare. Ha messo in spalla un po’ di camere d’ aria, come i vecchi ciclisti, ed è andato avanti da solo a combattere la battaglia con il suo rivale Neveu.

Aveva un’ ora di vantaggio su di lui e con cinque forature se l’ è mangiata quasi tutta. “Col senno del poi – ha detto – è facile scegliere, ma la sera prima non me la sentivo di rischiare”. Ieri, in un’ altra dura tappa tutta alla bussola, è riuscito ad arrivare incollato al rivale con un piccolo trucco. Ha caricato più benzina, deciso a non fermarsi mai per il rifornimento. E ce l’ ha fatta. Neveu si è invece fermato, è ripartito all’attacco ma al traguardo aveva solo una manciata di secondi.

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Una vittoria di Auriol per una casa come la Cagiva sarebbe una manna. “Quello che può rendere una Dakar – dice Roberto Azzalin, capo della squadra italiana – non lo saprei quantificare ma una cosa è certa: di una vittoria alla Dakar si parla in ogni angolo più sperduto del mondo e noi abbiamo contro tutta l’ industria giapponese. Poco più di cento persone contro migliaia di specialisti”. Adesso 9 minuti scarsi dividono Auriol e Neveu, la Dakar rischia di concludersi all’ ultimo momento.

Oggi c’ è una tappa difficilissima, ancora tutta da “navigare” alla bussola nella savana del Senegal. I due sono troppo esperti e troppo grandi per ricorrere a trucchi, ma quest’anno dinanzi alle centinaia di smarrimenti nel deserto, ci sono perfino dei concorrenti che per correre ai ripari hanno aperto la caccia al ragazzino. Piccolo, leggero, figlio di negri o di beduini non importa purchè conosca bene le piste. Se lo caricano in spalla dentro lo zaino e via a 180 all’ora.

Meglio avere un po’ di peso in più ma una guida sicura, così almeno dicono loro. Nelle auto un’ altra vittoria di Tambay, che tuttavia non infastidisce la Peugeot di Ari Vatanen leader della classifica. Le Peugeot sono imbattibili sul piano tecnico per la potenza che hanno, ma negli ultimi giorni hanno rischiato più volte di perdere questa corsa per l’ inesperienza africana del pilota finlandese e per i contrasti tra lui e il suo navigatore, il francese Bernard Giroux, telecronista di Tf1.

Prima del via al mattino Vatanen si siede al volante e in religioso silenzio si legge un passo della Bibbia. Fa tanti buoni propositi ma poi in gara non si fida del suo navigatore e fa di testa sua. Del resto anche il suo vecchio compagno di rallies ne aveva abbastanza di lui e del suo pessimo carattere. Domenica Vatanen si è perso nel deserto portandosi dietro altre 104 macchine che speravano di sfangarla seguendo il probabile vincitore su una strada sicura.

Risultato: tutti fermi fino a notte fonda, si sono beccati 10 ore di penalità. Lunedì per una foratura ha perso un’ora sul suo diretto avversario, il francese Zaniroli a bordo di una Range Rover. La classifica dice ancora Vatanen, ma basta poco per mandare al diavolo una vittoria che la casa francese ha costruito con mesi di duro e sapiente lavoro su una vettura che, dopo essere stata la regina dei rallies si avvia a diventare la regina dell’Africa, così come lo sono ancora oggi le vecchie 504 che in molti di questi paesi continuano ad arrancare stracariche su piste dove non esistono altri mezzi di trasporto.

Ma la Dakar non è soltanto l’ avventura di questi divi del manubrio o del volante. E’ anche, e più spesso, l’anticamera della morte per molti altri. Ieri è arrivato un povero disgraziato di francese che si era perduto 10 giorni fa nel deserto del Niger. Due giorni e due notti fermo, dormendo all’ addiaccio senza ormai più acqua tentando sotto il sole di riparare la sua moto. La morte era ormai lì ad un passo quando per sua fortuna è stato avvistato dal “camion-scopa” del deserto. Un mezzo che viaggia con giorni e giorni di ritardo e raccoglie i dannati di questa corsa. Al poveretto, senza bisogno di leggere la Bibbia, abbiamo offerto una doccia e un letto perchè non aveva in tasca neppure un franco. Gli abbiamo chiesto se rifarà mai una Parigi-Dakar ed ha risposto: “E come potrei vivere senza?”.

Fonte Repubblica

 La tappa è Agadez-Dirkou. Si attraversa il deserto del Ténéré su un fondo abbastanza piatto e tutto di sabbia. É una fortuna, perché il giorno prima mi sono lussato la spalla ed ho una piccola frattura ad una mano. Potrò guidare anche con una mano sola, per alcuni tratti. Ho superato il momento di maggior sconforto, 150 chilometri sul “tole ondulée”, con una spalla fuori posto, che al campo un medico francese è riuscito a rimettere in movimento con un colpo da maestro, una bendatura stretta ed una “ingozzata” di pillole contro il dolore.

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Il fondo oggi è molto tenero, per via di una tempesta di sabbia che si è abbattuta sulla pista. Lo scorso anno era molto più duro e veloce. I nostri piani di rifornimento, fatti in base all’esperienza passata, prevedono di fare il pieno all’albero del Ténéré, dopo 200 chilometri, e poi di fare tutta una tirata fino al traguardo. Sono circa 400 chilometri. Ma per via della sabbia morbida la velocità è molto inferiore allo scorso anno, non si riescono a superare i 110, 115 Km/h, ed i consumi sono superiori al previsto.

Inizialmente penso che sia un problema al motore…

Viaggiamo insieme, io ed Andrea Marinoni, mio compagno di squadra. Quando siamo in vista dell’oasi di Bilma, ben distinguibile anche in lontananza per la presenza di un faro che, proprio come quelli dei porti, serve ad indicare la strada alle carovane che attraversano il deserto, la mia Yamaha si ferma. Diavolo, ho rotto – penso – ed invece sono solo rimasto a secco di benzina.

Per fortuna Marinoni ne ha ancora un litro, così cominciamo a travasare dal suo serbatoio al mio, con un imbuto che abbiamo portato con noi per fare il pieno. Pensiamo solo di arrivare all’oasi, dove possiamo fare rifornimento prima di ripartire. Da lì a Dirkou, fine della tappa e della prova speciale, ci sono altri venti, venticinque chilometri. Mentre armeggiamo con imbuto e serbatoio sopraggiungono i primi concorrenti con le auto.

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Le Porsche ci superano velocemente. Facciamo segno ad una Mitsubishi Pajero di fermarsi ed il pilota, stranamente, perché di solito non ci degnano di una occhiata, si arresta in una nuvola di polvere. È Zaniroli… che come me ha finito la benzina proprio in quel punto. Non ci resta che ultimare i nostri travasi.

Ripartiamo per fermarci, con la mia Yamaha nuovamente a secco, proprio a 100 metri dal faro. Ad attenderci troviamo solo dei militari con delle jeep, ma tutte a gasolio. lo sono fermo, tocca ad Andrea Marinoni infilarsi nel villaggio in cerca della sospirata benzina. Torna indietro in un attimo: in previsione del passaggio del rally i locali hanno preparato delle taniche; lui ne ha comperata una ed ha ripercorso la pista guidando con la latta sul serbatoio che gli scivolava da tutte le parti.

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Inizio a vuotare. È un liquido bello chiaro, trasparente, anche se un po’ oleoso. Mi tornano subito alla mente le parole del nostro direttore sportivo: “non fate benzina a Dirkou perchè non è buona”. Mentre Marinoni fa il pieno alla sua moto, che ha lasciato con il motore acceso, io cerco di avviare la mia, ma senza successo. Andrea prova ad aiutarmi, ma non serve, così fermiamo Gualini e lo spagnolo Mas che ci hanno raggiunto, per farci dare una mano.

Niente da fare. L’unico risultato è di perdere un bel po’ di tempo e Marinoni, che in classifica è messo meglio di me, decide di andare avanti per non accumulare ulteriore ritardo. Ma quando monta in sella si spegne anche la sua moto, e la storia si ripete. Gualini prova a tirarlo con una fune, ma una volta cade lui ed una volta Andrea, senza risultati. Così che mentre loro si allontanano a quel modo io comincio a smontare la candela ed il filtro, pensando che ci sia qualche problema con la pompa della benzina.

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Mi basta avvicinarmi al carburante per percepire un odore strano. Faccio annusare anche ad un militare che mi sta intorno ed ho la conferma ai miei dubbi : è gasolio! Non c’è niente altro da fare che cercare della benzina. Mi da una mano un soldato e con la sua jeep andiamo a cercarla. Naturalmente Marinoni è fermo poco più avanti : gli dico di smontare il serbatoio e di aspettarmi.

Vago a vuoto fino a quando proprio in fondo al paese trovo un vecchio che fuori dalla casa ha un bidone con dentro la benzina. Il prezzo è d’amico: per darmene una tanica vuole 500 franchi. Da quel momento è una corsa nella corsa. Puliamo il serbatoio, cambiamo la candela, buttiamo un po’ di benzina nel carburatore e una volta rimontato tutto con tre pedalate le Yamaha vanno in moto. Sono in un bagno di sudore, e dopo essermi asciugato in tutta fretta riparto. Due ore di ritardo per una stronzata! Anche questa, però, è la Dakar.

Tratto da Dakar Dakar 2
Testo Paolo Scalera
Foto Dune Motor

Nei due briefing che istituzionalmente aprivano la Dakar, quello di Parigi e quello sulla nave che portava ad Algeri, Thierry Sabine non si stancava di ripeterlo qualora vi perdeste non abbandonate mai il vostro mezzo. Mai. L’istinto dell’uomo, infatti, in questi casi inusuali tradisce : spinge a cercare aiuto, ma il primo aiuto un corridore della Parigi-Dakar sa, invece, che deve dado ai propri soccorritori.

Deve cioè facilitargli il ritrovamento. Il primo comandamento, dunque, é non abbandonare l’auto. Il corollario di Balise_2questo non dipingerla preferibilmente di giallo, colore che la rende invisibile nel deserto da un elicottero. La seconda regola prepararsi ad attendere. Una attesa, é chiaro, di un soccorso che non sarà immediato. Solo dopo 12 ore, e comunque mai di notte, si potrà iniziare con la prima operazione, la più semplice, ma anche la più importante. L’accensione della radio-balise.

Nell’equipaggiamento di ogni corridore, infatti, c’e una valigetta Samsonite che contiene il necessario per facilitare l’avvistamento. Il cuore dell’equipaggiamento é una radio che opera su di una sola banda di frequenza. La sua carica dura 48 ore ed il segnale, continuo, é un filo di Arianna per i soccorritori. Ma di notte il deserto è una immensa coltre senza riferimenti e confini. È il momento di sparare i razzi colorati che con la vivida luce del giorno sarebbero invisibili, mentre un fumogeno potrà essere lanciato quando un velivolo, magari, incrocia fuori dalla nostra portata.

Un filo di fumo, infatti, è visibile da molto lontano, e proprio grazie all’accorgimento di aver bruciato i pneumatici della sua auto uno ad uno, Simonin, in Mauritania nel 1984 fu trovato dopo tre giorni di ricerche. La gomma infatti fa molto fumo e brucia lentamente. Quindi l’ultima risorsa, come fu all’alba dell’uomo, é il fuoco. Per questo fra le tante raccomandazioni per i neo iscritti c’e quella di avere sempre con se almeno i fiammiferi, un coltello ed il telo di sopravvivenza.

Cos’é quest’ultimo? semplicemente un leggerissimo foglio di alluminio che da una parte riflette i raggi del sole, riparando dal calore, mentre avvolgendoselo addosso isola dal freddo. Ripiegato, sta in una tasca. Ma é molto semplice perdersi? Sembra una domanda scontata, invece con piccoli accorgimenti é possibile ridurre questo rischio al minimo. Il primo, naturalmente, é che appena ci si rende conto di aver sbagliato strada é più prudente ripercorrere le proprie tracce. Anche se ciò porta via del tempo.

 Schott HardenNel deserto, qualunque CAP, cioè rotta di bussola, si stia seguendo, si farà una marcia indietro di 180°. Imperativo é riprendere la pista principale. Ed uno dei trucchi, semplice ma vitale, è che quando le circostanze richiedono continue deviazioni per evitare, magari, tratti di pista troppo rovinata, si sappia sempre da che parte la si lascia. Se a destra o a sinistra. Non é difficile, intatti, che a forza di intersecarla alla ricerca del terreno più solido non ci si ricordi più da che parte si trovava n’ultima volta. La “pista” africana non è una strada asfaltata, è solo la rotta della consuetudine da villaggio a villaggio.

Può rovinarsi e divenire impraticabile, in un punto. Una nuova consuetudine traccerà, allora, una nuova pista, parallela, che tornerà a quella principale. E così decine, centinaia di volte. Tanto che nella savana più che nel deserto il terreno apparirà a volte come un dedalo inestricabile di sentieri. Si parla sempre, alla Dakar, di concorrenti che hanno sbagliato strada prendendo, per questo, ore di penalità. Bene, cioè accade quasi sempre quando il rally abbandona il deserto per le savane.

Nelle sconfinate distese del Ténéré infatti ad aiutarci c’è la bussola, e poi la posizione del sole. Servono principalmente nervi saldi. Quando la vegetazione invece forma schermi impraticabili, non c’è bussola o sole che tenga. Al massimo possono tornare utili le carte, possibilmente quelle militari, dettagliatissime, per rendersi conto della propria posizione. Tuoi i migliori equipaggi le hanno, e non sono solo utili nei momenti d’emergenza, anzi, non é raro vedere i piloti studiarsele prima del via. Prendere nota dei bivi, dei villaggi. Come sempre, anche in Africa, la migliore sicurezza viene dalla prevenzione.

Fonte Dakar Dakar2

Testo Paolo Scalera

Fu la mia prima Dakar, la mia migliore. Abbandonai in fondo al Ténéré, e lì, fui caricato sul camion balai, abbandonando e perdendo la mia moto per sempre. La tappa dopo fu neutralizzata in un trasferimento che passò alla storia come più pericoloso della speciale, da N’Giugmi a N’Djamena.

Dopo quella tappa, più nessun ritirato (tra le moto). Ero talmente incazzato che non volli sentire ne leggere più nulla della Le Cap. Riuscii a raggiungere un aeroporto tra passaggi in taxi e mezzi di fortuna, e prendere un volo verso casa da Niamey.

Arrivai in Italia che la gara era già finita, ancora vestito da moto con stivali, tuta e casco in mano. Appresi della morte di Lalay dall’amico che mi venne a prendere di notte a Malpensa. Ho un ricordo talmente bello ma devastante di quella edizione che mi fa dire oggi “io c’ero”.

Ma in quei giorni mi sono maledetto. Mai edizione tanto sgangherata e sfortunata. Pochissimi iscritti. Nella sua approssimazione, l’organizzazione di Gilbert Sabine mi regalò dei bivacchi a contatto coi campioni, dove loro stessi avevano poca assistenza. Un’edizione dove privati e ufficiali mangiavano assieme. Bella gente. Bei ricordi.