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Dakar 1987 | Cagiva XD10 la “cafona”

Quella dell’86 fu la gara più amara in assoluto per la squadra varesina: a pochi chilometri dall’arrivo, quando sembrava che la grande corsa fosse finita, Giampaolo Marinoni seguiva la sorte di Sabine, dipingendo di nero l’edizione più tragica della Dakar. Nel suo ricordo, per onorarlo nel sacrificio dello sport, la Cagiva si ripresenta con quella che, almeno sulla carta, è una delle squadre più forti.

De Petri e Auriol puntano sugli 80 CV del Ducati CAGIVA la più potente

Quattro piloti: i due francesi Auriol e Picard ed i nostri De Petri e Gualdi, e due staff al seguito: uno in pista capitanato da Vismara che guiderà anche uno dei quattro mezzi d’assistenza ed un altro, comprendente anche un medico, sull’aereo dell’organizzazione. Gli uomini non abbisognano di grandi presentazioni: Auriol ha già vinto due volte; De Petri lo scorso anno ha vinto sei tappe e cinque successi li ha colti nell’ultimo Rally dei Faraoni; Gualdi, ex regolarista, debutta in Africa ma vanta successi nei campionati europeo ed italiano d’enduro e nella «Sei Giorni».

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Il francesino Picard è il gregario ideale, sempre pronto a sacrificarsi per il suo «capitano». Le moto sono le rinnovate Cagiva 850. Il motore bicilindrico Ducati con i suoi 80 CV consente loro di raggiungere un velocità massima nel deserto di 185 Kmh, nonostante il peso a pieno carico, quindi anche con i 65 litri di carburante distribuiti nei due serbatoi, sia di 230 Kg.

elefant_87Dopo gli ultimi test, da parte dei piloti c’è la ferma convinzione che la moto disponga dell’affidabilità indispensabile per inserirsi di prepotenza nella lotta tra le bicilindriche, dominata finora da BMW ed Honda. Il prototipo che partecipa alla Paris – Dakar del 1987 viene profondamente rinnovato, per alimentare la cavalleria del motore Ducati la moto viene dotata di una carenatura integrale che comprende anche il serbatoio del carburante. Un serbatoio supplementare fa anche da sostegno per la sella.

Il risultato è un mezzo compatto ed efficacissimo sulle piste africane e, mentre una squalifica mette presto fuori gioco la coppia italiana Alessandro “Ciro” De Petri – Franco Gualdi, Hubert Auriol, coadiuvato nelle prime fasi da Gilles Picard, giunge alla penultima tappa (in pratica all’ultima, vera, speciale) in testa alla competizione seguito da Neveu su Honda.

Ma una stupida radice nascosta nella sabbia di una piantagione senegalese toglie di mezzo “Hubert l’africano”, agganciandone un piede e facendo perdere l’equilibrio al pilota che, così, va a sbattere contro un albero. Il francese ne riporta entrambe le caviglie spezzate e, dopo aver superato notevoli difficoltà per tutta la gara ed essere, anche in queste condizioni, riuscito a tagliare il traguardo, viene costretto al ritiro. Le immagini televisive di Auriol piangente dal dolore fanno il giro del mondo e lo elevano a vincitore morale di questa edizione della corsa.

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Immediatamente viene presentata sul mercato motociclistico una sorta di “Auriol replica”, come la definisce la rivista francese “Motoverte”, ovvero una Elefant che, a grandi linee, riprende l’impostazione della moto da gara. In realtà la moto in vendita al pubblico non è altro che la moto dell’anno precedente dotata di parafango basso e di carburatori Bing a depressione che ne addolciscono l’erogazione. Il richiamo estetico alla moto africana viene affidato alla carenatura integrale con il monofaro ora non più solidale alla forcella. Importante differenza è invece l’adozione del motore di 750 cc.

Tratto da Rombo 1987

Gualdi, il tedesco di Bergamo

Nato nel 1957 a Bergamo, Franco Gualdi si avvicinò al mondo delle moto per la passione trasmessa dal padre che correva in sella a Motobi, MV e Devil e così da giovanissimo prese parte alle primissime gare di enduro regionali. La sua biografia racconta di due sole Dakar, una delle quali nemmeno terminata e di una solida carriera nell’enduro.

Si guadagnò l’appellativo “Il tedesco di Bergamo”, per la sua guida impeccabile e per la precisione con cui studiava i percorsi. Come punto di partenza per la sua carriera da professionista, diciottenne, scelse di entrare nel gruppo delle Fiamme Oro dove conobbe Azzalin, anche lui attivo nello stesso corpo, ma con qualche anno in più: quando entrò Gualdi, Azzalin era uno dei “vecchi” che stavano smettendo di correre.

Franco fece le prime gare con la Sachs, dal 1974 al 1978, per poi passare a moto italiane.

Era il 1984 quando si avvicinò alla Cagiva, che lo volle per partecipare alla famosa Baya 1000, in Spagna: il suo compagno di squadra fu Gian Paolo Marinoni, ma con loro c’erano anche Roberto Azzalin e Ostorero. Se questi ultimi affrontarono la gara con come unico obiettivo quello di divertirsi, Gualdi e Marinoni, invece, avevano sete di risultati importanti.
La Baya era una gara con due anelli di 500 Km e il primo che arrivava, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, avrebbe vinto. Ogni 70 Km c’erano punti assistenza di tipologie alterne: uno di rifornimento, l’altro di meccanica.

La gara era a luglio e il percorso non era segnato con il road book. Quell’anno c’era Gaston Rahier, che era un pò il “padrone” del bicilindrico. Gualdi ad un certo punto se lo ritrovò davanti, superandolo su un tratto di strada molto tecnico e più affine ad un endurista come lui, che ad un crossista come il Belga. Poco dopo, con l’esuberanza tipica della sua giovane età, Gualdi arrivò lungo ad una curva e uscì fuori strada: non cadde, ma prese una grossa roccia e la piastra superiore della forcella si spezzo. Ma Gualdi non si arrese: prese una cinghia, la usò per legare la piastra al canotto di sterzo e riparti. Lui e il suo compagno arrivarono in fondo staccando un ottavo posto assoluto, alle spalle dei loro rivali in BMW.

 

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La sua prima partecipazione alla Dakar è datata 1987: Auriol e De Petri erano i piloti di punta, mentre Franco e Picard erano i loro gregari. In una tappa, la moto di Gualdi era come morta: pista larghissima, di 2 km e tutti i piloti passavano l’uno lontano dall’altro. Rimase fermo, con la paura che l’assistenza non lo vedesse.
Lasciò la moto a terra e posizionò la giacca a 300 metri, in modo da farsi notare senza rischiare la vita. Inizio a smontare la moto ma senza trovarne il guasto, finche verso sera arrivò il camion assistenza e caricarono la lui e la moto. Arrivarono al campo alle 2 di notte, a pochi km dall’arrivo. Gualdi, nascosto nel camion in mezzo alla moto e alle gomme, attraversò così il traguardo.

Scaricarono poi la moto e fecero un intervento di cambio motore. Alle 5 del mattino, prese la sua Cagiva, tornò indietro da una pista esterna, riagganciandosi così alla principale e tagliò il traguardo. Ormai era tardi e mancava solo un’ora alla partenza della nuova tappa, così bevve in fretta un sorso d’acqua, si diede una sciacquata e riparti subito per la tappa successiva. In generale, quella fu un’edizione sfortunata per Gualdi: bastava un’inezia e la sua moto era ferma e in più, la Cagiva era davvero impegnativa. Aveva il baricentro molto alto e il peso e la velocità non perdonavano: nel caso di cadute, risollevarla era una fatica, anche per i fisici più allenati.

Partita male, la gara non poté che proseguire peggio. A pochi km dall’inizio, trovò il collega Ciro con il cambio rotto: si fermò e gli diede una mano a sistemare la moto. Rimontarono per errore i due serbatoi scambiati e – proprio prima che se ne accorgessero e li invertissero-qualcuno passò e scattò una foto. Quell’anno passò agli annali per la loro squalifica, che arrivò subito dopo questo fatto e proprio a causa di quello scatto, dove si vedeva chiaramente una moto con il numero 99 sul frontalino e il numero 97 sui laterali, che venne usato come prova a dimostrazione di uno scambio di moto che non poté mai essere concretamente provato.

Fu una sorta di punizione divina: il team Cagiva non era propriamente un esempio di ligio rispetto dei regolamenti, ma non veniva quasi mai punito per mancanza di prove. Quella volta, invece, i protagonisti giurarono di non aver fatto nulla di scorretto, ma vennero penalizzati sulla base di una foto che non dimostrava nulla. Non ci fu comunque possibilità di appello, dal momento che la squalifica non arrivò subito dopo la gara, né il giorno seguente, che era di riposo, ma alle sette del mattino del giorno dopo ancora, poco prima che iniziasse la tappa.

Azzalin non poté fare altro che prendere atto della squalifica e De Petri e Gualdi rimasero fermi, con la minaccia che, se avessero provato a percorrere anche un solo chilometro, sarebbero stati squalificati per “assistenza indebita” anche i due compagni di squadra ancora in gara. Visto che Auriol era in testa, non valeva la pena rischiare, così i due gregari ripartirono per l’Italia e il giorno seguente, si ritrovarono in prima pagina sull’Equipe per una furbata che non avevano mai compiuto, e che, ovviamente, non avrebbero mai ammesso. Nel 1987 Gualdi si dedicò alla Proto: ci salì, la guidò, la sviluppò e la rese affidabile. Fece un ottimo lavoro sui carburatori, assieme a Franco Farnè: uno addirittura lo bucarono per capire il livello della benzina.

Farnè recuperava la benzina in esubero dal carburatore e la rimetteva nel serbatoio con un tubicino. Alla fine prepararono circa 20 carburatori: il Weber era il top, davvero micidiale appena si spalancava la manetta del gas. Provò poi le forcelle in Tunisia, assieme a Ciro, nella terra di nessuno, mentre a Savona e sulla scarsamente trafficata Gravellona Toce, fece i con i test delle mousse della Michelin. Gualdi andava a chiodo, ai 100 Km/h, poi tornava indietro e i tecnici testavano le gomme. Il problema, che rimase irrisolto anche durante la Dakar, era che a 170 / 175 Km/h si staccavano i tacchetti della ruota.

Mentre provava, Gualdi dovette fare un’ inversione ad U: la moto si spense e pareva non voler più a ripartire. Arrivò la polizia stradale e lo trovò lì, in mezzo alla strada, con un bolide senza nemmeno la targa. La fortuna di Franco fu di essere un collega delle Fiamme Oro: un saluto veloce ed era già diventato il loro idolo. Gli diedero addirittura una spinta e così riuscì a riavviare la moto. Cose che allora si facevano tranquillamente, ma oggi sarebbero impensabili… Nel 1988, si ritrovò quasi senza rendersene conto alla Dakar: partito da gregario di De Petri, fu l’unico dei piloti della Cagiva a concludere la gara. Era alla sua seconda partecipazione, come sempre faceva assistenza e non si illudeva di fare grandi risultati.

 

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Ciro avrebbe sicuramente potuto vincere qualche Dakar, se non avesse sempre voluto superare il limite: pur sapendo che a più di 170 Km/h le gomme si strappavano, lui non rallentava mai e così le squarciava. Toccava poi a Franco recuperarlo, in pieno Sahara: certo, anche a lui sarebbe piaciuto andare più veloce, magari nella speranza di recuperare 15 minuti, perché quel deserto sembrava asfalto, ma invece andava a 150 Km/h in sicurezza. Tanto sapeva che poi avrebbe trovato De Petri con le gomme scoppiate: lui si fermava e gli dava la sua gomma e, con questo giochetto, Ciro manteneva una buona posizione in classifica, mentre lui scivolava sempre più indietro.

Una volta incontrò Ciro che aveva un diavolo per capello, andava a 90 Km/h e imprecava contro se stesso e la sua moto: il motore andava a uno, e passandogli vicino, Gualdi si accorse subito che aveva la pipetta della candela staccata. Non fece in tempo di segnalargli il guasto, che non lo vide più, perché era partito a fuoco: 50 Km con un solo cilindro e poi gli diede paga. Ciro era così: da alcuni punti di vista davvero incorreggibile. Il team Cagiva era rispettato e temuto: De Petri alla fine si ritirò e Azzalin chiamò Franco e gli disse di fargli vedere di cosa era capace. Era a cinque ore dal primo e voleva quantomeno arrivare a fine gara con lo stesso distacco, senza però fare il matto per recuperare il tempo perso.

Azzalin gli diceva di attaccare e lui cercava di fare del suo meglio, ma senza strafare: alla fine arrivò sesto. Era davvero soddisfatto del risultato: a conti fatti, se non ci fossero state tutte quelle soste per aiutare gli altri, probabilmente avrebbe potuto raggiungere un risultato ancora più importante. Franco teneva un diario durante la Dakar, in entrambe le edizioni: quando alla sera arrivava al campo, scriveva qualche riga. A fine gara, lo riponeva ed oggi ammette che furono proprio quegli scritti a indurlo a non partecipare più a quella gara, meravigliosamente maledetta.

Conservò dei ricordi stupendi, ma su quei diari scrisse parecchie cose che nessuno ancora sa: un giorno, magari, li tirerà fuori e li renderà pubblici. Gualdi fu sempre molto saggio e non lasciò mai nulla al caso: se per cambiare la gomma servivano tre leve, lui cercava di averne quattro piuttosto che due; se la moto aveva un limite, sapeva che era meglio non stuzzicarla; se il cambio era delicato, era decisamente consigliabile guidare con attenzione; evitava di superare nella polvere, per non rischiare di prendere un sasso che non avrebbe potuto vedere.

La sua filosofia era: “Tirare i remi in barca e portare a casa il risultato.” Certo, questo approccio, alle volte lo frenò dal raggiungere successi più importanti, ma lo portò sempre in fondo ed oggi, tutto sommato, lui è contento così. Stare nel Team con Cagiva fu un’esperienza indimenticabile: in ogni situazione, si faceva il possibile e anche l’impossibile. Arrivare al bivacco era già un buon risultato per Gualdi e da quel momento, iniziava il lavoro dei meccanici. Probabilmente, poi, rischiavano più loro dei piloti, facendo i trasferimenti con quegli aerei poco probabili!

Anche con Azzalin, Gualdi aveva un bel rapporto: addirittura alla prima Dakar era previsto che dormissero in tenda insieme, ma durò solo una notte, perché Roberto russava a tal punto da non far chiudere occhio al pilota e svegliando perfino se stesso di soprassalto. Dopo quella prima sera, Azzalin andò a dormire sotto il camion per permettere a Franco di riposare. Forte di tutte le esperienze che condivisero, l’amicizia fra loro si rinsaldò: oggi, guardando indietro, per Gualdi la Cagiva era incarnata in Roberto Azzalin. Conobbe ovviamente anche Claudio Castiglioni, ma non entrò mai nel suo mondo e il loro rapporto rimase sempre formale e legato a pure questioni di lavoro.

Lo stipendio di Gualdi era dato in parte anche dal suo ruolo di collaudatore: col passare degli anni, non era più all’apice della carriera come endurista e, cavandosela bene come meccanico, portò avanti lo sviluppo di moto e di motori che poi divennero di serie e di un 750 monocilindrico che non venne mai realizzato. Aveva una buona sensibilità e gli piaceva provare fino ad ottenere un risultato finale soddisfacente, come fece con le forcelle Marzocchi o con un motore da 45 cavalli che riuscì a portare a 50. I meccanici erano a sua completa disposizione, qualunque cosa dicesse o chiedesse. Fece però un lavoro relativamente breve: trasmise quello che poteva ma tutti i test venivano fatti con Ciro De Petri: era lui l’uomo di punta e la moto veniva fatta in base alle sue esigenze. Gualdi doveva testare quello che Ciro voleva: gli chiesero di sistemare alcune cose, ma alla fine era De Petri che decideva.

L’arrivo di Orioli fu determinante per la crescita delle Cagiva: si partì da un motore Ducati, lo si portò al massimo della potenza e si lavorò sull’affidabilità. Sulla moto del 1987 sarebbe bastato un 750, anziché un 850, ma con lo sviluppo non si poteva tornare indietro, e con quella moto Ciro vinse tanto. E se nel 1990 si arrivò a vincere, fu certamente anche grazie al grande lavoro fatto in termini di crescita e sviluppo. A quel tempo i francesi erano i big, mentre gli italiani non erano ancora pronti per vincere una Dakar. De Petri era il migliore dei nostri, tuttavia chiunque era consapevole che il pilota da battere non era lui, ma i francesi, come Auriol.

Quando Gualdi ebbe occasione di averlo come compagno di squadra, ne approfittò per rubargli qualche segreto e la sua guida migliorò sensibilmente. Hubert si rivelò un uomo serio, più attento e preciso che veloce. Però era un “francese”: di lui, come di tutti i suoi connazionali, Gualdi imparò a non fidarsi mai troppo, perché i cugini d’oltralpe sono un pò gelosi della Dakar. La ritengono una gara loro. Gli italiani invece erano tutti un pò particolari: buoni e scaramantici, pieni di rituali, come quello di De Petri che tutte le sere si faceva preparare l’acqua calda da Forchini, il suo uomo di fiducia, per lavarsi la testa.

Gualdi affrontò anche molte altre competizioni, come il rally del Titano, però la Dakar rimase sempre una gara unica: tutti gli altri passarono in secondo piano. Da un’edizione si portò a casa tutti i road book con l’intenzione di rifarla da turista, con calma, facendo le tappe non in 5 ore ma in 12, guardando i posti meravigliosi che non riuscì a vedere da pilota. Non lo fece mai. Da pilota non c’era tempo di pensare troppo, rifletteva solo alla sera, una volta raggiunto il traguardo. Una volta Franco finì in un paesino sperduto, dove tutti erano nudi e lo guardavano come un alieno. Le donne e i bambini si rifugiarono nelle case e rimase solo un uomo che capiva il francese: Gualdi non era il primo straniero che vedevano; cercò di farsi dare delle indicazioni e poi se ne andò.

Si ripromise che ci sarebbe ritornato, ma non lo fece mai. La gara comportava dei rischi, ovvio, ma era anche gioia e divertimento, e la parte pericolosa era sempre minore rispetto a tutte le situazioni positive e indimenticabili. Ancora oggi, molte volte Gualdi si chiede perché correva e si risponde che non era per l’adrenalina e la voglia di rischiare. ll rischio c’era, ne era consapevole e faceva parte del gioco, ma non lo cercava per forza. Era consapevole che ogni volta che partiva avrebbe potuto essere l’ultima, ma non si divertiva a sfidare la morte per il gusto di farlo.

Partiva e basta. La Dakar non era certo la situazione più sicura del mondo: non si dormiva, non si mangiava, si soffriva… ma si conoscevano le persone per quello che erano, senza maschere. E poi, quando si tornava, ci si ritrovava con il “mal d’Africa”. Solo chi ha vissuto esperienze come quelle può comprenderlo e Gualdi lo conosce ormai benissimo: il senso di malinconia e nostalgia per quei luoghi lo accompagnerà per tutta la vita.

DAKAR 1994 | CIRO DICE BASTA

Foto Gigi Soldano
Testo di Biagio Maglienti tratto da Motociclismo

Ciro ha detto stop; basta con la Dakar e le gare. «A trentotto anni — dice Alessandro De Petri, in arte “Ciro” — bisogna anche saper smettere». Conoscendolo sappiamo quanto gli possa essere costata questa decisione. Tanto è che ha voluto concludere un’importante parentesi della propria vita in modo poco traumatico, schierandosi al via della 16a Dakar da semplice partecipante, quasi un turista. «Ma non pensiate sia stato comunque facile — continua il bergamasco — reprimere il mio istinto. Mi sono dovuto imporre una forma di autocontrollo. Nelle prime tappe ha prevalso il De Petri pilota. Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un 10458928_10203400208157276_1120159053910473021_n - Copiamatto. Assurdo! Al termine della seconda speciale ero 35esimo; sono partito e ho iniziato a tirare. Ho sorpassato quasi tutti, arrivando a un minuto dai primi. Li superavo nei posti più impensati, difficili, rischiando il tutto per tutto. Poi ho riflettuto; ho capito che non era questo il motivo per il quale avevo deciso di prendere parte a questa gara ancora per una volta. Nella tappa successiva ho preso il via e, percorsi dieci chilometri, mi sono fermato. Ho messo la moto sul cavalletto e ho aspettato un quarto d’ora. È stata una vera e propria sofferenza vedere gli altri passare e io lì fermo; ma alla fine ce l’ho fatta. Frenato l’istinto agonistico ho iniziato la mia vera Dakar; una Dakar da “esploratore”, per apprezzare tutto quanto in questi undici anni mi ero perso. Nuove emozioni, luoghi e persone; ho fotografato tutto nella mia mente e presto, anzi prestissimo lo racconterò in un libro. Beninteso, non per protagonismo o a scopo di lucro (il ricavato andrà in beneficenza). Unicamente per dare una volta per tutte il reale volto ad una gara troppo spesso non capìta».

 

 

Alessandro De Petri ha detto basta a trentotto anni, dopo aver vinto per tre volte il Rally dei Faraoni, due il Tunisia, raccogliendo un totale di 67 successi parziali di tappa. È stato per anni l’italiano simbolo di questo genere di competizioni. Gli è mancata, forse più per sfortuna che per altri motivi, la vittoria importante. Quella Dakar sognata ad occhi aperti in diverse occasioni, della quale ha sentito più volte il profumo e che il destino avverso gli ha sempre negato. Ma De Petri non sembra curarsi di questo “piccolo” particolare.

«È chiaro, mi pesa non aver mai vinto una Dakar, perché da pilota professionista quale ero, non vincere questa competizione è un po’ veder 11140119_10204842355488178_6697427028410064163_nsfumare il sogno per il quale hai impegnato tutte le forze e parte della tua vita. Però analizzando obiettivamente il problema, senza farmi illusioni, sono ugualmente soddisfatto. Se avessi corso questa gara con un’altra testa probabilmente il successo non mi sarebbe sfuggito. Il mio carattere esuberante me lo ha impedito. Con questo non rinnego nulla di ciò che ho fatto in questi anni. Sono così in gara e nella vita, non avrei potuto comportarmi diversamente. Se dovessi tornare indietro rifarei tutto quanto, non cambierei nulla e soprattutto non cambierei mai i miei successi parziali con una vittoria finale».

La Dakar è una gara dura, invivibile, ma proprio per questo affascinante. «È unica al mondo — continua Ciro — e solo chi vi ha partecipato può realmente capire le motivazioni che spingono i piloti ad affrontare fatiche sovrumane, mettendo a dura prova e a volte superando il limite di sopportazione per qualsiasi essere vivente». E dieci anni di Dakar non si dimenticano tanto facilmente. Soprattutto se, come nel caso di De Petri, sono stati parte integrante della sua vita di pilota e inevitabilmente di uomo.

 Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un matto, assurdo!

Così Ciro inizia: «Che avventura incredibile. Il mio passato è indissolubilmente legato alla motocicletta. Ho iniziato a gareggiare prestissimo e con buoni risultati, nel cross e nell’enduro. Terzo in un mondiale cross 125 e campione europeo di enduro. Poi ho deciso di abbandonare le corse per dedicarmi alla mia attività principale, quella di odontoiatra. Ma il futuro stava per riservarmi ancora un qualcosa di straordinario. A ventott’anni sentii parlare di una gara con un “matto” che attraversava l’intero deserto sino a Dakar, partendo da Parigi. Gareggiava contro le auto e vinceva».

Per la cronaca il “matto” era Neveu e la gara la Parigi-Dakar «Non ho avuto dubbi e mi imbarcai in quella che poi sarebbe divenuta, a breve, la mia vera professione. Andai da Farioli e chiesi una moto; poi comprai una Range-Rover usata e ingaggiai Felicino Agostini (fratello di Giacomo e cognato di De Petri) e Giacomo Vismara. L’avventura era iniziata».

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Lo guardi e il suo volto tradisce l’enfasi. La prima esperienza e l’ultima sono indubbiamente quelle che lo coinvolgono di più a livello emotivo. I ricordi lo riempono e si accavallano. Si ricorda di Claudio Torri, un illustre sconosciuto, ma… «La Dakar, non vorrei cadere nella retorica, è una vera scuola di vita. Ti insegna a lottare, a cavartela da solo e ti aiuta a capire la gente. Un personaggio in particolare mi è rimasto nel cuore. Un “privato”, l’architetto milanese Claudio Torri. Si è presentato al via con noi nel 1983. Era per tutti la prima esperienza, ma per lui lo fu ancora di più. Si era già mezzo distrutto (fisicamente) nel prologo e continuò questa sua opera di annientamento nel prosieguo della competizione. All’imbarco per l’Africa rischiò di non espatriare; aveva posato i documenti e il portafogli sulla sella della moto. Quando l’elicottero si alzò in volo lo spostamento d’aria sollevò i documenti e i soldi che finirono in acqua. Poi, qualche giorno più tardi, al limite tra il comico e il grottesco, nel tentativo di raddrizzare il manubrio della mia moto, aiutando Agostini, prese in mano il martello e distrattamente si diede una martellata in testa. Per quasi tutta la gara Torri fu il protagonista di un continuo succedersi di eventi di questo genere. Mai un lamento. Ore e ore consecutive in sella senza dire una parola: fantastico e incredibile!».

Tra i ricordi spunta anche il mito, quello di Sabine. La Dakar è legata a questo nome nel bene e nel male. De Petri lo ricorda così: «Non DePetri_1994_1sbagliava mai, era capace di prendere decisioni importanti, dalle quali dipendeva l’incolumità di tutta la carovana della Dakar Ha sempre avuto ragione e i piloti, i meccanici e tutto l’entourage al seguito della gara hanno iniziato a fidarsi ciecamente di questo francese spuntato dal nulla, sino a quando la sua figura è divenuta un punto di riferimento costante per tutti noi, un faro da seguire. E quando è mancato, quando è giunta la notizia che l’elicottero si era schiantato al suolo, tutta la carovana in silenzio è ritornata sui propri passi andando sul luogo del tragico evento. Era notte; quando arrivammo ci si presentò una scena apocalittica: lamiere sparse ovunque, non c’era il minimo segno di vita. Non potrò mai dimenticare».

Questa è la Dakar, nei suoi accenti più forti, ricordata da Ciro De Petri. Il terribile incidente al Faraoni nel 1992 lo ha convinto ad abbandonare. «Sì probabilmente la molla che ha fatto scattare in me la decisione di smettere è venuta anche a seguito dell’incidente. Due mesi di coma non sono uno scherzo. Ma, sembrerà strano, un controsenso, l’incidente è stata l’occasione per risalire nuovamente in sella, per l’ultima volta. Uscito dal corna mi sono lentamente ripreso, ma mi rimaneva una sorta di intorpidimento e di stanchezza; un vero e proprio tormento. Una mattina, tre mesi fa, ho deciso che sarei ritornato a correre. Ho ripreso ad allenarmi e immediatamente mi sono passati tutti i disturbi; avevo già vinto, ancor prima di iniziare la gara».

Dakar 1985 | La Cagiva si regala Hubert Auriol

Se c’è qualcuno che può giudicare BMW e Ligier-Cagiva costui è senz’altro Hubert Auriol, il trentenne francese vincitore con la BMW di due Parigi-Dakar, passato quest’anno alla Cagiva per sviluppare la 750 Elefant. Naturalmente Auriol ammette la superiorità della sua moto attuale.

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«Non posso sbilanciarmi più di tanto – dice – perché ho provato la Ligier-Cagiva solo nel Rally di Algeria il cui percorso è assai diverso da quello della Parigi-Dakar; l’impressione iniziale è che la potenza tra le due moto sia più o meno equivalente; la sospensione posteriore della Cagiva è assai più efficiente, quanto al peso credo che la Ligier-Cagiva sia inferiore di una quindicina di chilogrammi rispetto alla BMW, quindi…»

Per l’ex pilota BMW e «re» delle gare africane è meglio la Cagiva

 I maligni dicono che hai lasciato la BMW per via della rivalità con Rahier, l’ex crossista belga che era stato assunto per farti da spalla due anni fa e nell’ultima edizione ti ha soffiato la vittoria…

«E una spiegazione semplicistica questa: ho cambiato squadra per diverse ragioni. Dopo tanti anni passati con la BMW cercavo nuovi stimoli, e collaborare con un team entusiasta come quello della Cagiva per realizzare dal nulla una moto vincente è uno stimolo enorme».

Rahier?

«No, non è stato lui la causa».

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La squadra Ligier-Cagiva è in realtà italiana o francese?

«Marinoni. uno dei piloti, è italiano; due meccanici al seguito sono italiani, tutti gli altri sono francesi. Ci siamo divisi i compiti: la Cagiva ha costruito la moto, l’ha modificata seguendo le nostre indicazioni dopo le prime prove; io che ho più esperienza di loro di corse africane ho organizzato il team».

Al Rally di Algeria le Ligier-Cagiva hanno sofferto di un guasto corrente: la rottura dei cuscinetti del cambio e la bruciatura dei dischi frizione. Per la Dakar il problema verrà risolto con nuovi cuscinetti e con l’adozione di un circuito di raffreddamento integrale dell’olio che lubrifica cambio e frizione.

Tratto da Rombo

Dakar 1985 | La Cagiva Elefant 750 secondo Giampaolo Marinoni

Il deserto? Per un bergamasco abituato alle montagne come me è comunque stupendo; mi piace correrci, mi piacciono le piste africane. mi piacciono i raid perché sono una scuola di vita, un modo di sentirsi libero». Eppure Giampaolo Marinoni. 26 anni, nato in provincia di Bergamo, un passato di corridore professionista nelle gare europee di regolarità, una militanza che dura ancora nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro, quelle cui appartengono parecchi crossisti, porta ancora sul volto, a giorni di distanza, i segni del “suo” deserto.

Giampaolo Marinoni non crede alla superiorità della BMW

Rimasto appiedato per la rottura della frizione della Ligier-Cagiva nella penultima tappa del rally d’Algeria, Marinoni prima ha percorso una dozzina di chilometri a piedi da solo nella sabbia, poi ha trovato un passaggio sulla Yamaha 600 dell’americano Stearns, finito fuori tempo massimo, e infine è caduto rovinosamente di faccia assieme all’americano perché questi, forse per la rottura della sospensione posteriore o per aver messo le ruote in due solchi diversi, aveva perso il controllo della moto in pieno rettilineo.

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Rancore nei confronti del deserto Marinoni non ne porta: «sarei pronto a ripartire anche oggi per un’altra corsa», dice. Non dovrà aspettare molto perché la Parigi-Dakar, la gara alla quale prenderà parte sulla Ligier-Cagiva al fianco di Auriol e Picard per contrastare il passo a BMW, Honda, Yamaha e Suzuki, avrà inizio tra un mese esatto: il primo gennaio. Marinoni e Auriol hanno preso molto sul serio la corsa africana: la Ligier-Cagiva (ma chissà perché il nome Ducati, che è la marca che ha fornito il motore e il cui reparto corse ha materialmente lavorato dietro la moto non viene mai citato…) nel momento in cui debutterà alla Paris-Dakar avrà alle spalle due sole corse di prova: la Baja spagnola e il rally di Algeria novembrino; in questa ultima gara la moto italiana ha evidenziato doti enormi anche se la fragilità di alcuni componenti, frizione in particolare, l’hanno costretta al ritiro.

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La Ligier-Cagiva monta il motore bicilindrico a L 4 tempi di 750 cc della Ducati: è lo stesso motore usato nelle corse di endurance, anche se la potenza è notevolmente inferiore. Anche il motore della BMW è bicilindrico, ma con i cilindri boxer (a 180 gradi tra loro); il fatto che il 980 cc BMW favorito derivi da un propulsore stradale assai più «calmo» del Ducati significa che il motore italiano, a proprio agio nelle gare in circuito, sia meno adatto per competizioni desertiche?

Marinoni non è di questa opinione, tutt’altro. «Io penso che le caratteristiche del motore Ducati siano buonissime per gare africane. Anche perché in pista la Ducati utilizza motori che sviluppano circa 95/96 cavalli. Nel deserto serve molta meno potenza. Questo motore avrà dai 65 ai 75 cavalli: è stato depotenziato per guadagnare coppia, tiro in basso. Questo motore da Africa, che è un 750, gira a regimi inferiori del Ducati 650 stradale ma ha molta più progressione: a 5000 giri sviluppa già 52 dei 70 cavalli di potenza massima.» La rivalità tra Ligier-Cagiva e BMW alimentata dalle dichiarazioni polemiche dei rappresentanti delle due squadre. La marca tedesca ha spavaldamente dichiarato che le loro bicilindriche, edizione ’85, vincitrici un paio di mesi fa del Rally Faraoni, sviluppano oggi un centinaio di cavalli. Almeno trenta in più di quanto ammesso dalla Cagiva. Il che, se fosse vero, significherebbe possibilità di ottenere velocità di punta più alte.

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Marinoni invece giudica queste affermazioni pura pretattica. «Non ci credo; a me piace dire le cose come stanno: anch’io potrei dichiararti 90 cavalli di potenza senza averli, BMW dichiara 100 cavalli c Rahier, il loro pilota, dice che la sua moto a vuoto, senza benzina, pesa 140 chili, cosa per me inaudita perché tutti sanno fare i conti: una moto come la BMW, di serie, non può pesare meno di 155 chili. Ammettendo pure che i tedeschi ci abbiano lavorato attorno per alleggerirla, non possono aver guadagnate, tanti chili perché troppi sono i componenti da aggiungere a una moto perché sia in grado di affrontare una Parigi-Dakar. Componenti che hanno una massa. Poi un motore 1000 come il loro ha bisogno di determinate masse per funzionare. Solo il motore BMW pesa 60 chili; hanno forcelle eguali alle nostre, le ruote sono le stesse, la trasmissione a cardano BMW penso pesi di più della nostra catena; allora dove hanno guadagnato quei 20-30 chili rispetto alle nostre Cagiva che arrivano a 160-170 kg? Solo con serbatoi in plastica?».

Una delle modifiche più curiose apportate al motore Ducati 750 della Ligier-Cagiva, rispetto al propulsore da strada, è il capovolgimento della testata del cilindro posteriore. «Lo scopo – spiega Marinoni – è quello di avere tutti e due i carburatori compresi tra i cilindri. Il vantaggio è immediato: il carburatore dietro al cilindro avrebbe ricevuto troppa aria calda: questa sistemazione invece ci per-mette di avere i due carburatori vicini, a portata del grosso filtro aria che ha una aspirazione diretta dal telaio tramite due fori ovalizzati». Un serio problema nelle moto per gare africane è l’autonomia: devono essere in grado di coprire almeno 450-500 km senza rifornimenti. Inoltre nel deserto i consumi medi aumentano vistosamente perché il fondo sabbioso, peggiorando l’aderenza. obbliga spesso motore e ruota a lavorare a vuoto; si spiegano perciò i giganteschi serbatoi che hanno ispirato la moda «africana».

La Cagiva, il cui motore bicilindrico è ancor meno parco di altri, ha aggirato l’ostacolo con due serbatoi. «Quello superiore contiene 49 litri – dice Marinoni – in più ne abbiamo uno sotto la sella da 14 litri; prima consumiamo tutta la benzina del serbatoio principale in modo che si abbassi il baricentro della moto; per ultimo impieghiamo il serbatoio secondario. Abbiamo una pompa a depressione. che alimenta i carburatori. Naturalmente con una sessantina di chili di carburante a serbatoi pieni l’assetto cambia, bisogna regolarsi di conseguenza prima di partire».

Tratto da ROMBO
di Alberto Sabbatini

AURIOL | TROPPO BELLO PER L’INFERNO

NOUAKCHOTT (Mauritania) – “L’Africa me la sono fatta praticamente da solo e questo più che un merito è un guaio, il più grosso guaio che possa capitare a chi corre una Parigi-Dakar. Non so ancora se sarò il vincitore, lo spero per la Cagiva, per il pubblico italiano che si aspetta di vedere per la prima volta una propria moto vincere questa corsa, ma è bene che tutti sappiano come stanno le cose”.

Hubert Auriol, un bel ragazzone francese, sempre allegro, elegante nei modi e nel parlare, sembra più un raffinato attore di teatro che una delle “bestie” che affrontano ogni anno questa follia ambulante che è la Parigi-Dakar. Auriol è un veterano di questa gara di velocità lungo deserti, savane e montagne, dell’Africa sahariana conosce ogni pietra, ogni duna, ogni miraggio e ogni arcano inganno. Eppure l’altro giorno anche lui è caduto in una delle mille e inaspettate trappole del deserto.

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Nel nord della Mauritania corre una vecchia ferrovia mineraria. Vi passa il treno più pesante del mondo: cinque locomotive da oltre 3mila cavalli ognuna e 10mila tonnellate di ferro sui vagoni. E ogni volta che passa, piccole schegge di binario, taglienti come spade, schizzano ai bordi della massicciata. Auriol, Vatanen e molti altri concorrenti per paura di perdersi nel deserto hanno voluto seguire la strada ferrata. Ma le forature sono arrivate a raffica una dopo l’altra.

Da quando viaggia in solitudine, a causa della discutibile squalifica degli altri due piloti della Cagiva, il povero Auriol vive con l’incubo delle forature. Perchè in questa gara l’ assistenza in corsa possono fornirla soltanto i compagni di squadra o altri concorrenti di buon cuore. Così chi è più avanti in classifica finisce col cannibalizzare piano piano le povere moto dei compagni. Oggi una ruota, domani una frizione, dopodomani un carburatore.

Ma Auriol è solo. Nei giorni precedenti aveva provato anche lui a montare le magiche gomme Michelin, che al posto della camera d’aria hanno una ciambella di gomma espansa. La Michelin, però, le aveva studiate per le moto giapponesi non avendo prestato molta attenzione alla casa motociclistica italiana. Così sulla moto di Auriol quella ciambella si scaldava troppo, fino a diventare una poltiglia. E allora il pilota francese non se l’ è sentita più di rischiare. Ha messo in spalla un po’ di camere d’ aria, come i vecchi ciclisti, ed è andato avanti da solo a combattere la battaglia con il suo rivale Neveu.

Aveva un’ ora di vantaggio su di lui e con cinque forature se l’ è mangiata quasi tutta. “Col senno del poi – ha detto – è facile scegliere, ma la sera prima non me la sentivo di rischiare”. Ieri, in un’ altra dura tappa tutta alla bussola, è riuscito ad arrivare incollato al rivale con un piccolo trucco. Ha caricato più benzina, deciso a non fermarsi mai per il rifornimento. E ce l’ ha fatta. Neveu si è invece fermato, è ripartito all’attacco ma al traguardo aveva solo una manciata di secondi.

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Una vittoria di Auriol per una casa come la Cagiva sarebbe una manna. “Quello che può rendere una Dakar – dice Roberto Azzalin, capo della squadra italiana – non lo saprei quantificare ma una cosa è certa: di una vittoria alla Dakar si parla in ogni angolo più sperduto del mondo e noi abbiamo contro tutta l’ industria giapponese. Poco più di cento persone contro migliaia di specialisti”. Adesso 9 minuti scarsi dividono Auriol e Neveu, la Dakar rischia di concludersi all’ ultimo momento.

Oggi c’ è una tappa difficilissima, ancora tutta da “navigare” alla bussola nella savana del Senegal. I due sono troppo esperti e troppo grandi per ricorrere a trucchi, ma quest’anno dinanzi alle centinaia di smarrimenti nel deserto, ci sono perfino dei concorrenti che per correre ai ripari hanno aperto la caccia al ragazzino. Piccolo, leggero, figlio di negri o di beduini non importa purchè conosca bene le piste. Se lo caricano in spalla dentro lo zaino e via a 180 all’ora.

Meglio avere un po’ di peso in più ma una guida sicura, così almeno dicono loro. Nelle auto un’ altra vittoria di Tambay, che tuttavia non infastidisce la Peugeot di Ari Vatanen leader della classifica. Le Peugeot sono imbattibili sul piano tecnico per la potenza che hanno, ma negli ultimi giorni hanno rischiato più volte di perdere questa corsa per l’ inesperienza africana del pilota finlandese e per i contrasti tra lui e il suo navigatore, il francese Bernard Giroux, telecronista di Tf1.

Prima del via al mattino Vatanen si siede al volante e in religioso silenzio si legge un passo della Bibbia. Fa tanti buoni propositi ma poi in gara non si fida del suo navigatore e fa di testa sua. Del resto anche il suo vecchio compagno di rallies ne aveva abbastanza di lui e del suo pessimo carattere. Domenica Vatanen si è perso nel deserto portandosi dietro altre 104 macchine che speravano di sfangarla seguendo il probabile vincitore su una strada sicura.

Risultato: tutti fermi fino a notte fonda, si sono beccati 10 ore di penalità. Lunedì per una foratura ha perso un’ora sul suo diretto avversario, il francese Zaniroli a bordo di una Range Rover. La classifica dice ancora Vatanen, ma basta poco per mandare al diavolo una vittoria che la casa francese ha costruito con mesi di duro e sapiente lavoro su una vettura che, dopo essere stata la regina dei rallies si avvia a diventare la regina dell’Africa, così come lo sono ancora oggi le vecchie 504 che in molti di questi paesi continuano ad arrancare stracariche su piste dove non esistono altri mezzi di trasporto.

Ma la Dakar non è soltanto l’ avventura di questi divi del manubrio o del volante. E’ anche, e più spesso, l’anticamera della morte per molti altri. Ieri è arrivato un povero disgraziato di francese che si era perduto 10 giorni fa nel deserto del Niger. Due giorni e due notti fermo, dormendo all’ addiaccio senza ormai più acqua tentando sotto il sole di riparare la sua moto. La morte era ormai lì ad un passo quando per sua fortuna è stato avvistato dal “camion-scopa” del deserto. Un mezzo che viaggia con giorni e giorni di ritardo e raccoglie i dannati di questa corsa. Al poveretto, senza bisogno di leggere la Bibbia, abbiamo offerto una doccia e un letto perchè non aveva in tasca neppure un franco. Gli abbiamo chiesto se rifarà mai una Parigi-Dakar ed ha risposto: “E come potrei vivere senza?”.

Fonte Repubblica

Dakar 1996, la disfatta Cagiva

Il bicilindrico Ducati era praticamente lo stesso della precedente stagione, ovvero il collaudato due cilindri a V di 90°, 904 cc albero a camme in testa e due valvole per cilindro a comando desmodromico. Il cambio è a cinque rapporti, la frizione a dischi multipli a secco. La moto portata in gara da Trolli sviluppa circa 80 cv di potenza massima. L’accensione è elettronica a scarica induttiva con anticipo variabile.

Nella foto si nota il supporto del motore costruito sul posto con una barra di ferro.

Nella foto si nota il supporto del motore costruito sul posto con una barra di ferro.

Uguali anche il moammortizzatore Ohlins con regolazione frenatura in compressione e estensione e la forcella Marzocchi da 45 mm con un’escursione di 290 millimetri. Le modifiche riguardano in parte la carenatura con un disegno più aerodinamico, una diversa taratura delle sospensioni e un leggero spostamento in avanti della guida, con conseguente diverso posizionamento della sella e del serbatoio.

Anche le pedane sono state spostate verso il retro della moto, per rendere più agevole la guida. La capacità del serbatoio anteriore è di 22 litri, mentre quello posteriore contiene 25 litri. Il telaio è praticamente uguale a quello della moto di serie con l’aggiunta di alcuni fazzoletti di rinforzo nelle zone posteriore e all’altezza dell’attacco del forcellone. E’ nella parte superiore a traliccio in tubi d’acciaio a sezione quadra e con la culla inferiore in tubi quadri in lega leggera.

Cyril Equirol

Cyril Equirol

I mezzi in gara hanno registrato la rottura del supporto di sostegno superiore del motore. Sui mezzi ufficiali si è ovviato a questo inconveniente apportando una modifica studiata e realizzata (anche con l’aiuto di artigiani locali) sul posto. Una barra di ferro rinforzava e sosteneva il propulsore legando il carter al telaio nella zona sotto il serbatoio. A 435 km dall’arrivo a Labè in Guinea, Trolli ha dovuto dire addio alla rincorsa ad Orioli a causa della rottura del propulsore.

Nella tappa precedente il piacentino era stato sfortunato rompendo il comando del gas e attardandosi ulteriormente. In panne anche Cyril Equirol e Alexander Nifontov, entrambi costretti al ritiro. La prima delle dieci Cagiva preparate da Azzalin è giunta al settimo posto, guidata dallo spagnolo Oscar Gallardo.

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CAGIVA Edi Orioli modellino Dakar 1990

La stagione delle gare africane ci offre lo spunto per trattare dei modellini in scala delle moto nate per i grandi raid e rese celebri dalle imprese dei vari Rahier, Neveu, Lalay, Peterhansel e Orioli. Erano prototipi sviluppati intorno al concetto di moto da enduro, ma raffinati a tal punto da poter essere considerate vere e proprie Formula Uno del deserto.

Macchine ineguagliabili che hanno fatto sognare motociclisti di ogni età e che oggi, scomparse dalla scena a causa dei nuovi regolamenti, sopravvivono sotto forma di modellini in scala. Modellini che vi presentiamo in questo servizio. Esemplari un po’ particolari perchè abbiamo voluto rielaborarli, creando un prototipo secondo i nostri desideri. Tutti i modelli infatti sono realizzati con grande cura, composti da numerosi pezzi e data la relativa grandezza della scala si prestano molto bene a essere utilizzati come base per altre versioni.

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La Protar ne ha in catalogo diversi, tutti i nscala 1:9 la BMW 1000, la Yamaha Ténéré 660 in due versioni Belgarda e Chesterfield e la Cagiva del 1987. Ed è proprio da quest’ultima che siamo partiti per realizzare la nostra versione, quella del 1990 vincitrice della Parigi-Dakar con Edi Orioli. Raccolta una opportuna documentazione fotografica abbiamo iniziato il lavoro. Il telaio strutturalmente invariato è stato solo modificato nel reparto sospensioni con l’adozione di una forcella a steli rovesciati e di un diverso forcellone.

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La prima è stata ricostruita completamente utilizzando, di quelle esistenti, la parte del fodero con gli attacchi per la ruota e per la pinza freno, la nervatura di rinforzo sul forcellone è stata realizzata tagliando alcune striscie di plastica di 1.5 mm incollate nella parte superiore con abbondanza di colla per simulare le saldature, infine sagomata con carta fine per ottenere la forma finale. Il motore è lo stesso bicilindrico Ducati raffreddato a liquido utilizzato da entrambe le versioni, ma quella da noi realizzata si distingue per l’aggiunta del radiatore dell’olio e di una pompa acqua di dimensioni e posizione diverse.

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Il radiatore dell’olio proviene dalla Yamaha 660 Ténéré della Protar, il supporto è stato ricavato da una nervatura esistente nel paracoppa sempre della Yamaha opportunamente sagomato. Per la pompa acqua abbiamo invece utilizzato un serbatoio ammortizzatore. L’aggiunta dei tubi dell’olio, dell’acqua e una cura generale del particolare, come la verniciatura delle viti e altri pezzi in color magnesio, hanno completato il montaggio del motore.

I freni anteriormente abbiamo verniciato la pinza in color oro, posteriormente abbiamo tolto il tirante inferiore di ancoraggio fissando il supporto pinza al forcellone. Verniciatura della pinza e del relativo supporto in oro e il raccordo per il liquido sul forcellone in lega hanno completato l’opera. Per il gruppo dello scarico i due collettori sono rimasti invariati, la parte terminale è stata ricostruita utilizzando un pezzo di tubo di gomma pieno sagomato a caldo.

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Per il silenziatore siamo partiti da un tondo di plastica sagomato nella forma originale e con dei fogli di plastica da 0.5 mm abbiamo realizzato la fascia di supporto ancorandola al telaio con una vite. A questo punto comincia la parte più impegnativa della trasformazione, cioè la carrozzeria. Stucco, carta vetrata, pazienza e tante fotografie hanno permesso di modellare, sulle parti interne del serbatoio e del fondo del gruppo sella codino. utilizzate per avere gli stessi attacchi sul telaio, le forme della nuova versione.

Fanali e cupolino trasparente sono di provenienza Yamaha 660 Ténéré versione Chesterfield della Protar. Cruscotto, strumentazione supplementare, tappi benzina e fanaliposteriori sono pezzi che abbiamo recuperato da modelli vecchi o rotti (mai buttare via nulla). La sella è stata ricoperta in pelle nera e nei paramani abbiamo eseguto dei fori di alleggerimento. Vernicatura dei filetti verdi e rossi, applicazione delle decalcomanie e, per finire, una mano di trasparente protettivo per evitare che le decalcomanie si rovinino col tempo, sono stati gli indispensabili tocchi finali.

Ringraziamo Massimo Moretti, creatore del modellino, per le foto e il testo.

Dakar 1989 – L’indimenticabile Guinea

TAMRACOUNDA – Vista dall’alto la Guinea è uno smeraldo incastonato nel deserto. Per gli equipaggi dell’undicesima Parigi Dakar, però, è un inferno verde, solcato dalle rosse arterie che sono le infide piste di laterite, velocissime ma scivolose. Al suo terzo impatto con la giungla il rally più massacrante del mondo ha riscoperto che non è solo il Ténéré a far soffrire. La Guinea se la ricorderanno a lungo Clay Regazzoni, Claudio Terruzzi, ma anche lo spagnolo Prieto, ed i due buoni samaritani del team Assomoto Giuseppe Cannella e Davide Pollini.

Speciale disumana: in corsa per 24 ore nell’inferno verde

Sono stati questi ultimi, infatti a tirare fuori dalla sua Mercedes semidistrutta da un capottamento Clay infischiandosene di prendere penalizzazione forfettaria.
Eravamo circa al chilometro 270 della speciale – raccontano questi due ragazzi trentenni, di Brescia – quando su di una pista veloce a gobba d’asino, abbiamo visto una macchina a ruote per aria. Era in una pozza di benzina ed il navigatore che era già fuori, perdeva sangue da un braccio. Lo abbiamo riconosciuto subito: era Del Prete, Clay era ancora dentro e stava tentando di liberarsi. Incuranti che il tempo scorreva, Giuseppe e Davide hanno sistemato Regazzoni lontano dalla macchina, appoggiato ad un masso perché la sua carrozzella era andata distrutta, e medicato Del Prete.
Nessuno si è fermato a darci una mano – ricordano i due – uno ci ha buttato una bottiglia d’acqua dal finestrino.
É passata gente che non aveva problemi di classifica… non capiamo, quando si è in speciale tutti si sentono dei campioni.

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Si è fermato, invece, Claudio Terruzzi ed anche Klaus Seppi. Una storia della Dakar, un frammento che, insieme ad altri, ricostruisce una delle giornate più dure del rally.
É stata una speciale disumana – dice senza mezzi termini Terruzzi, arrivato al campo a notte inoltrata – prima di incontrare Regazzoni ne avevo viste di tutti i colori. Sono finito in un guado al chilometro 130 lo stavo facendo a piedi perché la mia Cagiva andava ad un cilindro. Improvvisamente, mentre ero con l’acqua alla vita. il motore ha ‘”preso” e sono scivolato sul fondo viscido. Ci ho messo un’ora a tirare fuori la moto dal guado, grazie all’aiuto di alcuni ragazzi che venivano da un villaggio vicino, e con loro mi sono messo a smontare la moto per tentare di farla ripartire.
Ci sono infine riuscito, ma un ritorno di fiamma ha dato fuoco al filtro dell’aria ed uno dei miei improvvisati aiutanti, impaurito, ha gettato una manciata di terra nei carburatori… per fortuna mentre ero impegnato a smontare tutto di nuovo e arrivato Savoldelli, la mia assistenza, con la macchina, che mi ha tirato fuori. Ero triste quando ha lasciato dietro dirne tutti quei ragazzi che si erano dati da fare per aiutarmi, ma non ci ho più pensato quando, nel buio mi sono trovato a dover fare la pista dietro alle auto.

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In un polverone che limitava la visibilità a pochi metri Terruzzi è caduto, ha centrato una vacca, e ripartito di nuovo tirando alla cieca, ma non ha potuto evitare la penalizzazione.
E dire – ricorda – che ero partito benissimo… davanti a me avevo solo due tracce. Dovevo essere terzo prima di cadere in quel maledetto guado… il road book era fatto da cani, per un pelo non ho rischiato la pelle nella secca curva a sinistra nella quale è poi caduto Magnaldi.

Savoldelli, che lo ha aiutato la sera è con lui al campo. Un altro tassello si inserisce nel rompicapo della speciale Bamako – Labè.
Ci siamo trovati tutti in un guado profondo, noi delle macchine – racconta l’assistenza veloce della Cagiva – in acqua c’era la Nissan di Prieto. Non riusciva ad uscire. Lui era alla guida, mentre il suo secondo si era tuffato per sistemare le slitte sotto le ruote. Andava e veniva, in quell’acqua limacciosa, quando d’improvviso l’ho sentito urlare. Li per li non ho capito, poi l’ho visto sorreggere Prieto, che era in acqua svenuto, per le ascelle. La marmitta sfiatava all’interno della carrozzeria e lui, respirando ossido di carbonio, si era addormentato, accasciandosi alla guida. Aveva avuto appena la forza di aprire la portiera prima di lasciarsi andare nell’acqua. Per fortuna che, in tutta quella confusione il navigatore se ne accorto.

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É l’alba del giorno dopo quando, con una macchina dei medici, arriva Regazzoni al bivacco. Sporco, con la barba lunga, è quasi irriconoscibile, ma non stanco, né disfatto. Il giorno più lungo della Dakar si chiude nel suo racconto.
Non riesco a capire – dice scuotendo la testa – eravamo appena usciti dalla parte più dura della speciale quando in un rettilineo di terra rossa, la macchina si è messa traverso. L’ho controllata per un po’, ma poi mi è partita. Si è fermato dopo quattro giravolte con le ruote in aria. Sentivo puzza di benzina e Del Prete lamentarsi. Poi sono arrivati i due motociclisti italiani che mi hanno aiutato ad uscire.

Mentre Clay parla gente continua ad uscire dalla speciale. Sono i camion che non ce l’hanno fatta ad arrivare nella notte. Rivediamo il bivacco buio, privo della luce dei generatori, e quei pochi mezzi pesanti arrivati a far da punto d’appoggio per tutti. La speciale Barnako – Labè è durata esattamente 24 ore. Nessuno se l’aspettava cosi dura.