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AURIOL | TROPPO BELLO PER L’INFERNO

NOUAKCHOTT (Mauritania) – “L’Africa me la sono fatta praticamente da solo e questo più che un merito è un guaio, il più grosso guaio che possa capitare a chi corre una Parigi-Dakar. Non so ancora se sarò il vincitore, lo spero per la Cagiva, per il pubblico italiano che si aspetta di vedere per la prima volta una propria moto vincere questa corsa, ma è bene che tutti sappiano come stanno le cose”.

Hubert Auriol, un bel ragazzone francese, sempre allegro, elegante nei modi e nel parlare, sembra più un raffinato attore di teatro che una delle “bestie” che affrontano ogni anno questa follia ambulante che è la Parigi-Dakar. Auriol è un veterano di questa gara di velocità lungo deserti, savane e montagne, dell’Africa sahariana conosce ogni pietra, ogni duna, ogni miraggio e ogni arcano inganno. Eppure l’altro giorno anche lui è caduto in una delle mille e inaspettate trappole del deserto.

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Nel nord della Mauritania corre una vecchia ferrovia mineraria. Vi passa il treno più pesante del mondo: cinque locomotive da oltre 3mila cavalli ognuna e 10mila tonnellate di ferro sui vagoni. E ogni volta che passa, piccole schegge di binario, taglienti come spade, schizzano ai bordi della massicciata. Auriol, Vatanen e molti altri concorrenti per paura di perdersi nel deserto hanno voluto seguire la strada ferrata. Ma le forature sono arrivate a raffica una dopo l’altra.

Da quando viaggia in solitudine, a causa della discutibile squalifica degli altri due piloti della Cagiva, il povero Auriol vive con l’incubo delle forature. Perchè in questa gara l’ assistenza in corsa possono fornirla soltanto i compagni di squadra o altri concorrenti di buon cuore. Così chi è più avanti in classifica finisce col cannibalizzare piano piano le povere moto dei compagni. Oggi una ruota, domani una frizione, dopodomani un carburatore.

Ma Auriol è solo. Nei giorni precedenti aveva provato anche lui a montare le magiche gomme Michelin, che al posto della camera d’aria hanno una ciambella di gomma espansa. La Michelin, però, le aveva studiate per le moto giapponesi non avendo prestato molta attenzione alla casa motociclistica italiana. Così sulla moto di Auriol quella ciambella si scaldava troppo, fino a diventare una poltiglia. E allora il pilota francese non se l’ è sentita più di rischiare. Ha messo in spalla un po’ di camere d’ aria, come i vecchi ciclisti, ed è andato avanti da solo a combattere la battaglia con il suo rivale Neveu.

Aveva un’ ora di vantaggio su di lui e con cinque forature se l’ è mangiata quasi tutta. “Col senno del poi – ha detto – è facile scegliere, ma la sera prima non me la sentivo di rischiare”. Ieri, in un’ altra dura tappa tutta alla bussola, è riuscito ad arrivare incollato al rivale con un piccolo trucco. Ha caricato più benzina, deciso a non fermarsi mai per il rifornimento. E ce l’ ha fatta. Neveu si è invece fermato, è ripartito all’attacco ma al traguardo aveva solo una manciata di secondi.

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Una vittoria di Auriol per una casa come la Cagiva sarebbe una manna. “Quello che può rendere una Dakar – dice Roberto Azzalin, capo della squadra italiana – non lo saprei quantificare ma una cosa è certa: di una vittoria alla Dakar si parla in ogni angolo più sperduto del mondo e noi abbiamo contro tutta l’ industria giapponese. Poco più di cento persone contro migliaia di specialisti”. Adesso 9 minuti scarsi dividono Auriol e Neveu, la Dakar rischia di concludersi all’ ultimo momento.

Oggi c’ è una tappa difficilissima, ancora tutta da “navigare” alla bussola nella savana del Senegal. I due sono troppo esperti e troppo grandi per ricorrere a trucchi, ma quest’anno dinanzi alle centinaia di smarrimenti nel deserto, ci sono perfino dei concorrenti che per correre ai ripari hanno aperto la caccia al ragazzino. Piccolo, leggero, figlio di negri o di beduini non importa purchè conosca bene le piste. Se lo caricano in spalla dentro lo zaino e via a 180 all’ora.

Meglio avere un po’ di peso in più ma una guida sicura, così almeno dicono loro. Nelle auto un’ altra vittoria di Tambay, che tuttavia non infastidisce la Peugeot di Ari Vatanen leader della classifica. Le Peugeot sono imbattibili sul piano tecnico per la potenza che hanno, ma negli ultimi giorni hanno rischiato più volte di perdere questa corsa per l’ inesperienza africana del pilota finlandese e per i contrasti tra lui e il suo navigatore, il francese Bernard Giroux, telecronista di Tf1.

Prima del via al mattino Vatanen si siede al volante e in religioso silenzio si legge un passo della Bibbia. Fa tanti buoni propositi ma poi in gara non si fida del suo navigatore e fa di testa sua. Del resto anche il suo vecchio compagno di rallies ne aveva abbastanza di lui e del suo pessimo carattere. Domenica Vatanen si è perso nel deserto portandosi dietro altre 104 macchine che speravano di sfangarla seguendo il probabile vincitore su una strada sicura.

Risultato: tutti fermi fino a notte fonda, si sono beccati 10 ore di penalità. Lunedì per una foratura ha perso un’ora sul suo diretto avversario, il francese Zaniroli a bordo di una Range Rover. La classifica dice ancora Vatanen, ma basta poco per mandare al diavolo una vittoria che la casa francese ha costruito con mesi di duro e sapiente lavoro su una vettura che, dopo essere stata la regina dei rallies si avvia a diventare la regina dell’Africa, così come lo sono ancora oggi le vecchie 504 che in molti di questi paesi continuano ad arrancare stracariche su piste dove non esistono altri mezzi di trasporto.

Ma la Dakar non è soltanto l’ avventura di questi divi del manubrio o del volante. E’ anche, e più spesso, l’anticamera della morte per molti altri. Ieri è arrivato un povero disgraziato di francese che si era perduto 10 giorni fa nel deserto del Niger. Due giorni e due notti fermo, dormendo all’ addiaccio senza ormai più acqua tentando sotto il sole di riparare la sua moto. La morte era ormai lì ad un passo quando per sua fortuna è stato avvistato dal “camion-scopa” del deserto. Un mezzo che viaggia con giorni e giorni di ritardo e raccoglie i dannati di questa corsa. Al poveretto, senza bisogno di leggere la Bibbia, abbiamo offerto una doccia e un letto perchè non aveva in tasca neppure un franco. Gli abbiamo chiesto se rifarà mai una Parigi-Dakar ed ha risposto: “E come potrei vivere senza?”.

Fonte Repubblica

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Dakar 1986 | Franco Picco, due ore per una stronzata

 La tappa è Agadez-Dirkou. Si attraversa il deserto del Ténéré su un fondo abbastanza piatto e tutto di sabbia. É una fortuna, perché il giorno prima mi sono lussato la spalla ed ho una piccola frattura ad una mano. Potrò guidare anche con una mano sola, per alcuni tratti. Ho superato il momento di maggior sconforto, 150 chilometri sul “tole ondulée”, con una spalla fuori posto, che al campo un medico francese è riuscito a rimettere in movimento con un colpo da maestro, una bendatura stretta ed una “ingozzata” di pillole contro il dolore.

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Il fondo oggi è molto tenero, per via di una tempesta di sabbia che si è abbattuta sulla pista. Lo scorso anno era molto più duro e veloce. I nostri piani di rifornimento, fatti in base all’esperienza passata, prevedono di fare il pieno all’albero del Ténéré, dopo 200 chilometri, e poi di fare tutta una tirata fino al traguardo. Sono circa 400 chilometri. Ma per via della sabbia morbida la velocità è molto inferiore allo scorso anno, non si riescono a superare i 110, 115 Km/h, ed i consumi sono superiori al previsto.

Inizialmente penso che sia un problema al motore…

Viaggiamo insieme, io ed Andrea Marinoni, mio compagno di squadra. Quando siamo in vista dell’oasi di Bilma, ben distinguibile anche in lontananza per la presenza di un faro che, proprio come quelli dei porti, serve ad indicare la strada alle carovane che attraversano il deserto, la mia Yamaha si ferma. Diavolo, ho rotto – penso – ed invece sono solo rimasto a secco di benzina.

Per fortuna Marinoni ne ha ancora un litro, così cominciamo a travasare dal suo serbatoio al mio, con un imbuto che abbiamo portato con noi per fare il pieno. Pensiamo solo di arrivare all’oasi, dove possiamo fare rifornimento prima di ripartire. Da lì a Dirkou, fine della tappa e della prova speciale, ci sono altri venti, venticinque chilometri. Mentre armeggiamo con imbuto e serbatoio sopraggiungono i primi concorrenti con le auto.

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Le Porsche ci superano velocemente. Facciamo segno ad una Mitsubishi Pajero di fermarsi ed il pilota, stranamente, perché di solito non ci degnano di una occhiata, si arresta in una nuvola di polvere. È Zaniroli… che come me ha finito la benzina proprio in quel punto. Non ci resta che ultimare i nostri travasi.

Ripartiamo per fermarci, con la mia Yamaha nuovamente a secco, proprio a 100 metri dal faro. Ad attenderci troviamo solo dei militari con delle jeep, ma tutte a gasolio. lo sono fermo, tocca ad Andrea Marinoni infilarsi nel villaggio in cerca della sospirata benzina. Torna indietro in un attimo: in previsione del passaggio del rally i locali hanno preparato delle taniche; lui ne ha comperata una ed ha ripercorso la pista guidando con la latta sul serbatoio che gli scivolava da tutte le parti.

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Inizio a vuotare. È un liquido bello chiaro, trasparente, anche se un po’ oleoso. Mi tornano subito alla mente le parole del nostro direttore sportivo: “non fate benzina a Dirkou perchè non è buona”. Mentre Marinoni fa il pieno alla sua moto, che ha lasciato con il motore acceso, io cerco di avviare la mia, ma senza successo. Andrea prova ad aiutarmi, ma non serve, così fermiamo Gualini e lo spagnolo Mas che ci hanno raggiunto, per farci dare una mano.

Niente da fare. L’unico risultato è di perdere un bel po’ di tempo e Marinoni, che in classifica è messo meglio di me, decide di andare avanti per non accumulare ulteriore ritardo. Ma quando monta in sella si spegne anche la sua moto, e la storia si ripete. Gualini prova a tirarlo con una fune, ma una volta cade lui ed una volta Andrea, senza risultati. Così che mentre loro si allontanano a quel modo io comincio a smontare la candela ed il filtro, pensando che ci sia qualche problema con la pompa della benzina.

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Mi basta avvicinarmi al carburante per percepire un odore strano. Faccio annusare anche ad un militare che mi sta intorno ed ho la conferma ai miei dubbi : è gasolio! Non c’è niente altro da fare che cercare della benzina. Mi da una mano un soldato e con la sua jeep andiamo a cercarla. Naturalmente Marinoni è fermo poco più avanti : gli dico di smontare il serbatoio e di aspettarmi.

Vago a vuoto fino a quando proprio in fondo al paese trovo un vecchio che fuori dalla casa ha un bidone con dentro la benzina. Il prezzo è d’amico: per darmene una tanica vuole 500 franchi. Da quel momento è una corsa nella corsa. Puliamo il serbatoio, cambiamo la candela, buttiamo un po’ di benzina nel carburatore e una volta rimontato tutto con tre pedalate le Yamaha vanno in moto. Sono in un bagno di sudore, e dopo essermi asciugato in tutta fretta riparto. Due ore di ritardo per una stronzata! Anche questa, però, è la Dakar.

Tratto da Dakar Dakar 2
Testo Paolo Scalera
Foto Dune Motor

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Dakar | La sopravvivenza in un valigetta

Nei due briefing che istituzionalmente aprivano la Dakar, quello di Parigi e quello sulla nave che portava ad Algeri, Thierry Sabine non si stancava di ripeterlo qualora vi perdeste non abbandonate mai il vostro mezzo. Mai. L’istinto dell’uomo, infatti, in questi casi inusuali tradisce : spinge a cercare aiuto, ma il primo aiuto un corridore della Parigi-Dakar sa, invece, che deve dado ai propri soccorritori.

Deve cioè facilitargli il ritrovamento. Il primo comandamento, dunque, é non abbandonare l’auto. Il corollario di Balise_2questo non dipingerla preferibilmente di giallo, colore che la rende invisibile nel deserto da un elicottero. La seconda regola prepararsi ad attendere. Una attesa, é chiaro, di un soccorso che non sarà immediato. Solo dopo 12 ore, e comunque mai di notte, si potrà iniziare con la prima operazione, la più semplice, ma anche la più importante. L’accensione della radio-balise.

Nell’equipaggiamento di ogni corridore, infatti, c’e una valigetta Samsonite che contiene il necessario per facilitare l’avvistamento. Il cuore dell’equipaggiamento é una radio che opera su di una sola banda di frequenza. La sua carica dura 48 ore ed il segnale, continuo, é un filo di Arianna per i soccorritori. Ma di notte il deserto è una immensa coltre senza riferimenti e confini. È il momento di sparare i razzi colorati che con la vivida luce del giorno sarebbero invisibili, mentre un fumogeno potrà essere lanciato quando un velivolo, magari, incrocia fuori dalla nostra portata.

Un filo di fumo, infatti, è visibile da molto lontano, e proprio grazie all’accorgimento di aver bruciato i pneumatici della sua auto uno ad uno, Simonin, in Mauritania nel 1984 fu trovato dopo tre giorni di ricerche. La gomma infatti fa molto fumo e brucia lentamente. Quindi l’ultima risorsa, come fu all’alba dell’uomo, é il fuoco. Per questo fra le tante raccomandazioni per i neo iscritti c’e quella di avere sempre con se almeno i fiammiferi, un coltello ed il telo di sopravvivenza.

Cos’é quest’ultimo? semplicemente un leggerissimo foglio di alluminio che da una parte riflette i raggi del sole, riparando dal calore, mentre avvolgendoselo addosso isola dal freddo. Ripiegato, sta in una tasca. Ma é molto semplice perdersi? Sembra una domanda scontata, invece con piccoli accorgimenti é possibile ridurre questo rischio al minimo. Il primo, naturalmente, é che appena ci si rende conto di aver sbagliato strada é più prudente ripercorrere le proprie tracce. Anche se ciò porta via del tempo.

 Schott HardenNel deserto, qualunque CAP, cioè rotta di bussola, si stia seguendo, si farà una marcia indietro di 180°. Imperativo é riprendere la pista principale. Ed uno dei trucchi, semplice ma vitale, è che quando le circostanze richiedono continue deviazioni per evitare, magari, tratti di pista troppo rovinata, si sappia sempre da che parte la si lascia. Se a destra o a sinistra. Non é difficile, intatti, che a forza di intersecarla alla ricerca del terreno più solido non ci si ricordi più da che parte si trovava n’ultima volta. La “pista” africana non è una strada asfaltata, è solo la rotta della consuetudine da villaggio a villaggio.

Può rovinarsi e divenire impraticabile, in un punto. Una nuova consuetudine traccerà, allora, una nuova pista, parallela, che tornerà a quella principale. E così decine, centinaia di volte. Tanto che nella savana più che nel deserto il terreno apparirà a volte come un dedalo inestricabile di sentieri. Si parla sempre, alla Dakar, di concorrenti che hanno sbagliato strada prendendo, per questo, ore di penalità. Bene, cioè accade quasi sempre quando il rally abbandona il deserto per le savane.

Nelle sconfinate distese del Ténéré infatti ad aiutarci c’è la bussola, e poi la posizione del sole. Servono principalmente nervi saldi. Quando la vegetazione invece forma schermi impraticabili, non c’è bussola o sole che tenga. Al massimo possono tornare utili le carte, possibilmente quelle militari, dettagliatissime, per rendersi conto della propria posizione. Tuoi i migliori equipaggi le hanno, e non sono solo utili nei momenti d’emergenza, anzi, non é raro vedere i piloti studiarsele prima del via. Prendere nota dei bivi, dei villaggi. Come sempre, anche in Africa, la migliore sicurezza viene dalla prevenzione.

Fonte Dakar Dakar2

Testo Paolo Scalera

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Dakar 1992 | La prima di Patrizio Fiorini

Fu la mia prima Dakar, la mia migliore. Abbandonai in fondo al Ténéré, e lì, fui caricato sul camion balai, abbandonando e perdendo la mia moto per sempre. La tappa dopo fu neutralizzata in un trasferimento che passò alla storia come più pericoloso della speciale, da N’Giugmi a N’Djamena.

Dopo quella tappa, più nessun ritirato (tra le moto). Ero talmente incazzato che non volli sentire ne leggere più nulla della Le Cap. Riuscii a raggiungere un aeroporto tra passaggi in taxi e mezzi di fortuna, e prendere un volo verso casa da Niamey.

Arrivai in Italia che la gara era già finita, ancora vestito da moto con stivali, tuta e casco in mano. Appresi della morte di Lalay dall’amico che mi venne a prendere di notte a Malpensa. Ho un ricordo talmente bello ma devastante di quella edizione che mi fa dire oggi “io c’ero”.

Ma in quei giorni mi sono maledetto. Mai edizione tanto sgangherata e sfortunata. Pochissimi iscritti. Nella sua approssimazione, l’organizzazione di Gilbert Sabine mi regalò dei bivacchi a contatto coi campioni, dove loro stessi avevano poca assistenza. Un’edizione dove privati e ufficiali mangiavano assieme. Bella gente. Bei ricordi.

Dakar 1996 | Edi mette la quarta!

E’ stato il rally degli avventurieri, lo sfogo degli ammalati di “mal d’Africa”, la costosa vetrina del jet-set internazionale, la gara impossibile per veri professionisti e ha finito per creare una vera e propria moda sulla quale la nostra industria ha vissuto per diverso tempo. Seguendo il suo esempio le competizioni nel deserto hanno iniziato a farsi conoscere e a crescere d’importanza.

Poi la moda è un po’ cambiata; il costo di partecipazione a queste gare è divenuto in-sostenibile per i privati e sembrava che dovessero sparire definitivamente dalla scena internazionale. Ma il rally africano per eccellenza ha avuto la forza di “rifarsi il trucco” e riproporsi come esempio trainante per altri raid. Abbandonati i fronzoli e l’inutile, è ritornato ad essere concreto, avvincente e spettacolare e soprattutto a portata di mano per tutti.

La nuova edizione della maratona africana ha salutato il quarto successo di Edi Orioli, su Yamaha. La nuova formula riscuote ampi consensi e riporta questa gara a discreti livelli d’interesse. Continua il duello tra monocilindriche e bicilindriche.

Ma purtroppo anche tragico. Il tributo di vite umane sacrificate dalla Dakar, anche per quest’anno, è sta-to pesante: due morti. Laurent Gueguen, 27 anni, sposato e padre di due figli, al volante del camion di assistenza Citroen è saltato su una mina (con tutta probabilità), durante la quinta tappa. Marcel Pilet, in sella alla sua KTM, nell’attraversamento del villaggio di Terambeli, a 30 chilometri da Labé, ha investito una bimba, uccidendola.

Velocissimo, 3 tappe vinte e secondo assoluto: Jordi Arcarons

Velocissimo, 3 tappe vinte e secondo assoluto: Jordi Arcarons

Prosegue così, purtroppo, il lungo elenco di giorni nefasti che marchia indelebilmente questa competizione, quasi fosse costretta a pagare un vero e proprio tributo per aver violato terre incontaminate. Da sempre fatalità o sfortuna sono le compagne della Dakar e in qualche modo hanno spesso avuto il sopravvento su spettacolo e spirito d’avventura, costanti positive del rally.

Nel corso degli anni gli organizzatori hanno ricercato formule più adeguate alle esigenze dei piloti e del-l’intera carovana che per quindici giorni e oltre 10 mila chilometri di piste, affrontava questa esperienza. Purtroppo non sempre le scelte sono state azzeccate e spesso hanno fini-to per tradire le aspettative, senza garantire quello spettacolo legato al-l’avventura che rimane il motivo trainante di questa gara.

Oggi, di quella carovana miliardaria che attraversava il deserto sino a qualche anno fa non è rimasta più traccia. Chi l’avrebbe mai detto. Dopo aver toccato il fondo negli anni ’93/94, quasi dimenticata, la Dakar, l’avventura per pochi inarrestabili amanti del confronto con “l’impossibile”, è ritornata a destare un certo interesse tra gli appassionati. E soprattutto la moto e la competizione motociclistica sono il nuovo elemento trainante di questa gara.

Lo spagnolo Sotelo, terzo nell'assoluta

Lo spagnolo Sotelo, terzo nell’assoluta

Il merito? Certamente di Hubert Auriol, ex-dakariano della prima ora, vincitore di due edizioni in sella ad una due ruote e dell’ultima seduto al volante di una 4×4. Il solo pilota capace di imporsi in queste due categorie. Il francese, attuale direttore della TSO, pare aver indovinato la formula giusta, riportando al ruolo che spettava di diritto la regina delle competizioni africane. Ha preso in mano lo scettro della Dakar nel 1994, dopo la fallimentare esperienza di Gilbert Sabine.

E presto è riuscito a dare una nuova identità a questo rally, seguendo il principio del ritorno alle origini. La gara ha sempre vissuto sulla presenza dei privati e di chi fondamentalmente fosse attratto dal-l’avventura e dall’Africa. La formula attuale, infatti, ha consentito con una spesa “modesta” rispetto al recente passato di iscriversi un po’ a tutti. L’esperienza maturata da Auriol in questi anni e la sua stessa grande passione per l’Africa, hanno consentito alla Dakar di ritornare ad essere spettacolare, affascinante e, per quanto possibile, sicura.

Soprattutto il nuovo direttore e il suo staff sono stati in grado di individuare e risolvere i problemi e gli errori che in passato hanno condizionato questa gara. Serviva un uomo dal pugno di ferro, che fosse in grado di decidere per tutti, con la responsabilità delle vite di centinaia di persone. Un impegno non da poco, quello assunto da Auriol, il ritrovato condottiero di questa gara. Quest’anno il numero delle iscrizioni è aumentato del 25% rispetto all’edizione 1995, giungendo alla cifra record di quasi 300 piloti, 140 motociclisti.

I concorrenti, inoltre, hanno potuto scoprire un percorso inedito nel 70%, adatto sia alle bicilindriche sia alla nuova “moda” delle monocilindriche. Pochi i trasferimenti, che secondo Auriol deconcentrano i piloti e sono spesso causa di incidenti e soprattutto un percorso particolarmente vario, con 15 tappe una diversa dall’altra. Particolare attenzione ha rivestito anche la parte della copertura televisiva e stampa. con oltre 80 paesi interessati ai collegamenti in diretta con le tappe del raid.

Nonostante tutto, l’ineffabile organizzazione messa in piedi dal francese ha finito per scontrarsi contro la fatalità, l’imprevisto e l’evento ineluttabile. Ma i rally, come del resto tutte le competizioni motoristiche, sono purtroppo anche questo. Di certo è che questa Dakar sembra avviata verso un nuovo ciclo, così come tutti i rally di questo genere. La Desert Cannonball, il Rally di Tunisia e l’Atlas Rally ne sono la dimostrazione; hanno rinnovato la loro formula, tenendo in particolare considerazione le esigenze (anche economiche) dei “privati” e riscuotendo un discreto successo.

Le Case si sono organizzate per vendere a cifre abbordabili moto preparate, garantendo anche un’adeguata assistenza in gara. Potrebbe trattarsi della “pista” giusta per ritornare a dare definitivamente interesse ad una disciplina motoristica spettacolare.

QUARTO SUCCESSO: EDI INDOMABILE
Il Lago Rosa ha salutato il “poker” di Edi Orioli. Il trentatreenne pilota di Ceresetto di Martignacco ha centrato la sua quarta Dakar. Un successo giunto un po’ a sorpresa, ma spiegabile con la sua lunga esperienza nei rally. Edi da queste gare ha ereditato tutto, successo, soldi, riconoscimenti professionali, tanto quanto neppure le vittorie nell’enduro internazionale gli avevano assicurato.

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Quest’ultima è stata un’edizione della Dakar tra le più dure che si ricordano. Il nuovo percorso era particolarmente difficile e anche se il GPS ha dato una grandissima mano ai concorrenti, la navigazione e soprattutto l’intelligenza tattica e di gara hanno avuto il loro peso determinante. Il ritorno del percorso lungo le piste della Mauritania, il passo di Iguekkateme, sempre in quella zona, e il duro tracciato della Guinea, sono stati determinanti.

Solo 50 i piloti all’arrivo su 140 motociclisti che hanno preso il via. I 6.000 chilometri di prove speciali hanno lasciato il segno. Per arrivare alla meta era necessario risparmiare il mezzo e le energie. E poi ai concorrenti si è presentato un insolito scenario, l’“herbe à chameaux” ovvero dei cespugli infernali tra la sabbia e le dune che spezzavano il ritmo, ma soprattutto le braccia. Nella prima e nell’ultima parte del percorso, in particolar modo, l’abbondante pioggia ha consentito a questo tipo di vegetazione, tradotta letteralmente in “erba per cammelli”, di crescere rigogliosa, creando un ulteriore ostacolo.

Molti i copli di scena, s’inizia con Heinz Kinigadner, il primo favorito ad abbandonare il palcoscenico con la sua KTM, ritiratosi a cinquanta chilometri dal traguardo della sesta tappa. L’austriaco ha dovuto ritornare a casa con

Sfortunato Heinz Kinigadner, costretto al ritiro

Sfortunato Heinz Kinigadner, costretto al ritiro

all’attivo un successo e due secondi posti. Diversa sorte per Jordi Arcarons, del team KTM Lucky Strike, il solo in grado di inseguire lo scatenato Orioli, anche se ha terminato secondo a oltre un’ora dal pilota Yamaha. Sfortunata la prestazione del team italiano Cagiva CH Racing di Roberto Azzalin. Schierava al via tre moto ufficiali Cagiva Elefant con il marchio Kremlyovskaya, affidate a Davide TrolliAlexander Nifontov e Cyril Esquirol.

Scatenato l'italiano Trolli, due speciali vinte, ma purtroppo costretto al ritiro

Scatenato l’italiano Trolli, due speciali vinte, ma purtroppo costretto al ritiro

L’italiano sino al terzultima tappa è stato in gara, cogliendo due successi parziali, due secondi posti e due terzi. Purtroppo si è dovuto arrendere per problemi al motore quando in rimonta tallonava il capoclassifica. La svolta della gara si è avuta nel corso della tappa che portava a Zouerat, quando il favorito Stephane Peterhansel ha avuto grossi problemi alla sua bicilindrica. Il reclamo 

presentato dalla Yamaha Motor France parlava di gasolio nel serbatoio al posto della benzina; i rilevamenti non hanno potuto accertare sino in fondo la causa e quindi l’organizzazione ha respinto il reclamo. Peterhansel, con quasi tre ore di ritardo sul primo, aveva chiesto l’annullamento della prova; non soddisfatto decideva di abbandonare la gara in forma di protesta.

A questo punto iniziava la galoppata solitaria di Edi Orioli, divenuto nuovo leader della classifica generale. Controllava Trolli e successivamente Arcarons, con un margine di vantaggio sufficiente per guidare in scioltezza. Un piccolo problema di alimentazione, probabilmente benzina sporca anche per lui, gli ha fatto perdere preziosi minuti, come un problema all’ammortizzatore posteriore lo ha costretto a rallentare notevolmente nell’ultima tappa.

Una vittoria a testa anche per Kari Tiainen con l’Husqvarna e Thierry Magnaldi di con la Yamaha. Per quanto riguarda gli italiani, oltre a Trolli si è ben comportato Fabrizio Meoni in sella alla KTM con due successi personali e un trentanovesimo posto finale. Buone anche le prove di Guido Maletti con la Kawasaki, sesto nella assoluta, Massimo Chiesa ottavo, Emanuele Cristianelli tredicesimo, Aldo Winkler diciannovesimo, Angelo Fumagalli ventesimo e Alberto Morelli giunto quarantanovesimo.

 

Tratto da Motociclismo
Testo: Biagio Maglienti
Foto: Gigi Soldano DPPI

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Dakar 1989 – Torri e il suo ritiro inspiegabile

Testo di Nicolò Bertaccini

I problemi che possono capitare durante una Paris-Dakar sono innumerevoli e di tutti i tipi. Alcuni sono eclatanti, prevedibili ma altri sono difficili da prevedere e diagnosticare. Quello del rifornimento è sempre stato un momento delicato. Ci sono racconti di ogni tipo, travasi fatti con buste della spesa, trattative coi locali, rabbocchi fatti di bicchiere in bicchiere.

E la benzina non era certamente di prima qualità. Alcune volte, per incomprensioni linguistiche o per furbizia, alcuni locali hanno venduto gasolio ai partecipanti, lasciandoli a piedi dopo pochi km. Quello accaduto a Claudio Torri nel 1989 rientra fra i problemi di difficile comprensione e diagnosi. Quelle volte in cui la moto ti pianta, si tacce e non ti fa capire quale sia il problema, come una compagna capricciosa che non voglia rivelare il motivo dell’arrabbiatura.

Torri guida una KTM 620 LC e siamo al termine di una tappa libica, al confine col Niger.

Quando si fa ora di ripartire, al mattino, la moto non risponde. Torri prova una, due, dieci, cento volte ma la moto non accenna ad avviarsi. Nulla. Il bivacco pian piano si sveglia e si prepara ed il Bergamasco è ancora accanito contro l’avviamento della sua moto. Ogni calcio accumula rabbia e nervoso. Ma la moto se ne frega. Immobile. Inerme.

Il bivacco ormai è attivo e non passa inosservato quel privato così frustrato ed accanito contro la monocilindrica austriaca. Gli offrono anche di provare a tirarla con un camion, per aiutarlo a ripartire. Nulla, non serve la forza bruta, la KTM di Torri non ne vuole sapere.

Nessuno ha un’idea, nessuno capisce, nessuno ha un suggerimento che possa far capire come intervenire. Sembra tutto perfetto. Solo che non parte. Non c’è diagnosi, non c’è cura. Torri decide di arrendersi. Se la moto non parte e non si capisce il perchè, inutile insistere. Il mezzo viene così caricato su un camion alla volta di Dakar, dove dovrà essere rimpatriato, da ritirato.

Appena arrivata il meccanico la scarica dal camion, la guarda un’altra volta e poi prova a fare come facciamo noi con gli elettrodomestici: rifacciamo la stessa cosa a distanza di tempo, per vedere se è vero che il tempo aggiusta ogni cosa. Magari non sempre funziona ma quel giorno, in Africa, alla prima mezza pedalata del meccanico la moto è ripartita ed ha ripreso a cantare, come nulla fosse.

Superato lo stupore è arrivata anche la diagnosi: all’ultimo rifornimento la benzina era annacquata come il cocktail di un gioco aperitivo di un villaggio turistico e durante la notte l’acqua era diventata ghiaccio, impedendo al motore di accendersi.

Perchè di notte, alla Dakar, poteva fare molto, molto freddo. Lo sapevate?

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Gli ultimi chilometri sono sempre i peggiori

Testo di Nicolò Bertaccini

Tutti i viaggiatori e tutti gli appassionati di moto conoscono l’adagio per cui gli ultimi km sono sempre i più pericolosi. Perchè quando sentiamo aria di casa o di fine la tensione si allenta, le nostre soglie di attenzione si abbassano e contemporaneamente aumenta la percezione di stanchezza. Appena abbassiamo il livello di guardia si fa più pressante la stanchezza accumulata, affiorano i dolori e i traumi.

A quanto pare anche per i partecipanti alla Parigi Dakar gli ultimi km non sono scevri da pericoli e in tanti sono incappati in incidenti proprio durante la tappa sul Lago Rosa.

Fra tutti il più sfortunato è stato sicuramente Giampaolo Marinoni. E’ l’anno 1986, già funestato dalla MARINONI 1986scomparsa di Sabine, padre padrone dell’evento franco-africano. Marinoni sta portando a termine una buona gara, tredicesimo assoluto con la Cagiva, una tappa vinta. Proprio durante l’ultima tappa avviene la caduta che ne determinò la scomparsa. Erano previste due speciali e Marinoni era deciso a portare a termine la gara con una vittoria. Nella seconda delle due speciali parte deciso ma già dopo 20 km cade rovinosamente. Riesce a salire in moto, aiutato dai compagni, e giunge al traguardo. Quel che è accaduto dopo è cronaca, è una sequenza di eventi in cui si mischiano superficialità e poca professionalità che portano il povero Giampaolo a perdere la vita per un’emorragia interna.

Ad altri le cose sono andate meglio. Lo stesso Gio Sala, al termine delle sua prima partecipazione, Gio sala 1998-1incappa nella trappola degli ultimi km. Anche lui ingolosito da un buon risultato di tappa che potrebbe essere le ciliegina sulla torta di una bella prima partecipazione. Purtroppo, galvanizzato e abbagliato dal possibile piazzamento, non si avvede di un terrapieno e vola per qualche decina di metri, perdendo i sensi. Si riprenderà circondato dalle facce di alcuni tuareg che lo fissano. Mestamente tornerà in moto, con la coda fra le gambe, con il fiato sospeso per la paura di aver rotto qualcosa che gli impedisca di arrivare in fondo. Ce la farà, riuscirà a tagliare il traguardo e a non buttare il bel risultato di quella prima partecipazione.

Anche il vulcanico Claudio Terruzzi cade a pochi km dall’arrivo, in una tappa che era stata teterneutralizzata, che non faceva classifica. Un volo pazzesco che gli costa la rottura del naso, una spalla lussata e la perdita momentanea dell’uso delle gambe, conseguenza della caduta della moto proprio sulla schiena. In quei momenti El Teruss si rende conto del rischio corso e giura e spergiura che non guiderà più una moto. Ovviamente, dopo pochi minuti, quando le gambe tornano a funzionare, sale in moto e con naso sanguinante, schiena massacrata e spalla lussata, arriva in fondo. Ma lo sappiamo, assieme ai marinai e ai pescatori i motociclisti sono la categoria più portata a smentirsi.

Anche uno dei Re indiscussi della gara cadde in trappola negli ultimi km. Parliamo di Stephane Peterhansel, uno dei piloti più forti che abbiano mai messo le ruote nel deserto, al termine dell’edizione del 1993 che lo vede vittorioso, finisce a terra rovinosamente distruggendo la sua Yamaha, tanto da arrivare al traguardo senza la sella e costringendolo, forzosamente alla guida in piedi. fino al podio.

Guarda il video della caduta di Peterhansel su facebook al secondo 0:50 cliccando qui.

Questi sono alcuni ma chissà quanti altri si sono dovuti confrontare con la difficoltà degli ultimi km. Quando si sommano km e giorni di corsa quando le emozioni, tenute saldamente fino a quel momento, si sciolgono e lungo tutto il corpo riaffiorano dolori e traumi. In quel momento, quando il cervello pensa di avercela fatta, quando sembra che tutto quello su cui si è riusciti a passare sia abbastanza che si presenta un nuovo e temibile rischio. Per alcuni il prezzo da pagare è stato altissimo, il più alto. Per altri, fortunatamente, è rimasta solo la paura di aver mandato all’aria giorni e km di corsa per una piccola, banale imperfezione a pochi km dalla fine.

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Il “ratto bavarese” del 1985

Testo di Nicolò Bertaccini

La Dakar, quella con la D maiuscola, è piena di leggende e storie. Alcuni sono racconti da “pescatori”, ingigantiti, arricchiti e resi mitici dal passaparola e dagli anni. Storie che abbiamo imparato ad amare e che conserviamo come vere. Altri racconti, in genere quelli più incredibili, sono invece reali anche nelle virgole.
Quello che ci è stato raccontato da Claudio Torri (6 Dakar dal 1984 al 1991) è un aneddoto che rientra in quelli realmente accaduti, in quelli che non hanno bisogno di essere colorati e insaporiti per essere immortali.

Parliamo del “Ratto Bavarese”.

L’abbiamo sentito direttamente da Torri durante un pranzo. Quando ce l’ha raccontato il nostro Dakariano aveva gli occhi illuminati, come quelli di un bimbo che ha combinato una marachella ma ne è orgoglioso e cerca comprensione dalla corte, se non uno sconto di pena almeno un po’ di simpatica comprensione. Una luce birbante, da chi a distanza di anni ancora si sente di aver fatto una piccola grande furbata. Esita un po’, prima di tirar fuori dal cassetto della memoria i dettagli ma alla fine si convince. Sorride e ci dice “ormai sarà tutto prescritto”.

Torri è uno di quei piloti che la Dakar l’ha studiata e capita facendola, che è diventato motociclista e meccanico km dopo km, edizione dopo edizione. Ogni anno un po’ di esperienza, qualcosa di nuovo compreso, una modifica da apportare al progetto, una miglioria da intordurre.

In quegli anni il riferimento nella corsa delle moto era BMW che con le sue Gelande-Strasse veleggiava nel deserto.

Torri ha sempre avuto la curiosità e l’inventiva tipica degli abitanti del bel paese e quallo spirito di iniziativa che è nei geni di chi nasce nella Bergamasca. Ha sempre messo in campo tutto il necessario per ottenere il meglio senza mai tirarsi indietro perseguendo le sue idee anche quando sembravano folli, anche quando si sono rivelate sbagliate. Anche questa volta capisce dov’è la soluzione ad un annoso problema che tormentava la sua Moto Guzzi alla Dakar 1984, quello della sospensione posteriore, praticamente inefficace che costringeva ad una costante guida in piedi sulle pedane.

Decide che c’è solo un modo per accorciare i tempi di studio e di sviluppo: copiare dai migliori. In fin dei conti se fanno così i Giapponesi perchè non farlo anche noi, si sarà chiesto. Solo che un’intuizione di questo tipo nella mente eclettica, inventiva e brillante come quella dell’architetto Torri diventa una Mandrakata. E non sarà la prima o l’ultima. La via più semplice per studiare i migliori è procurarsi la moto dei migliori. La BMW. La BMW R80G/S di Gaston Rahier fresca vincitrice della Dakar 1985. La BMW conservata, ovviamente, a Monaco.

Quando sei abituato a risolvere problemi in mezzo al deserto, magari nel cuore della notte, quando sei affamato, stanco e con ancora centinaia di km da percorrere senza sapere neppure con precisione in che direzione, il pensiero che andare in Baviera a prendersi una moto possa essere complesso non ti sfiora. E infatti il nostro non si scompone. Ridotto ai minimi termini il piano presenta due problemi: serve un furgone ed un pretesto.

Trova entrambi e così parte alla volta di Monaco, per farsi prestare la moto di Gaston Rahier dalla BMW. Ok, condediamoci un po’ di tempo per riflettere su quello che abbiamo appena letto: Torri vuole andare a Monaco per chiedere alla BMW la moto dominatrice della Dakar. Fantastico. L’espediente è un evento celebrativo, una sorta di raduno organizzato da un motoclub. Incontro in cui sarebbe bello poter esporre la moto campione.

Chissà, forse perchè pungolati nell’orgoglio teutonico i Tedeschi ci cascano. Mi immagino il buon Torri che arriva col furgone e due corpulenti e baffuti magazzinieri bavaresi che caricano la moto sul furgone blaterando di supremazia meccanica ed ingegneristica tedesca. Ovviamente lungo la strada la moto sarà deviata a Modena per fare una sosta ed essere ammirata. Non da un gruppo di motociclisti ad un raduno ma da Torri e dai suoi che avranno così modo di carpire il segreto di quella sospensione posteriore.

 

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Dakar 1997: Peterhansel è di un altro pianeta

É stata un’edizione ancora funestata da un lutto: Jean-Pierre Leduc muore (è la 33esima vittima dal 1979) il 5 gennaio, il secondo giorno di gara nel corso di una speciale particolarmente dura. Il pilota francese, 45 anni, una moglie e un figlio, cadeva in una profonda buca al km 247 della speciale e la sua balise (il dispositivo che segnala un problema e che esclude automaticamente dalla gara) veniva subito accesa dall’equipaggio di un camion arrivato sul luogo dell’incidente. L’elicottero di soccorso atterrava dopo 13 minuti ma i rianimatori potevano solo constatare il decesso del pilota francese.

Il francese Castera su Yamaha si è classificato 3°

Il francese Castera su Yamaha si è classificato 3°

E questo nonostante l’edizione di quest’anno abbia avuto uno spiegamento medico di tutto rispetto: 35 medici, 2 elicotteri per la rianimazione e il pronto soccorso, un aereo ospedale e uno da campo per ogni bivacco. La Dakar di quest’anno ha dovuto combattere anche contro il pubblico che affollava il tracciato. Cosi nella quarta tappa da Nara a Toumbouctou, un percorso pieno di sabbia finissma che costituisce il fesh-fesh, la speciale tra 2° e il 3° controllo veniva cancellata per motivi di sicurezza. E poi c’è stato il cambio di programma in corsa con il percorso modificato a causa degli atti di guerriglia dei ribelli Tuareg che proprio nella zona dell’altopiano dell’Air hanno la loro roccaforte. É stata cosi eliminata la “speciale” in Niger e l’ultimo tratto fino a Agadez è stato fatto sull’asfalto. La “navigazione” promessa da Auriol, il ritorno all’intuito e all’insita capacità d’orientarsi nel deserto, alla ricerca della pista giusta tra le dune, è stata verificata dal GPS,

II Global Position System, il computer che monitorizza le coordinate terrestri per stabilire la rotta dei concorrenti. La gara vera e

Lo spagnolo Gallardo ha portato la Cagiva al 2° posto

Lo spagnolo Gallardo ha portato la Cagiva al 2° posto

propria non ha avuto storia per la prima posizione. Solo la certezza della supremazia di Stéphane Peterhansel e della sua Yamaha XTZ 850 TRX contro lo squadrone KTM e l’inserimento della Cagiva Elefant (in veste privata) dello spagnolo Gallardo. Dopo avere fatto lo scratch nel-le prime 4 giornate di gara spingendo come un matto, il pilota francese si è rilassato andando letteralmente a spasso per il resto della Dakar. Alla fine della corsa ha accumulato più di 2 ore e 30 minuti di vantaggio. Una dimostrazione di forza grazie alla sua bravura (e alla sua 5a vittoria alla maratona africana) e alla affidabilità della sua Yamaha bicilindrica, una vera moto “ufficiale” che si é aggiornata anno dopo anno e che può disporre di una potenza dichiarata di 85 cv, di una velocità massima di 195 kmh e di un un peso di 210 kg.

Mancando Edy Orioli, diventato giornalista per l’occasione a bordo di un fuoristrada della stampa (non ha consolidato l’ingaggio con la Yamaha France e con la KTM, ma ci riproverà l’anno prossimo con la moto) il ruolo di prima guida della squadra italiana è passato di diritto a Fabrizio Meoni. Quest’anno é finalmente diventato un “ufficiale”, ed esattamente nella squadra KTM insieme a Heinz Kinigadner,

La prima KTM al traguardo è quella di Lewis, 4° assoluto

La prima KTM al traguardo è quella di Lewis, 4° assoluto

Thierry Magnaldi e Richard Sainct. Ma già il 2° giorno il nostro pilota toscano volava su una delle numerosissime buche mentre cercava di agguantare Peterhansel. Risultato: frattura del metacarpo, lesione dei legamenti e forzato abbandono dalla gara. Gli altri forti Italiani come Maletti non sono arrivati al traguardo. Onore a Sanna, un sardo determinato, duro e orgoglioso come la sua terra, e primo (22° assoluto) trai nostri piloti.

Tratto da un’articolo su Motociclismo

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Edi Orioli, lo stratega

La curiosità dell’ignoto deve scorrergli nel sangue, viste le scelte fatte nella sua lunga carriera agonistica. Ma Orioli-1998-1ciò che emerge prepotentemente dall’elenco, lungo, delle competizioni cui ha partecipato e dei risultati che ha ottenuto, è la capacità strategica. Senza cui il talento può anche non trionfare. Di esperienza ne ha da vendere: in totale ha percorso in Africa, in gara, duecentoventimila chilometri. Ed è forse l’unico ad aver partecipato alle prime undici edizioni della Dakar senza mai ritirarsi e chiudendo quasi sempre tra i primi dieci. Inevitabile quindi parlare del rally più conosciuto al mondo, soprattutto pensando a quel periodo buio del 1998, quando si presentò alla partenza coi colori del team Schalber con una monocilindrica del marchio tedesco. Ma la storia di Edi Orioli è fatta di scelte controcorrente, di razionalità e di passione. Perché nel suo DNA è scritta anche una predilezione per le auto, per la perfezione. Come trent’anni fa preparava minuziosamente ogni singolo dettaglio della sua moto, controllando che anche lo stile, oggi vuole bellezza intorno a sé.

Edi Orioli, da pilota a imprenditore. Come è avvenuto questo passaggio?
“Nella mia storia non è che ci siano passaggi. La mia storia è fatta di tante cose. Sin da bambino avevo la passione delle bici e poi della moto. Andavo in bici per i campi e l’evoluzione è stata prendere il Ciao di mio zio e usarlo in fuoristrada. Tornavo ogni sera con qualche pezzo rotto. Allora mio papà mi prese una Gori 50, la prima e unica moto che mi regalò. Da qui in poi ho iniziato a correre in gare regionali e la mia escalation motociclistica è avvenuta così: ho imparato da solo senza seguire corsi e tecniche particolari. Si vede che ce l’avevo nel sangue. Oltre alle corse, negli anni sono sempre rimasto all’interno dell’azienda di famiglia, la Pratic, una realtà che negli ultimi anni è diventata leader nel suo settore. Vedi, nel 1995 morì mio papà, il capo dell’azienda. lo riuscii a finire comunque la Dakar, era l’edizione del 1996, vincendola, e poi mi riavvicinai all’azienda in cui comunque sono sempre stato. Nel 2007 poi ho smesso tutte le competizioni, anche se le moto fanno sempre parte della mia vita. Ma in modo diverso. Il mondo di eventi e riflettori non mi interessa più molto. Preferisco vivere le mie passioni e i miei momenti privati e usare le moto per lo svago”.

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Quali sono gli highlights della tua vita?
“Certamente la scelta di partecipare ai raid africani. Quello è stato il cambio di rotta nella mia carriera da endurista. Decisi di andare in Africa anche se avevo un ingaggio e avrei dovuto correre con una Honda del team Puch al Rally di Sardegna. Lasciai l’ingaggio e andai a fare una gara in Africa: mi innamorai immediatamente di quel modo di affrontare il fuoristrada. Ebbi un ingaggio con la Honda e da lì partì la mia carriera. Poi ti direi il passaggio alle auto: l’altra mia passione nascosta erano le macchine da rally. Con cui ho corso e anche vinto. Quando correvo la Dakar, la sera mettevo giù la moto e andavo nei tendoni dei team auto. Mi ha sempre affascinato l’auto. E quindi le ultime edizioni della Dakar le ho fatte in auto”.

In Africa ho percorso 220.000 km di gara!

Affrontare e vincere la Dakar ti ha segnato?
“lo non sono uno che se la tira. Ho sempre corso per il piacere di correre. Per farti capire cosa penso delle vittorie della Dakar ti dico cosa mi ha confidato un amico tanto tempo fa: “Edi, tu hai capito come si fa a vincere”. In queste poche parole in effetti mi è sembrata chiara la mia situazione. Capire come si fa a vincere è una cosa sottile, che non puoi raccontare. Sono attimi che seguono una preparazione lunga. Sono attimi di decisione. È strategia. E una volta che la provi sai come riproporla. Solo così ottieni dei risultati. E devo dire che mi manca l’adrenalina di un evento come la Dakar e oggi vado spesso alla ricerca di emozioni del genere. Ad esempio sono appena stato all’Isola di Man per il Tourist Trophy dove ho finalmente respirato l’adrenalina vera. Lì tutto ha un senso: non è un evento, è un rito”.

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Qual è la sfida più dura che tu abbia affrontato?
“Per me il momento impegnativo è stato il passaggio dalla Honda alla Cagiva. Mi ero schiacciato tre vertebre al Rally dei Faraoni e i medici mi avevano dato sei mesi di prognosi. Ma io dovevo correre la Dakar! Il dottor Costa venne da me e iniziai terapie e allenamento. Ho passato tre mesi duri, in cui non mi sono mai rassegnato a non poter partecipare. Ogni giorno facevo magnetoterapia e poi mi allenavo sdraiato su una panca per non caricare la schiena. Alla fine riuscii a partire, non proprio a posto. Non potevo davvero pensare di non esserci alla Dakar, che avevo vinto l’anno prima. Partii e finii la gara tra i primi dieci. Ma fu davvero un momento duro”.

Auto o moto?
“Guarda, ho appena comprato la macchina: una Audi RS6, e godo ogni volta che l’accendo. Come faccio a risponderti “moto”? Nonostante tutto quello che fatto sulle due ruote io amo le auto. E poi mi piace il bello: come nella mia tecnica di preparazione. Quando dovevo partire ero preciso: tutto doveva essere in ordine, dall’estetica alla meccanica. Per me questa era la base per una buona gara. E anche adesso mi piace essere a posto. Ho la mia bella moto e la mia bella auto. E vado in cerca di adrenalina: la RS ti regala adrenalina. Se non la usi ti manca e se la usi non riesci ad assuefarti. Non amo mostrarmi ma mi piacciono le cose belle e sportive”.

Beh, hai detto qual è la tua auto, ora dimmi qual è il tuo parco moto attuale.
“In box ho una BMW R 1200 GS Adventure, una BMW HP2, una Husqvama 300 da enduro, una trial Honda Montesa e la Honda RC30- VFR750R. E la Gori 50 con cui ho iniziato”.

E cosa pensi delle moto special, quelle customizzate che impazzano da un po’?
“In prima battuta potrei dirti che sono felice di questa moda perché così moto che erano abbandonate nei sottoscala tornano a vivere. Anche se customizzate. E poi apprezzo chi le personalizza perché è un po’ un artista a prescindere che uno se la faccia da solo o la faccia fare ad altri. Per contro forse a volte il risultato non significa proprio usare la moto, ma solo creare un’immagine. Comunque non mi dispiace questa moda, mi sta simpatica. In fondo ognuno cerca l’unicità del pezzo, a volte con cura maniacale”.

Oggi in quali rapporti sei con i marchi con cui hai corso?
“lo sono uno dei pochi che si è fatto benvolere da tutti i miei sponsor. Avevo la mia filosofia: se qualcuno mi dava io dovevo ritornare almeno altrettanto. Ho mantenuto anche ottimi rapporti con i giornalisti”.

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E la tua storia con BMW?
“Con BMW ho un rapporto strano. lo sono stato più hondista, per l’inizio della mia carriera. Ma avevo una forte simpatia per BMW. Feci lo sviluppo del loro monocilindrico per un anno, oltre a correre alla Dakar. Dopo questo però arrivò un pilota più giovane, Richard Sainct e da Monaco mi offrirono condizioni di contratto inaccettabili. Andai via allora. Oggi però io continuo ad amare e apprezzare questo brand. Del resto non potrei mai fare a meno di una moto BMW in box. E la mia filosofia mi pare in linea con quella di BMW: mi piacciono le cose minima, ma ben fatte, solide. lo credo in questo motto: il deserto esalta le cose più solide. Me lo disse un tuareg quando mi fermai dopo una lunga tappa. Vedendomi in moto mi chiese da dove e quando fossi partito: gli descrissi il percorso, quel giorno avevo percorso seicento chilometri. Mi chiese: “Com’è possibile? Io ci metto due settimane e mezzo, col cammello!” Quel tuareg mi ha fatto molto pensare. Però come ex-pilota BMW non ho mai avuto un rapporto come invece ho avuto con gli altri marchi. Ad esempio con Cagiva e Honda Italia ho avuto rapporti diretti e coinvolgenti: parlavo direttamente con chi aveva potere decisionale. Con BMW il rapporto era freddo, ho avuto a che fare solo con dirigenti che spesso cambiavano e quindi non si è mai creato un rapporto, tutto molto impersonale. Devo ammettere che l’organizzazione era impeccabile: da pilota avevo tutto quello che mi poteva servire ed ero trattato dawero bene. Il rapporto umano era un po’ meno soddisfacente. A pensarci mi dispiace di non aver potuto provare a far parte del mito di Gaston Rahier e Hubert Auriol, e poter scrivere anche il mio nome negli albi d’oro di Monaco. Mi sarebbe piaciuto provare col boxer”.

Com’era la monocilindrica che guidavi?
“Quando ho corso con BMW ero ufficiale ma non ufficiale: il mio contratto era con Monaco ma mi schierai Orioli 1998alla partenza della Dakar con il team Schalber. BMW non voleva comparire perché era la prima edizione e non voleva rischiare figuracce. Mi ritirai per una rottura proprio incredibile: si era infilato un sasso tra il paracoppa e il paramo-tore. E me ne sono accorto che il motore era già fuso. Tutte le monocilindriche erano comunque moto più fragili rispetto alle bicilindriche. Meno veloci anche se aveva-no comunque raggiunto un buon livello. Ma eravamo costretti ad usare la monocilindrica per regolamento, per-ché in quegli anni era stata vietata la bicilindrica. E con le mono eri sempre impicca-to invece con la bicilindrica avevi margine di potenza e velocità”.

Bicilindrica, allora?
“Bicilindrica tutta la vita. Anche se pesa di più la goduria di un bicilindrico in qualsiasi configurazione ha un’erogazione inarrivabile. Le monocilindriche le definisco “i vibratori”. Parlando di GS in fuoristrada, devo dire che il limite principale è il cardano”.

E quali erano le difficoltà più grandi per un pilota di moto a cavallo tra gli anni 80 e 90? E oggi quali credi che siano le difficoltà più grandi?
“Allora potessero il fatto di non conoscere l’Africa. Si andava organizzati ,a allo sbaraglio per quanto concerneva il territorio: si mettevano le ruote su terreni ignori e in continuo mutamento. Dune, fesh fesh, rocce, l’Africa è imprevedibile. E allora si affrontava la fatica meno preparati: ad esempio non sapevamo di dover bere molto di più di quanto non facessimo. C’era la difficoltà di risparmiare la testa e il mezzo: chi non lo faceva tornava con l’aereo ambulanza. E bisognava conoscere la navigazione e la strategia. Per i piloti di oggi le difficoltà non sono queste. Non c’è la navigazione, non c’è il risparmio del mezzo: la sera l moto viene rifatta da capo se necessita e con le tappe più brevi diventa difficile perdersi. Oggi la difficoltà è percorrere tutto il tratto a fuoco; la gara è più serrata. Ecco, potrei dire che oggi è una vera gara, allora invece era un’avventura: si era soli con il proprio mezzo. Oggi ci sono tantissime persone che ti supportano”.

Hai tracciato rotte, attraversato terre inesplorate, organizzato raid in giro per il mondo. Oggi cos’è il viaggio per Edi Orioli?
“Il viaggio per me deve essere interattivo. Quando parto devo vivere il territorio da viaggiatore e non da turista. Io affronto un viaggio l’anno. Di più non riesco mi manca il tempo. Pensa che se fosse per me, finita questa intervista, metterei una maglietta e un pacchetto di Toscanelli in una borsa e partirei in moto. Però mi piace anche andare sul sicuro: avendo poco tempo voglio che le mie uscite siano certe per divertirmi. Quando parto quindi pianifico bene il viaggio perché voglio anche divertirmi. Un viaggio con una moto completamente carica sulle dune non lo farei: questo cancellerebbe il divertimento di guida”.

Della Dakar di ieri e delle evoluzioni di oggi abbiamo approfondito parecchio nell’intervista apparsa sul volume di febbraio 2018 di Motocross. Mi domando: se la potessi organizzare a modo tuo quali sarebbero i punti chiave della competizione?
“Sicuramente tornerei alle origini. Ovviamente non si può tornare in Africa, oggi per diversi motivi non si riuscirebbe a organizzare la gara lì. Ma parlando di regolamento io mi ispirerei all’avventura e alla navigazione, alla natura del luogo e alla sicurezza. Per la sicurezza oggi si è arrivati a livelli molto avanzati. Terrei quindi i sistemi di geolocalizzazione. Ma tornerei per quanto possibile alle origini, con bivacchi lontani dai villaggi, allungando, e quindi diminuendo, le tappe. Ridurrei il comfort, lasciando più spazio all’avventura. Certo occorre fare i conti con il budget, con gli sponsor e la visibilità. Dovrei ragionare su questo. In fondo la gara è nata così, quindi penso potrebbe essere apprezzabile da molti. Sarebbe una vera sfida, penso. Perché chi ci ha provato, basti guardare l’Africa Race, fatica a decollare perché i team ufficiali vanno a fare la nuova Dakar. Rispetto all’Africa Race bisognerebbe riuscire a richiamare più team che differenzino un po’ l’insieme dei piloti, dei risultati e delle soluzioni. Anche per i giornalisti oggi credo sia difficile raccontare la Dakar. La tecnologia poi ha un po’ snaturato questa competizione”.

Difficile però immaginare una gara fuori dal tempo: bandire la tecnologia si può?
“Difficile sì, ma magari potrebbe funzionare. Chissà se i piloti accetterebbero di lasciare a casa il cellulare?”

Tratto da: About BMW
intervista di Maria Vittoria Bernasconi
Foto di Orazio Truglio & web