Dakar 1988 | La Dakar sbagliata di Luca Roberti

Non so se nella vita vi sia mai capitato che a un certo punto DEVI fare una cosa che ti è entrata nel cervello e che sai non se ne andrà fino a quando non l’avrai fatta. Be’, a me è capitato…

Siamo nella metà degli anni 80, per l’esattezza fine dicembre 1984. Avevo deciso insieme alla mia allora fidanzata e attuale moglie Luisa di passare il Capodanno a Parigi. Non ricordo più se il tarlo fosse già presente prima della partenza e visitare Parigi fosse solo una scusa, o se una volta lì decisi di trascinare l’ignara fidanzata a Versailles. Probabilmente le avrò detto che la reggia era sicuramente da vedere e che, mentre ci si trovava lì, avremmo potuto dare un’occhiata al parco chiuso della Parigi Dakar che sarebbe partita il 1° gennaio.
Se solo Luisa avesse intuito cosa sarebbe derivato da quell’innocente deviazione a Versailles, probabilmente mi avrebbe trattenuto a forza, oppure lasciato per sempre. Chi lo può sapere.

Folgorazione. Avete presente cosa vuol dire per un appassionato di moto, con preferenza per quelle con le ruote artigliate, avere sotto gli occhi in sequenza la BMW G/S di Gaston Rahier, lo squadrone ufficiale Yamaha Belgarda con Picco e Findanno, le Yamaha France con Olivier e Stearns, le Honda Italia con Balestrieri, De Petri. Praticamente una sbornia mai vista. Forse però la cosa più bella fu vedere tutte le decine di altre moto di perfetti sconosciuti che avevano deciso di avventurarsi nel deserto seguendo quel visionario di Thierry Sabine.
Ricordo perfettamente la Guzzi gialla di Claudio Torri con un post-it sul serbatoio lasciatogli da amici italiani che gli auguravano fortuna, poi le Honda 125 ( !! ) dei fratelli Barbezant o nome simile.

Ancora prima di rientrare a Parigi la sera stessa avevo già deciso: prima o poi da Versailles sarei partito anch’io (ma non credo di averlo detto a Luisa).
Rientrato a Torino compro riviste su riviste per saperne un po’ di più. All’epoca i rally raid africani andavano per la maggiore così mi cadde l’occhio sul Rally di Tunisia giudicato come un assaggio non troppo impegnativo per chi avesse voluto cimentarsi in quel genere di competizioni.
Rapida sequenza: compro da un’amica che non riusciva a farla partire con la pedivella, una Honda XL 500, prendo la licenza FMI per enduro internazionale (mai fatto una gara in vita mia) e detto fatto mi iscrivo al Rally di Tunisia che si sarebbe tenuto tra marzo e aprile di quell’anno. Allenamento specifico molto poco, per temprare il fisico decido di andare all’Elefantentreffen partendo da solo a mezzanotte da Torino. Arrivo nel pomeriggio successivo sotto la neve, quindi pernottamento in tenda canadese dentro al circuito di Salisburgo. Mi intrufolo insieme ai sidecar (gli unici ai quali era consentito di girare nel circuito ghiacciato) faccio N giri con N al quadrato cadute, ma che goduria, Al rientro inizio la preparazione specifica della mia fida Honda per le sabbie africane: Serbatoio Acerbis da 22 litri, copertoni Michelin Desert, costruzione artigianale di supporto al manubrio per il road-book (credo fosse un contenitore tipo tupperware da cucina), catena O-Ring con pignone e corona nuovi e … stop.

Arriva il grande giorno della partenza al porto di Nizza, adrenalina a palla incoscienza non dosabile. Con mio grande stupore scopro che tra i partenti ci sono anche Serge Bacou (già ufficiale Yamaha in sella a un prototipo 4 cilindri da 200 Km/h) Chuck Stearns su Yamaha Sonauto (fresco reduce da un 4° o 5° posto alla Dakar appena conclusa), Gilles Picard con una Cagiva, Pierre Poli con un prototipo Motobecane. Credevo che a questi rally “minori” partecipassero solo degli amatori… L’ansia sale a livelli di guardia poco controllabili. Dimenticavo di dirvi il corredo di ricambi per la gara: zero assoluto a parte una tanica di benzina supplementare da 5 litri tipo militare fissata in malo modo al portapacchino posteriore (la perderò alla prima tappa..)
Si parte alla volta di Tunisi, durante la traversata faccio conoscenza con un gruppo di fiorentini che partecipano alla gara con delle fiammanti KTM 600 Rotax. Le loro moto, molto più preparate della mia, facevano una bella figura sul molo una di fianco all’altra anzi, incutevano un certo timore. Diventeremo amici nel corso del Rally, mantenendo poi i contatti per molti anni a seguire.
Finalmente si parte dal viale principale di Tunisi (Avenue Bourguiba all’incirca), c’è molta gente che applaude, io sono mooolto emozionato. Siamo una sessantina di moto e alcune decine di fuoristrada.
I ricordi delle singole tappe sono confusi (sono passati 35 anni…). Quello che ricordo perfettamente è la prima caduta “seria“, di quelle normali ne avrà fatte decine. Se non sbaglio il secondo giorno, il primo sulle dune di sabbia, arrivo un po’ troppo veloce su un panettone, per cui prendo il volo e atterro sulla ruota anteriore. Le sospensioni della mia Honda sono fatte per altre attività, infatti vengo sbalzato in avanti, mentre la moto mi rimbalza sopra la testa e fa una serie di loop completi rimbalzando ora sull’anteriore ora sul posteriore (nel senso di 360 gradi) per poi fermarsi finalmente a una decina di metri davanti a me.

Mi alzo e, strano ma vero, mi accorgo di essere tutto intero. La moto invece è un po’ malridotta: faro anteriore, contaKm porta road-book completamente distrutti, telaio storto (da quel momento in avanti lascerò due impronte differenti sul terreno per il disallineamento della ruota anteriore con la posteriore….) danni meno ingenti sul posteriore, telaietto piegato, parafango rotto e poco più.
Si riparte con la manopola del gas un po’ meno aperta…
Avendo distrutto il contaKm, da quel momento in avanti e fino alla fine del Rally seguirò il road-book a naso e, in caso di dubbio, accodandomi ad altri concorrenti. Facendo meno l’asino con la mano destra, non sbagliando mai strada, alla fine della gara mi ritroverò 15° assoluto. Non male per un debuttante senza assistenza e senza un ricambio.
Rientrando in Italia (già sul traghetto), sicuramente ubriacato dal brillante risultato ottenuto, mi metto subito a fantasticare sulla prossima avventura e, poiché lo scopo è la Dakar, la mia attenzione va immediatamente alla Baja 1000 spagnola perché le tappe africane sono molto lunghe e io devo abituarmi a fare molti Km in sella alla moto possibilmente in fuoristrada.
La Baja 1000, per chi non lo sapesse (non so se la facciano ancora), è una gara no-stop in terra spagnola nella provincia di Saragozza di 1000 Km appunto, tutta in fuoristrada tutta in prova speciale, fatta nel mese di luglio  con un bel caldino. Si parte scaglionati la mattina presto con il buio e si fanno 1000 Km. Semplice no? Si può scegliere di farla in coppia o per i più dementi da soli. Indovinate come scelsi di farla? Ovviamente da solo, da buon stakanovista della moto. Fino a quell’anno, e siamo sempre nel 1985 , nessuno dei pochi partenti in solitaria aveva mai concluso la prova, la qual cosa avrebbe dovuto insospettirmi e invece no, intrepido mi presento al via anche di questa avventura. Mi trovo a fianco di Rahier con la fida BMW G/S alleggerita rispetto a quella della Dakar e i soliti squadroni ufficiali Honda, Yamaha, Cagiva, KTM e soci. La mia moto è sempre la stessa, rimessa in sesto e in parte preparata dalla ditta Proma di Brescia (il cui titolare Franco Gianotti, morto poi tragicamente pochi anni dopo era mio cugino alla lontana, quindi probabilmente si era impietosito e aveva deciso di darmi una mano).

Per farla breve, anch’io non riuscii a completare la corsa causa caduta dopo circa 730 Km, dovuta sicuramente alla stanchezza accumulata dopo tante ore di guida con un caldo soffocante. Resta comunque un bel ricordo di una corsa unica e un po’ di rammarico di non aver tenuto duro fino alla fine e essere stato il primo concorrente a finire la corsa in solitaria. Tra parentesi avevo anche un bel numero di corsa, 100 tondo tondo, come se non sbaglio la Cagiva di Auriol alla Dakar.
Nei due anni successivi parteciperò a un po’ di Rally nazionali e al Trofeo Motorally e per scommessa con un amico mi iscrivo a una delle numerose gare di durata locali, (nella fattispecie la Sauze 400 organizzata da Batti Grassotti, titolare della GR moto di Torino, anche lui appassionato di rally africani fatti in compagnia con Aldo Winkler) la scommessa era la seguente: io avrei fatto la gara con una Gilera Regolarità 125 d’epoca e sarei riuscito a finire la gara di 400 km appunto tutta su strade militari sterrate attorno a Sauze d’Oulx in val di Susa. Vinsi io (non la gara che vinse Orioli, ma la scommessa) ed ebbi anche la soddisfazione di avere una foto a colori su Motosprint dell’epoca . Altre volte invece presi parte a rally solo come assistenza sanitaria in moto (di mestiere faccio il chirurgo) al Rally di Sardegna, alla Sestriere 1000.

Ma ritorniamo a bomba.

Decido che è già passato troppo tempo e il tarlo continua a fare il suo lavoro giorno dopo giorno, metto da parte un po’ di soldini e finalmente mi iscrivo alla Dakar 1988, la decima edizione.
In quegli anni a Torino anzi a Rivoli, nelle prima cintura, c’era una concessionaria non ufficiale Honda, la Sport Auto Moto Import, che aveva messo su anche una piccola squadra corse di amatori come me, quasi tutti in sella alle Honda XR 600, con le quali il sabato pomeriggio andavamo a fare scorribande in giro per gli sterrati della provincia di Torino, duellando fra di noi, manco fossimo alla finale dei campionati mondiali di enduro. Mitiche le battaglie sulle strade militari tra la val Chisone e val Susa. Nella foga qualcuno ci ha anche rimesso alcune ossa.
I titolari della SportAuto, saputo del mio insano proposito, inizialmente tentarono di dissuadermi, poi vista la mia testardaggine decisero di aiutarmi in qualche modo, mettendomi a disposizione la loro officina per la preparazione della moto, il loro meccanico di fiducia ( mi pare si chiamasse Giuseppe, molto scorbutico ma sicuramente competente).

Moto di partenza Honda XR 600 usata.


La mia idea era quella di modificare la moto il meno possibile, un po’ per questioni economiche, un po’ per semplicità e per mancanza di tempo. Ho iniziato a lavorarci agli inizi di ottobre 1987, la partenza era come noto il 1° gennaio successivo. In pratica avevo 3 mesi di tempo in più dovevo lavorare e anche allenarmi … decisamente in ritardo su tutta la linea.
Avrei voluto, anche da privato (disperato), senza assistenza a seguito (vedi meccanico aviotrasportato) senza casse di ricambi per la moto (motore di scorta, ruote, sospensioni e via discorrendo) partecipare nella categoria Marathon, quella in cui la moto doveva essere rigorosamente di serie e non era consentito sostituire nulla a parte le gomme e, presumo, il gruppo corona pignone catena.
Alla partenza la moto veniva punzonata dappertutto e controllata alla fine della gara.
I miei amici della Sportauto mi convinsero (ma io feci male ad ascoltarli) che con le minime modifiche da me pensate, non sarei neanche arrivato a Sete (porto in Francia dove ci si imbarcava per l’Africa dopo aver attraversato tutta la Francia)
In pratica io volevo semplicemente montare un serbatoio maggiorato da 44 litri della Acerbis , una tanica da 5 litri (obbligatoria) per l’acqua (allora in commercio ce ne era una sempre dalla Acerbis) magari delle sospensioni rinforzate e null’altro. Invece diedi retta ai consiglieri che erano anche tra i pochi che in qualche modo mi stavano aiutando, quindi mi sentivo un po’ obbligato ad ascoltarli. Morale mi imbarcai in una serie di modifiche anche strutturali della moto che mi portarono via un sacco di tempo prezioso, anche perché tutta una serie di lavori venivano fatti personalmente da me. Il risultato estetico (parliamo di più di 30 anni fa) fu molto soddisfacente, a parte il posteriore della moto, un po’ troppo “ importante”. Molto meno positivo il risultato tecnico ma andiamo con ordine.

Riassumo la trasformazione:
– Sostituzione del motore originale con quello di una XL LM 600 meno performante ma più robusto al quale venne tolto il motorino di avviamento per questioni di peso e per non dover montare la batteria, quindi avviamento rigorosamente a pedale. Errore madornale fu quello di lasciare lo statore del motore dell’XL con cablaggio centralina ecc. dell’ XR. La moto in condizioni normali (in garage, sul cavalletto, con pilota riposato) partiva abbastanza facilmente ma comunque mai al primo colpo. Tutt’altra storia farla partire sulla sabbia, con il cavalletto che sprofonda, dopo la 15° caduta, dopo aver dormito 2 ore dentro il sacco a pelo sulla sabbia, aver mangiato poco e male e amenità varie.
– Dopo aver tagliato di netto il telaietto reggisella, rifacimento totale dello stesso in tubi quadri, sufficientemente robusto (e pesante) da poter reggere una struttura unica comprendente serbatoio supplementare da 20 litri circa per la benzina che sommando ai 24 litri del serbatoio dell’ XL LM (altra modifica per gli attacchi sul telaio XR) portavano ad avere una buona autonomia. Ricavato nelle struttura unica c’era anche il serbatoio (5 litri) per l’acqua , il vano per la sella , il portapacchi per alloggiarvi un capiente porta attrezzi in cuoio. Tutto questo lavoro rigorosamente in lamierino di ferro (non in alluminio) pesava uno sproposito, a suo vantaggio si poteva però rimuovere in toto per poter accedere all’ammortizzatore o per eseguire altri lavori sulla moto. Fece questo immane lavoro un bravissimo meccanico/restauratore di moto che evidentemente era anche un mago delle saldature, perché fece un lavoro, magari esteticamente e funzionalmente discutibili, ma sicuramente difficilissimo e a prezzo irrisorio. Aveva la sua officina in bassa val di Susa, ma purtroppo non mi ricordo più il suo nome.
– A questo punto, per una questione puramente estetica bisognava riempire la parte anteriore della moto, optai quindi per il cupolino con doppio faro che allora produceva la Stilmotor associato al parafango basso sempre della Stilmotor. La ditta toscana, una volta interpellata non esitò a fornirmi gratuitamente non uno ma ben due cupolini completi oltre a numerosi altri ricambi più abbigliamento vario. Non finirò mai di ringraziarli . Si meritarono sulla parte più visibile della moto un bell’adesivo della loro ditta.
– Aggiunsi un bellissimo paramotore in alluminio della Ricky cross, pagato caro, niente sconti ahimè
– Ammortizzatore White-Power posteriore in sostituzione di quello originale
– Gomme Michelin Desert con mousse (quella che in teoria non ti da mai problemi…)
– Colorazione bianca blu e gialla (i colori di Torino).



Finita la moto, non ebbi il tempo di provarla neanche per 100 metri, perché era ora di partire.
Per inciso all’epoca (adesso penso che sia cambiato tutto) per gli squilibrati come me , privati/disperati/fai da te, la Dakar iniziava mesi prima e si arrivava alla partenza, almeno io arrivai così, già stremato dalla preparazione, dalla preoccupazione di aver fatto una enorme stronzata, solo come un cane e chi più ne ha più ne metta. Tutt’altra cosa è fare la gara da privati ma con una organizzazione alle spalle che si occupa di quasi tutto, dalla preparazione della moto, alla assistenza in gara e così via. Ma io non potevo permettermi una simile organizzazione per problemi di budget .
Comunque si parte alla volta di Parigi, gentilmente accompagnato con furgone dagli amici della Sport Auto.
All’epoca la Dakar in Francia era davvero un evento che mobilitava e riversava sulle strade una miriade di persone festanti nonostante il freddo polare, ma a noi concorrenti , specie i motociclisti un po’ in cuore te lo riscaldava.
Per far divertire i parigini e far soffrire da subito i piloti c’era il prologo che si teneva il 30 dicembre a Cergy Pentoise, un’area militare dove veniva tracciato un circuito di una quindicina di Km, ricco di insidie in qualità di antipasto prima della gara vera e propria.
Bene 3, 2 ,1 via si parte uno ad uno per il prologo, fango come se non ci fosse un domani, ma non quel bel fango che ti fa anche divertire a guidare una moto no il fango parigino era un surrogato del pongo con un po’ di colla, appiccicoso a tal punto che dopo poche centinaia di metri mi ritrovo con le ruote completamente bloccate in un morsa mortale, cado una due tre volte, divento una maschera di fango anch’io, devo strappare gli attacchi del parafango basso per poter far girare la ruota anteriore, sfriziono come un disperato e miracolosamente riesco ad arrivare alla fine del prologo … iniziamo bene.

Alla fine del prologo mi ferma un giornalista di Motospint che deve scrivere il profilo dei piloti italiani da riportare sul suo giornale.
Quanti anni hai ? (30)
Da dove vieni ? (Torino)
Risultati in gare precedenti ? (pochi)
Perché hai deciso di fare la Dakar ? (in quel momento non ho una risposta adeguata, ma più che altro non la so nemmeno io)
E’ la prima Dakar? Si dico io ma sarà anche l’ultima aggiungo (il mio stato d’animo in quel momento non era dei migliori come avrete capito).

Finalmente arriva il 1° gennaio, notte insonne, sveglia all’alba, freddo cane. Parco chiuso, monto in sella, credo di essere in trance, mi chiedo ripetutamente se so quello che faccio, l’altra parte del cervello mi dice: ma non era quello che volevi fare a tutti i costi ? Non sono molto lucido lo ammetto. Mi metto diligentemente in fila, ho un numero di gara basso, il 23 quindi parto tra i primi. C’è una marea di gente sotto il palco, siamo tutti degli eroi,  tra due ali di folla procediamo a stento con il rischio concreto di essere buttati a terra dalla foga della gente, molti ancora in preda ai fumi dell’alcol dell’ultimo dell’anno. Si passa sotto la torre Eiffel dove c’è un primo controllo e poi via verso il sud della Francia fino a Sete dove ci aspetta il traghetto. Anche qui non è come dirlo, fare 1200 km di fila con temperatura prossima allo zero non è così agevole , ti conforta il calore delle migliaia di persone che ai lati delle strade ti applaude chiunque tu sia, ti chiede un autografo tutte le volte che ti fermi anche se sei un perfetto sconosciuto. Bellissima sensazione.
Imparo a mie spese che la mousse non va usata quando guidi su asfalto perché si surriscalda e alla fine si fonde. Togliere la mousse rovente bella appiccicata al copertone (posteriore tra l’altro) e sostituirla con una camera d’aria lungo la strada con le dita mezze congelate non è una esperienza che auguro ad un amico. D’altronde stai o non stai facendo la Dakar ? Non sei un duro che non si spaventa di fronte a nulla? Sarà così. Intanto i Km. scorrono e Sete si avvicina, però sento che qualcosa non va nella moto.

Le sfrizionate del prologo presentano il conto e nei pressi di Sete in coda, in mezzo alla folla urlante la mia frizione esala l’ultimo respiro. E’ già buio, sono un po’ stanchino come dice Forrest Gump, non ho un pacco frizione di ricambio ovviamente. Un concorrente mi vede in difficoltà e non so come mi procura un pacco frizione nuovo. Ogni tanto un gesto ti riconcilia con il mondo o meglio con il genere umano.
Nel frattempo mi appare davanti mia sorella che insieme al suo fidanzato mi viene incontro del tutto inaspettata, ha deciso di farmi una sorpresa e ci riesce eccome, mi ospita nel suo camper e mi rifocilla per bene anche se intravedo dalla sua espressione una viva preoccupazione per il mio precario equilibrio psico-fisico.

A Sete sotto lo sguardo preoccupato di mia sorella

Saluto la sorella e mi dirigo al molo dove stanno già caricando i veicoli, ma io devo cambiare la frizione, perché non credo che una volta arrivati al Algeri ci sarà poi del gran tempo per poterlo fare. Inizio a smontare , ma è buio, non mi ricordo di averlo mai fatto prima quindi ci metto un po’ di tempo, intanto la nave sta per partire, merda! Finisco appena in tempo per imbarcare. Giornatina impegnativa.
La traversata del mediterraneo dura un giorno e mezzo, il traghetto è una schifezza sotto tutti i punti di vista, il mare ovviamente è molto mosso per cui si riesce a mangiare poco e male con una nausea persistente. La cabina, prenotata con mesi di anticipo e a caro prezzo, all’ultimo momento non è più disponibile, si è costretti a bivaccare dove capita. Qualcuno può immaginare in che condizioni si arriva ad Algeri?
Al porto di Algeri troviamo ad aspettarci belli puliti e riposati i piloti ufficiali e i privati ricchi che hanno preso l’aereo e sono lì dal giorno prima. Questa è concorrenza sleale.
Dissento dalla opinione comune che la Dakar inizi solo adesso, come penso di aver spiegato nelle pagine precedenti, mi pare che sia già iniziata da un pezzo. Comunque sia, siamo finalmente in terra africana. Questa è la 10° edizione, Thierry Sabine non c’è già più, al suo posto al timone della gara c’è suo padre (il nome non me lo ricordo) che di mestiere fa il dentista (?) e da bravo dentista bada molto al soldo (non mi insultino i colleghi odontoiatri …). La Dakar è all’apice della sua popolarità, ci sono richieste di iscrizioni da tutto il mondo, ogni iscrizione porta nelle tasche della TSO (Thierry Sabine Organisation) una bella quantità di soldoni. Mai come quest’anno sono state accettate tante iscrizioni. Ci sono 200 moto 350 auto e non so quanti camion, praticamente un esercito. Non è pensabile portare tutta questa gente molto avanti nella gara, troppo complicato e costoso. Bisogna dar loro da mangiare, garantire un minimo sindacale di assistenza sanitaria, organizzare i rifornimenti e mille altre cose che, in terra africana risultano tutte molto più complicate che altrove. Ricordiamoci che siamo ancora in era pre-tecnologica, con tutte le difficoltà che ciò comporta.

Algeria in prova speciale


Comunque pronti via per la prima tappa africana Algeri – El Oued non mi ricordo di quanti Km fosse, comunque praticamente tutta di trasferimento fino a dentro il deserto algerino. Si arriva al bivacco che è già buio, ci sono già alcuni ritiri tra le moto, disperati come me che hanno avuto problemi in Francia e non sono riusciti a imbarcarsi perché in ogni tappa, anche quelle di solo trasferimento come Parigi – Sete, c’è un tempo limite, altrimenti sei fuori gara. Alcuni sono arrivati in Africa ma non sono riusciti a proseguire e se ne ritornano mestamente indietro.
Verifico la classifica, un po’ per curiosità e un po’ per capire la griglia di partenza. Nella tappa successiva si partirà a gruppi di 10 moto per volta in ordine inverso alla classifica (chissà poi perché). Nonostante i problemi al prologo, la foratura, la sostituzione della frizione non sono nemmeno ultimo. Mi pare di ricordare un 160° posto su 195 moto. Chissà che razza di problemi hanno avuto quei 35 motociclisti che ho messo dietro a mia insaputa e soprattutto senza merito alcuno.

Ma torniamo al bivacco, è tutta una coda: per fare il pieno alla moto, per la “ cena” se così si può chiamare, per fare scorta d’acqua. Poi finalmente si prova a dormire, sacco a pelo tecnologico gentilmente fornitomi dalla Ferrino di Torino, disteso sulla nuda terra anzi sabbia, già finissima tipo borotalco. Dormire alla Dakar è un optional. Per tutta la notte quei simpaticoni dei meccanici della scuderia BMW Ecureil (moto bellissime con scocca in fibra di carbonio credo) non fanno altro che provare le moto che come noto sono prive di silenziatore … dando delle sgasate impressionanti.
Sveglia (si fa per dire) obbligatoria alle 4,30 perché c’è il briefing mattutino alle 5.00
Il buon Sabine senior ci comunica che questa tappa sarà durissima, dovremo affrontare una serie infinita di dune con sabbia finissima, dove si sprofonda con le ruote che è un piacere. Ci conforta anche dicendoci che almeno un terzo di noi non riuscirà a finire la tappa … croce e delizia per i veri dakariani. In previsione della tappa cerco di alleggerire il carico personale per essere più sciolto ( !! ) nella guida. Dimenticavo di sottolineare che, oltre ad avere sotto il sedere la mia poderosa Honda da 200 Kg. avevo sulle spalle lo zaino con gli “ effetti personali “, forse qualche ricambio (cavi, camere d’aria etc.) sul portapacchi oltre alla borsa di cuoio con gli attrezzi avevo il mio prezioso sacco a pelo che però non agevolava molto la guida in fuoristrada .
Cerco qualche anima pia che me lo tenga fino a fine tappa in modo da essere più libero per la guida. Chiedo a uno dei privati italiani ricchi, quelli con assistenza con camion Unimog, meccanico a seguito, non dico il nome ma per dare qualche indizio correva con un BMW. No è la risposta, io ho speso un sacco di soldi per mettere su tutto questo, arrangiati (si trattava di portarmi il sacco a pelo del peso di 2 kg. al massimo all’interno del suo lussuoso Unimog). Fortunatamente un altro concorrente italiano (Maurizio Traglio per l’esattezza) che correva nella categoria camion fu invece molto più disponibile e si prese in carico il prezioso bagaglio.


Si parte , la tappa è El Oued – Hassi Messaud, prima parte tutta prova speciale tutta su sabbia soffice, tutta dune ( troppe…) non ricordo i Km. ma pur sempre qualche centinaio. Poi un bel trasferimento su asfalto sempre di alcune centinaia di Km.
Come detto si parte in ordine inverso alla classifica a gruppi di 10 o 20 moto non ricordo bene Non sono nel primissimo gruppo ma nel secondo. Essendo gli ultimi della classifica siamo tutti dei peones, prima del via ci guardiamo con aria sperduta, davanti a noi il deserto algerino poche tracce di quelli partiti davanti a noi (peones anche loro) che chissà se hanno preso la via giusta. Si parte con molta circospezione, nessuno spalanca il gas (le immagini che di solito si vedono in TV riguardano i top drivers che scatenano i cavalli delle loro moto dal primo metro di prova speciale). Noi no, sembra che ognuno voglia lasciar passare avanti qualcuno che si prenda la responsabilità della via giusta e gli altri dietro. La sabbia è molto soffice, le ruote affondano però si va avanti, dopo non molti Km. arrivano in massa i piloti ufficiali che come delle furie ci sorpassano a velocità folle per scomparire rapidamente all’orizzonte. Che manici ragazzi . Riconosco dalla moto i vari Rahier, Orioli, Balestrieri, De Petri, Malherbe e compagnia. Come faranno ad andare così forte è un mistero, è anche vero però che più vai forte e meno affondi nella sabbia , concetto facile a dirsi ma molto più complicato da applicare.
Altri pochi Km e iniziano le dune, sono già piene di tracce sulla sabbia delle moto passate prima di me, vanno in tutte le direzioni, quale devo seguire ? Il road – book mi dice di seguire un determinato CAP , ma mi sembra troppo complicato come concetto da applicare, devo andare avanti e non affondare. Fortunatamente sono in buona compagnia e questo mi conforta, gli altri motociclisti attorno a me sono tutti della mia forza, per quanto possibile ci si aiuta in caso di caduta o insabbiamento. Cado troppe volte, per fortuna non vado molto forte e tutte le cadute sono senza conseguenze, ma la mia moto è troppo pesante per me che sono “ gracilino “ di costituzione. Inoltre la mia Honda special è sbilanciata indietro dal serbatoio supplementare troppo a sbalzo sulla ruota posteriore. Non riesco bene a farle fare la traiettoria giusta, in pratica è lei che decide dove deve andare, ma spesso non è la soluzione migliore. Cado ancora, fatico a rimettere in piedi la moto, devo liberarla dalla sabbia. Ogni volta l’avviamento (vi ricordate lo statore?) è difficoltoso e io comincio a essere molto stanco. Su una duna particolarmente ostica mi pianto con la ruota anteriore, smadonno il giusto per liberare la moto dalla sabbia, comincio a scalciare e la moto non parte. Decido di fermarmi un po’ e cercare di prendere forze con un paio di cucchiai di miele che avevo nello zaino . Dopo circa un’ora la moto decide di partire, ma intanto il tempo passa e io sono in ritardo. Da dietro sento dei rumori sospetti. Sono in arrivo lo sciame di fuoristrada che, partiti dopo le moto stanno raggiungendo gli ultimi come me.
Con buona approssimazione i piloti delle Jeep sono tutti dei fuori di testa, vanno a velocità assurda, se ne strafregano dei moscerini (leggi motociclisti) che incontrano sulla loro strada, ti passano di fianco a 1 cm anche se sei fermo in panne anzi soprattutto se sei fermo in panne, ti riempiono di sabbia dalla testa ai piedi, in pratica dei gran signori.

Intanto passano le ore e i km. ma la fine tappa è ancora lontana, mi pianto per l’ennesima volta subito dopo una duna, cado, cerco di sollevare la moto ma non ci riesco, comincia a fare caldo, sono sudato marcio. Mi sfilo lo zaino e mi tolgo il casco sedendomi un po’ di fianco alla moto adagiata sulla sabbia. Lo sconforto si fa largo tra i miei pensieri. Ciliegina sulla torta, arriva veloce un Mitsubishi Pajero, non mi vede dopo la duna, la salta e atterra esattamente sul mio zaino ma soprattutto sul mio casco che ovviamente ha la peggio rompendosi praticamente in due e riducendosi a una frittella. I due lord alla guida del fuoristrada pur accorgendosi del casino che avevano combinato manco si fermano e proseguono per la loro strada . Che Allah li strafulmini.
Recupero il casco, cerco di ricomporlo per potermelo reindossare, cosa che riesco a fare ma a questo punto sembro finito sotto un treno. Umore? Lasciamo perdere. Riesco miracolosamente a ripartire e proseguo per la mia strada (sempre dune, dune, dune). Passano le ore , da dietro arrivano anche i camion, avete presente i DAF di quel tizio olandese che voleva arrivare primo, anche davanti alle Peugeot ufficiali di Vatanen? bene per loro sei una nullità assoluta, devi spostarti tu altrimenti … ti passano sopra. Si fa sera credo di essere poco oltre la metà della prova speciale e ci ho messo tutta la giornata. Sono veramente sfinito, finisco in una specie di cratere di sabbia circondato dalle solite dune. Basta, non ne posso più, mi fermo, mi sdraio per terra per recuperare le forze che mi hanno abbandonato. E’ chiaro che non riuscirò ad arrivare in tempo al bivacco. Mi devo rassegnare la mia Dakar è finita. Rapidamente viene il buio, comincia a fare un bel freddo, il mio fido sacco a pelo viaggia tranquillo sul cassone di un Unimog lontano anni luce da me. Vago con la pila attorno alle dune alla ricerca di qualcosa da bruciare, trovo altri disgraziati come me sia in auto che in moto con lo stesso mio umore. Raccolgo un po’ di sterpaglie secche e qualche rametto un po’ più grosso, accendo un bel fuocherello utilizzando qualche foglio del road-book , mi sdraio attorno al fuoco alla Tex Willer e crollo definitivamente.

In lontananza vedo roghi di auto e camion che avevano abbandonato la corsa e che per qualche motivo erano andati in fiamme, qualcuno spara in cielo i razzi di salvataggio. A giudicare dal numero, ci deve essere un sacco di gente nei guai qua attorno. La cosa non mi riguarda, non ho la forza per fare qualsiasi cosa ne’ pensare a nulla. I ricordi sono vaghi, in altra occasione forse passare una notte da solo nel deserto potrebbe inquietare non poco, di fatto evidentemente il fatalismo prende il sopravvento e ci si abbandona al proprio destino. Avete presente i naufraghi che a un certo punto non fanno più nulla e si lasciano trascinare dalla corrente? Bene penso che a me sia successa la stessa cosa.
Arriva il giorno e con esso un po’ di tepore, non provo neanche a far partire la moto, aspetto che qualcuno mi salvi.
La salvezza arriva dopo alcune ore, quante non so, nelle fattezze del camion scopa della gara, che nel suo capiente cassone recupera i feriti della guerra in corso. I mezzi (auto e moto) vengono tristemente lasciati sulla sabbia. Per fortuna, evidentemente ero sulla strada giusta perché mi fossi perso il mio recupero sarebbe stato un pelino più complesso. Salgo sul cassone e mi trovo decine di altri concorrenti che si erano ritirati e che erano stati già recuperati . Mal comune mezzo gaudio dicono i saggi. Questi camion scopa sono dei mostri a quattro ruote motrici , enormi , che non si fermano davanti a nulla. All’occorrenza riescono a tirar fuori dalla sabbia dei camion in panne e, agganciandoli a dei cavi d’acciaio grossi come un braccio li tirano fuori dai guai. Il viaggio dura un giorno e una notte, con innumerevoli soste per recuperare i ritirati. A distanza di più di trent’anni, se chiudo gli occhi e mi concentro un po’ sento perfettamente il rumore del motore di quel bisonte a quattro ruote motrici mentre affronta le dune e le supera con disinvoltura maggiore di quanto non facessi io. Scoprirò che nella “mia “ tappa si ritirarono quasi la metà delle moto e non so quante auto. La strategia del dentista stava dando i suoi frutti. Quella sera stessa avrebbe speso molti meno soldi per sfamare la truppa.
Ci scaricano, come si fa con il bestiame, ad Hassi Messaud, un paesino sperduto nel deserto, nelle cui vicinanze ci sono solo dei pozzi petroliferi con rispettive raffinerie. Trovo una bettola dove rinchiudermi e stramazzo su una branda modello caserma della seconda guerra mondiale. Finalmente si dorme. Mi alzerò dopo un numero indefinito di ore tipo 18/20 finalmente con anche un po’ di appetito. Esco fuori e mi trovo in compagnia di decine di motociclisti che evidentemente avevano avuto problemi analoghi ai miei. Molti sono francesi, alcuni italiani ma ci sono anche finlandesi tedeschi e alcuni giapponesi. Molti sono anche concorrenti che erano alla guida di auto e camion .
Sono tutti, ma proprio tutti inferociti con Sabine senior per la tattica adottata di scrollarsi di dosso più gente possibile nelle prime tappe della gara. Sarebbe stato bello e anche elegante permettere anche a quelli meno preparati di poter fare qualche tappa meno impegnativa all’inizio, anche solo per acclimatarsi alla gara e dare loro un po’ di soddisfazione personale, visto i sacrifici fatti. Poi selezionare la truppa un po’ più avanti.

Tutti concordi che il vero Sabine mai avrebbe fatto una cosa del genere.

Intanto si sparge rapidamente la voce che qualcuno sta organizzando il recupero dei mezzi abbandonati nel deserto che altrimenti sarebbero stati miele per i predoni del deserto. Gli abbandoni erano stati talmente tanti che era più pericoloso lasciare i mezzi abbandonati nel deserto piuttosto che andarli a recuperare, anche perché le compagnie petrolifere avevano in dotazione degli enormi mezzi a 6/ 8 ruote alte più di due metri con vano carico semplicemente mostruoso sul quale potevano caricare sopra anche i trucks della gara.
Alcuni concorrenti, stufi di stare ad aspettare il quel paese sperduto nel nulla, decidono di ritornare a casa e di abbandonare lì il loro mezzo. Io in questa avventura ci ho già messo troppe energie e soldi, se riesco vorrei recuperare la moto che, in teoria dovrebbe ancora funzionare se non è stata ancora cannibalizzata da qualche predone.
La pazienza e la speranza vengono premiate quando finalmente, insieme a una miriade di Pajero, Range Rover, Unimog, Yamaha, Honda, Bmw varie vedo sul cassone di uno dei “ mostri “ la mia bella Honda bianca blu e gialla.
La scarico, verifico che sia tutta intera e insieme ad altri concorrenti italiani che nel frattempo avevo conosciuto e con i quali avevo trascorso quei giorni, lascio la ridente cittadina algerina e mi avvio verso il mediterraneo dove spero di trovare una nave che mi riporti in Italia. Passo il confine Algeria-Tunisia e infine arrivo a Tunisi dove dopo alcuni giorni mi imbarcherò per Genova.
Tale è stata la delusione di questa partecipazione alla Dakar che è la prima volta dopo trent’anni che la racconto nei dettagli. Persino mia moglie, leggendo queste note è rimasta stupita di tutte le peripezie che dovetti affrontare in quella gara e ovviamente anche un po’ risentita per non avergliele raccontate prima. Ma al mio rientro in Italia, ho voluto rimuovere quello che speravo fosse un sogno realizzato almeno in parte (mi sarei accontentato di arrivare a metà gara) e invece si rivelò un incubo.


Sicuramente una parte consistente della colpa fu mia che sottovalutai la gara o forse sopravvalutai me stesso. Di fatto andò così. Non mi sono mai vantato di aver corso la Dakar, le poche volte che qualcuno ne parla (sempre per iniziativa altrui) dico che non ho fatto la Dakar ma che ho provato a farla e non ci sono riuscito. Quindi non mi ritengo un dakariano.
La mia fida Honda è rimasta in fondo al garage per 30 anni sommersa dalla polvere , alcuni pezzi sono andati perduti (il cupolino con i doppi fari non so dove sia finito Recentemente un amico (quello della scommessa con il Gilera Regolarità alla Sauze 400) mi manda una foto che io non avevo. Ritrae la mia Honda pronta per la gara con tutti gli adesivi dei pochi sponsor che avevo racimolato in bella vista davanti al furgone della Sportauto prima di partire per Parigi. Considerando che parliamo di una special di 30 anni fa tutto sommato faceva la sua figura.
Mi è venuta voglia di restaurarla e di riportarla all’antico splendore, poi magari me la metto in salotto (Luisa permettendo), ho anche ritrovato in un un sacchetto, riordinando il garage durante il lockdown, tutti gli adesivi originali degli sponsor ancora in ottimo stato. Quando si dice il segno del destino.
Dopo la Dakar non ho più praticamente fatto gare in moto se non saltuariamente e con poco entusiasmo. Ho fatto spesso il medico al seguito delle gare motociclistiche anche di un certo spessore, tra le quali ricordo con molto piacere l’Incas Rally del 1989. Poi una duna (ops un panettone) su una pista da cross, presa male ha definitivamente chiuso la mia carriera di fuoristradista fai da te. Fratture multiple, immobilizzazione forzata e prolungata, moglie al 7° mese di gravidanza (già con una figlia di 2 anni) un pelino incazzata… Forse meglio dedicarsi al lavoro vero e così ho fatto.

P.S. qualcuno riesce a procurarmi il cupolino doppio faro della Stilmotor? Ho trovato quello con faro singolo rettangolare, ma cambia completamente il look della moto

Luca Roberti

parisdakar.it ringrazia l’amico Stefano Massenz per il contatto e la preziosissima collaborazione per la realizzazione del post.

DAKAR 1988 | “Ma quello non è un tuareg!”

Tratto da: Gazzetta dello Sport 16 gennaio 1988
Testo di: Testo: Enrico Minazzi

TESSALIT (Mali) — II doganiere del Niger, basco verde in testa identico a quello delle nostre Fiamme Gialle, aveva appena finito di chiedere il rituale “cadeaux, monsieur” (regali, signore) nel più puro stile locale. Camicie (anche sporche ed usate), pantaloni sdruciti, adesivi, cappellini. Tutto va bene per accellerare le operazioni di dogana e guadagnare in fretta l’uscita dell’aeroporto dove si è poi assaliti da una moltitudine di indigeni e di bambini che ti offrono servizi e oggetti di ogni genere dell’artigianato locale.

Vestito da indigeno, vende souvenir ma è Claudio Torri, pilota italiano desaparecido

Alcuni sono talmente lesti nel portare le tue borse che se non li segui come uno 007 finisce che ti ritrovi al bivacco senza tenda e sacco a pelo. Ma anche questo fa parte del gioco della «Dakar». Dopo qualche giorno d’Africa questi personaggi diventano parte integrante dell’ambiente. Cosi, l’altro giorno, all’arrivo a Niamey pochi hanno fatto caso a un tipo vestito d’azzurro che, con un uccellaccio montato su uno strano supporto di legno, recitavaIMG_0836 «cadeaux, cadeaux, monsieur. Solo quando dall’uscita è transitato Serafino Valsecchi, meccanico della Guzzi a Mandello Lario, la comitiva italiana si è accorta che quel tipo vestito d’azzurro, in puro stile tuareg, non era un indigeno ma il trentasettenne bergamasco Claudio Torri.

Perché parliamo di lui? Semplice: sprofondato nella sabbia della prima speciale che da El Oued portava ad Massi Messaud del pilota lombardo si erano perse completamente le tracce. Il suo meccanico, che lo seguiva con le truppe avio-trasportate della Dakar, lo aveva invano cercato nelle classifiche, ai bivacchi, ai posti dí ristoro dell’Africatours e presso gli aerei dell’organizzazione. Per una settimana intera aveva cercato vanamente di sapere dove fosse finito il suo assistito. Poi si era quasi rassegnato: le ore e i giorni passavano e di Torri si sapeva solo che era entrato nella lista dei ritirati fin dalla prima speciale.

Insomma il buio più totale. Ora la preoccupazione accumulata in giornate trascorse ad arrovellarsi il cervello per la preoccupazione era tutto ad un tratto svanita. Un lungo abbraccio, una risata che ha attirato l’attenzione dei doganieri nigeriani ed ecco che Torri è ricomparso all’orizzonte della «Dakar•, così come vi era sparito. “Ho avuto subito problemi stupidi alla moto perché sono uno stupido — ha spiegato il bergamasco problemi che mi hanno frenato: la ruota posteriore rotta, mi sono saltati i raggi, e poi la frizione k.o. al chilometro 183 della mia Dakar ’88 hanno finito col mettermi al tappeto. Nel bel mezzo del deserto, insabbiato sulle dune”.

Torri, bergamasco che dice di fare l’architetto, era l’unico concorrente al via della «Dakar» con una moto Guzzi, una 750 bicilindrica prototipo realizzata nelle officine di Mandello sotto la consulenza diretta del pilota-amateur. Una moto che aveva incuriosito la platea italiana fin dalla partenza di Lacchiarella dove sull’elenco degli iscritti figurava: numero 66, Claudio Torri, Moto Guzzi Tap. Cosa significava quella sigla Tap? Non certo il nome dello sponsor (Tropicana, una bibita) ma più semplicemente «tut a post», vale a dire «tutto a posto» in dialetto lombardo.

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L’Africa e la sabbia poi si sono incaricate di smentire quell’ottimistica sigla: e la povera Guzzi è affondata subito e Torri ha cosi dovuto abbandonare ogni speranza di giungere a Dakar. «Ma non per questo non mi sono divertito — afferma il singolare pilota attorniato da meccanici e concorrenti italiani. — Questa è una corsa che ti fa fare esperienze stupende anche se non arrivi in Senegal. Io ad esempio ho passato tre giorni nella sabbia della prima speciale. E ne ho viste di tutti i colori. Innanzitutto sono transitati due camion-scopa che raccoglievano i ritirati ma non hanno potuto darmi un passaggio. Erano stracarichi di gente che si era ritirata. Sul cassone non c’era proprio posto. Mi hanno detto: “Ripassiamo” e mi hanno lasciato lì una razione di sopravvivenza più un po’ di acqua. E ragazzi miei, ho patito un freddo dell’accidente. Una cosa del genere non l’ho neppure sopportata quando facevo il pastore sulle Prealpi bergamasche».

Tre giorni nella sabbia, un’avventura davvero fuori dal comune, per di più in Algeria, dove gennaio è particolarmente pungente. «Mi sono ritrovato – continua il desaparecido — con un francese piantato in asso dalla sua Toyota. E ne abbiamo viste delle belle. Ad esempio è arrivata una vettura d’assistenza con due ponti rotti. Era una Range: i suoi due piloti si sono accorti che poco distante, insabbiata e con la frizione fuori uso, c’era una vettura analoga abbandonata da un equipaggio belga. Non ci hanno pensato due minuti, sono scesi, han-no smontato i pezzi che a loro servivano dalla vettura trovata, li hanno montati sulla loro e poi? E poi hanno pensato bene d’incendiare la macchina sciacallata e sono ripartiti a gran velocità».

La corsa verso il Senegal, insomma, offre quasi spaccati da codice penale. «E non è tutto! — esclama il bergamasco. — Un altro francese, in gara con una Yamaha, è arrivato col motore a pezzi. Perdeva olio da tutte le parti, non poteva più proseguire; ha aspettato il camion che gli faceva da assistenza, dove aveva caricato tutti i suoi pezzi di ricambio. Avrebbe potuto riparare la sua motocicletta invece ha pensato bene di caricarla sul veicolo che lo aiutava. Poi deve aver pensato che li in giro c’erano troppe moto di concorrenti, ritirati perché non se la sentivano fisicamente di proseguire, gente che aveva abbandonato il proprio mezzo ancora in efficienza. Questo personaggio, barba e baffi, ha tolto la propria targa e i propri numeri di gara, sostituendoli a quelli di una moto Honda.

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“Per una moto… regalata, posso anche tradire la mia amata Yamaha…” mi ha detto ridacchiando, allontanandosi nella sabbia e nella polvere». Fantascienza? Oppure Torri possiede una fantasia molto fervida, galoppante? «No, no, — ci dice il bergamasco — vi assicuro che sono scene che ho visto dal vivo: alla Dakar, scene del genere, capitano ad ogni tappa.. Resta poi da raccontare la singolare avventura che il pilota italiano ha vissuto per raggiungere la capitale del Niger, Niamey, ed uscire dalle sabbie della prima speciale.

«Dopo tre giorni sono finalmente riuscito a salire sul camion-scopa, abbiamo percorso una quarantina di chilometri, incontrando uno di quei giganteschi autocarri che fanno le prospezioni petrolifere, camion 8×8. Ero sul cassone con Fossati e con Consonni, piloti in gara con il Mercedes Unimog che curava l’assistenza della Honda Italia. Siamo scesi dal camion-scopa, preferendo passare su quell’altro mezzo. Un veicolo che marciava al massimo a 10-15 chilometri ora. E non vi dico che avventure: forature, rotture di ingranaggi vari: per recuperare la mia Guzzi Tap, la Range dello spagnolo Canellas e l’Unimog della Honda, abbiamo impiegato tre giorni.

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Quegli algerini, con quel camion vecchissimo, quando arriva la Dakar, interrompono il lavoro per gli statunitensi che cercano il petrolio e si dedicano al recupero dei veicoli abbandonati lungo le piste. Fanno anche buoni affari». Sembra insomma che questa Dakar offra la possibilità di divagazioni o di esperienze anche senza arrivare sulle bianche spiagge del Senegal: «E’ vero — fa il bergamasco — la gara ti offre mille storie, mille spunti. Quei tuareg sono stati davvero simpatici con noi: ci hanno preparato il couscous, hanno cotto il pane nella sabbia, ci hanno dato da bere. E’ stata davvero una bella esperienza. Anche un’impresa. Perché per loro l’interpretazione del tempo è bellissima, soprattutto nei confronti di noi europei che siamo abituati a correre sempre. Qui una simile mentalità non esiste.

E forse, travolto dai piaceri dei ritmi africani, Torri non si è preoccupato di dar segni di vita presso la carovana della Dakar e neppure a casa sua. «Avevo pensato di rimettermi in viaggio con la moto verso Algeri, una volta che l’avessi riparata. Poi ho cambiato idea, e sono venuto qui con l’aereo. La moto l’ho lasciata a Massi Messaud per qualche giorno. Ho avvisato casa? Si, ho telefonato l’altro ieri, ho parlato con mia moglie, poi con mia figlia, che ha appena compiuto sei anni. Ho salutato Valentina. Mi ha detto che sono il solito… scemo». Torri si dilunga a parlare della moglie Sandra, che a suo dire l’anno scorso si sarebbe risentita perché il marito non era partito per la Parigi-Dakar: «Ma voi le capite le donne? Un anno partecipi alla Dakar e ti fanno una testa così perché vieni in Africa; l’anno dopo non ci vieni, e si arrabbiano per il motivo inverso. Quest’anno, comunque, avevo deciso di partecipare. Ed eccomi qui, tra vecchi amici».

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Jordi Arcarons | Una vita dedicata alla Dakar

L’ex pilota catalano ha partecipato 16 volte alla leggendaria gara, debuttando nel 1987 e correndo per l’ultima volta e in auto nel 2003 con la BMW.

“La Dakar per me è una gara che ha una parte umana molto importante e una competizione che richiede di seguire un roadbook  in corsa ed è una costante di improvvisazione, sapendo come confrontare tutti gli elementi per essere meglio di tutti. Non sono riuscito a vincere, ma tutto ciò che ho vissuto mantengo un valore molto alto nella vita”, lo spagnolo risponde a Motorsport.com.

Jordi Arcarons accarezzò la vittoria molte volte, fu il secondo in quattro occasioni e capì meglio di chiunque altro che cosa significasse la parola Dakar.

Per quattro volte ha accarezzato la gloria, ma ha dovuto confrontarmi con un gigante dello sport, Stephane Peterhansel.

“Non puoi avere l’amaro in bocca, perché alla fine la cosa importante nella vita è continuare e tutto quello che ho imparato mi ha dato molto. Mi avrebbe cambiato un po ‘la vita per averlo vinto, ma non succede nulla, quello che non sono riuscito ad ottenere da pilota, l’ho avuto dopo allenatore e allenatore con Nani Roma, con Marc Coma .

Con Peterhansel è stata una sfida non sempre alla pari perché forse avevamo meno mezzi, non abbiamo lottato con lo stesso budget. Eravamo come una squadra privata e fino a quando KTM non ha fatto una moto per vincere abbiamo avuto un sacco di problemi meccanici. È stato molto difficile combattere contro Peterhansel e il team Yamaha, erano quasi intoccabili “, ricorda Arcarons.

Dakar 1988 l'anno del debuttoLa prima partecipazione del 1988

Arcarons ricorda che furono Juan Porcar e Carlos Mas ad aprire la loro curiosità per la Dakar.
Dakar 1992, 3° assoluto“In TV vedi le immagini, ne ho seguite diverse ogni giorno un minuto e questo mi ha incoraggiato e mi sono detto che dovevo essere lì. Non appena ho finito la Dakar nel 1987, mi sono detto che dovevo iniziare. Tutto l’anno Enduro, il campionato spagnolo raid, la Baja Aragón e il Campionato del Mondo Enduro. 
In effetti, ho avuto una tecnica molto buona per adattarlo a questo tipo di gara, nelle dune di sabbia. Quello che non avevo idea era la navigazione perché il rally nazionale era senza un road book, lo stesso Baja, e seguire un corso con una bussola non mi dava alcuna sicurezza, né sapevo come farlo.”

“È stata un’avventura di sopravvivenza perché le tappe erano molto lunghe, siamo arrivati di notte per molti giorni. Inoltre, rifornimenti erano ogni 450 km e la moto non aveva abbastanza benzina perché i depositi sono stati rotti e abbiamo dovuto portare la benzina in un barattolo sulla schiena e tutto era la sopravvivenza. Niente a che vedere con la gara ora, che è più umana e più sportiva. Era un’avventura totale. Come ricordo negativo 7 persone sono morte nel rally, piloti e non piloti “.

Contrariamente a ciò che può sembrare, Arcarons ricorda che in quella Dakar è andato molto veloce, attraversando deserti infiniti e leggendari.

“In quelli in esecuzione Dakar molto, perché attraversando l’Algeria e Teneré era tutta velocità, anche con un sacco di navigazione, ma le moto erano a 170-180km / h, e quando c’è stato un incidente era grave.

Dakar 1994 2° classificato 6 PS vinte!

Ricordo i camion Duff che andavano online nel deserto di Tenere con le macchine e avevano motori doppi e avevano un sacco di energia. Erano alla stessa velocità della Peugeot 205 di quel tempo. E quel camion si è rovesciato e i piloti sono stati licenziati dal vetro davanti. È stato tremendo”.

E la morte, che quasi ogni anno volava sopra la carovana:

“Ricordo una Dakar in cui morì Gilles Lalay, quello che andò in Sud Africa, a Città del Capo, e vidi solo la bicicletta. Non si sapeva quale marca fosse da quanto fosse ammaccato. Il guidatore, naturalmente, è deceduto all’istante in caso di collisione frontale con un cambio di grado. Eccoti per tutto”.

L’unica avventura in una macchina

Arcarons ha tentato la fortuna nel 2003 con una BMW, ma l’avventura non è andata comeDakar 1995 2° classificato previsto e ha appeso il casco per sempre.

“Sono andato a provare la gara in macchina, forse perché ha meno rischi e sembra più comodo di andare in moto. Volevo provarlo perché ho deciso di ritirarmi dalla moto dopo la somma degli infortuni, perché hai un’età in cui non sei più così competitivo … Ho avuto modo di conoscere questa specialità e non ho avuto fortuna con l’attrezzatura, che era molto semplice, non conteneva parti di ricambio. Ho rotto la macchina in Tunisia nella terza fase e siamo andati a casa e lasciare un po ‘di denaro su di voi dice ‘Mamma, se vengo qui e devono pagare che, non stiamo andando bene”.

fonte: https://es.motorsport.com/dakar/news/40-anos-dakar-jordi-arcarons-994882/

Advertising | Bertoni 1988

Dakar 1988 | Gilera R1 125 Paris Dakar

II ritrovamento dell’unico esemplare sopravvissuto delle due Gilera 125 R1 che parteciparono alla 10. edizione della Parigi-Dakar che si corse nel gennaio del 1988, ci ha dato lo spunto per raccontare una storia dimenticata. Una vicenda che è tanto più importante se consideriamo che con questa partecipazione la Gilera scrisse per la prima volta il suo nome nell’albo della massacrante maratona africana, iniziando di fatto una presenza che l’avrebbe vista tra i maggiori protagonisti negli anni a venire.

Ringraziamo di questa opportunità il Moto Club Carate Brianza, nelle persone del suo presidente, Guido Fumagalli e del collezionista Mauro Gibellini, proprietario della moto, che per celebrare l’importante ritrovamento, nel luglio scorso hanno organizzato una piccola festa che ha visto riunirsi i principali artefici di quell’avventura. Oltre al pilota che ai tempi guidò la moto n. 2, il francese Gilles Valade, ed al suo meccanico Michel Duhalde, arrivati il primo addirittura dalla Nuova Caledonia (che è dall’altra parte del mondo, sopra l’Australia), e il secondo dalla Francia, era presente anche la parte italiana della vicenda, gli storici meccanici che negli anni 80 e 90 costituivano il nerbo del Reparto corse Gilera, Emilio Locati e Romolo Ciancamerla. Mancava Silvano Galbusera, altra figura fondamentale nell’allestimento delle moto, ma purtroppo impossibilitato a partecipare.

Il team francese che si iscrive si chiama Le Defi 125 (la sfida della 125) a sottointendere la piccola cilindrata in rapporto alle enormi difficoltà da affrontare.

Furono infatti questi uomini a costruire le moto ad Arcore, insieme a Marco Riva, presente all’evento, in quegli anni al Reparto progetti della Casa di Arcore, che si occupò della livrea e della grafica delle due R1 che presero il via alla Parigi-Dakar. Presentati brevemente così i protagonisti, lasciamo il ricordo di quell’avventura al pilota Valade e al suo meccanico Duhalde.

GILLES VALADE
Affascinato come molti piloti di fuoristrada dalla Parigi-Dakar, nel gennaio 1987, subito dopo la conclusione della 9a edizione della gara, prendo contatto con Jean Marc Lambinon di Peugeot Cycles a Parigi. Ho un progetto ambizioso da presentargli: partecipare alla prossima Parigi-Dakar, con quattro Peugeot XL 125 LC, moto di serie che utilizzano motori Gilera, e che ben conosco perché ne utilizzo una da due anni per partecipare al Trofeo Peugeot di Enduro. La piccola cilindrata, in rapporto alla durezza della gara, rappresenta di per sé una sfida, e per questo il Team che ho fondato si chiama Le Defi 125 (La Sfida della 125).

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Il Team conta già i quattro piloti, un meccanico, un preparatore, un semplice ma efficace piano di comunicazione, e qualche piccolo sponsor. Manager, pilota e ‘PR’ sono io; Christian Grelaud è il pilota della seconda moto che ci porta in dote lo sponsor Aurora Confection; Marcel Meriguet e Chirstian Izaire, pilota e giornalista sportivo di Sud Radio, sono il terzo e quarto pilota. Michel Duhalde è il meccanico. Mi rendo conto che partecipare al raid con una 125 è un azzardo, il sogno è di concludere l’avventura a Dakar, ma sarebbe già un successo arrivare ad Agadir, il traguardo di metà gara.

La dirigenza della Peugeot si convince che La Sfida 125 può essere un buon veicolo pubblicitario, richiamando interesse verso le sue moto; non passa molto tempo infatti che Lambinon mi chiama per annunciare che hanno accettato di affidarmi quattro moto, dieci motori di scorta e molti ricambi. Per me è un ottimo inizio e, con il sostegno della Peugeot, mi rivolgo alla Michelin per ottenere i pneumatici Desert con mousse Bib. Se le quattro Peugeot, nel loro allestimento base, possono andar bene per le gare di Enduro in Francia, non sono certo adeguate per affrontare una Dakar. Un po’ di esperienza infatti ce l’ho perché ho corso l’edizione del 1986 da privato con una Suzuki. Serve anzitutto aumentare l’autonomia, che è ridotta dal serbatoio da 10,2 litri.

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A quell’epoca l’Acerbis realizza kit di mega-serbatoi in materiale plastico, più un serbatoio supplementare da piazzare sotto la sella, per moto di Marche diverse, ma tutte di grossa cilindrata, quindi non adattabili alle Peugeot. La soluzione mi arriva da un annuncio pubblicato su Moto Journal da Michel Assis che offre un monoscocca in carbonio da 45 litri, con all’interno due serbatoi aeronautici indistruttibili, sistemati uno nella posizione tradizionale e l’altro dietro la sella, nella coda della moto. Contatto Assis e gli chiedo se è possibile adattare questo kit alle mie moto. La risposta è positiva, quindi gli spedisco una moto perché possa lavorarci con calma e precisione nella sua officina. Ma anche la ciclistica delle Peugeot non è all’altezza.

In particolare la forcella, che dovrà sostenere il sovrappeso di oltre 45 litri di carburante e dei vari accessori necessari allaGilera_R1_36 navigazione nel deserto. Stock Express, ricambista specializzato in forcelle, forse sedotto dal mio entusiasmo (e dai miei sponsor…), accetta di procurarmi quattro Marzocchi maggiorate, irrobustite e ‘up-side-down’. Presso l’officina Doumencq Motos, a Saverdun in Ariege, dove si stanno già modificando le Peugeot, le forcelle vengono montate sui telai senza nessun problema, ed a breve le quattro Peugeot sono pronte per le prime esperienze sulle montagne dei Pirenei e le spiagge di Narbonne, che offrono molteplici tipi di terreno e difficoltà simili a quelle africane.

Le prove vanno bene, le moto ci convincono. Un pilota francese, occasionale spettatore delle nostre prove, e già concorrente al Campionato Peugeot di Enduro, ci chiede informazioni e offre la sua esperienza per eventuali consigli. Tra le altre cose, gli dico che abbiamo intenzione di modificare le dimensioni di catena, corona e pignone, ma che non sappiamo ancora cosa adottare tra 420, 428 o 520.

L’esperto endurista sconsiglia vivamente questo intervento, perché ha visto troppe rotture di carter motore causate dai rapporti e dalla catena maggiorata che, andando a sfregare sul carter, lo usura e lo rompe rapidamente. Per non parlare del maggior assorbimento di potenza, sensibile in motori come i nostri 125 che già non ne hanno tanta. Vista la serietà e la competenza della persona, decidiamo allora di soprassedere a questa modifica, mantenendo la trasmissione originale. Frattanto le quattro scocche speciali in carbonio sono finite e arrivano all’officina di Doumencq, dove si svolge la preparazione tecnica.

Non resta che montarle e dare gli ultimi ritocchi, dopo di che organizzo una prima presentazione del Team Le Defi 125 in TV, sul canale France 3. Altra fondamentale presentazione, con esposizione di una moto, allo stand Peugeot del Salone di Parigi, che si tiene dal 14 al 23 novembre 1987, dove incontro anche il noto giornalista Guy Coulon, che mi assicura un ampio servizio sulle maggiori testate della stampa specializzata e su VSD (diffusa rivista francese). Nella stessa occasione contatto ed ottengo supporto da altri importanti sponsor: Segura per l’abbigliamento, Answer per i caschi e Carrera per gli occhiali. Manca ancora tuttavia uno sponsor che possa coprire le spese di trasferimento di moto e ricambi, per mezzo dei camion di Georges Groine, all’epoca il più introdotto nei servizi della Parigi-Dakar.

Sempre a quel Salone, Lambinon, ospite allo stand Gilera, dove anch’io mi trovo incuriosito dalla nuova R1 da Enduro, ed in particolare dal suo potente motore, decisamente più performante di quello delle Peugeot, mi presenta ad alcuni dirigenti della Casa italiana. Ne segue una riunione in cui spiego il mio progetto e accenno ai problemi ancora da risolvere inerenti al costoso trasferimento. Ma soprattutto chiedo se è possibile ottenere il motore della R1 per montarlo sulle quattro moto. Il 14 dicembre ricevo una telefonata dall’Italia con cui mi si invita ad Arcore: la mia richiesta è accettata, e in più la Gilera parteciperà tramite il mio Team alla Parigi-Dakar in forma ufficiale! Per questo mi chiedono di mandare ad Arcore due moto su cui verranno installati i nuovi motori R1. Prima di accettare però, mi sembra corretto informare e chiedere l’autorizzazione alla Peugeot, che sportivamente non pone vincoli sul fatto che le moto portino anche il marchio Gilera.

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La cosa non passa inosservata alla stampa specializzata, e un nuovo articolo compare sulle pagine della rivista L’Equipe. Ma anche i contatti con l’organizzazione della Parigi-Dakar, nella persona di Renè Metge, vanno bene: visto il valore degli sponsor, Peugeot, Michelin, Gilera, ecc., chiedo ed ottengo che le mie moto abbiano i numeri di gara da 1 a 4. Un bel colpo per l’immagine! Le due Peugeot arrivano ad Arcore il 18 dicembre, e vengono smontate per adattare i nuovi motori, ma iniziano anche le prime difficoltà. Non solo risulta impossibile montare i motori e i loro accessori sulle Peugeot, ma una cassa inviata dalla Francia, che contiene tutto il materiale che serve a montare le scocche sulle moto, viene rubata alla dogana. Il mio meccanico, Michel Duhalte, in Gilera per seguire e collaborare coi lavori, è seriamente preoccupato, anche perché è già il 18 dicembre, e manca poco più di una settimana alla partenza della gara. Così sollecita il mio rientro ad Arcore, dove sono messo al corrente delle difficoltà tecniche incontrate, ritenute insormontabili visto il poco tempo che resta se si vuole schierarsi al via.

A questo punto interviene Gianni Perini, lo storico Direttore del Reparto corse di Arcore. Perini decide di prelevare due R1 dalla produzione e modificarle con i pezzi delle Peugeot. Accetto la decisione, anche perché non vedo vie d’uscita. Per risparmiare tempo, l’omologazione dei telai manterrà quella Peugeot… asportando la targhetta Gilera e ripunzonando i telai, e le due moto avranno documenti e targa francesi, con la cifra identificativa 25 del distretto di Besancon, dove ha sede lo stabilimento Peugeot. 1119 dicembre hanno inizio i lavori sulle 91, ma presto si presentano altre difficoltà. In particolare non si riescono ad adattare le scocche, tanto che alla fine i meccanici Gilera le tagliano in due parti, utilizzando solo quella posteriore che viene fissata al telaio con apposite staffe, mentre l’anteriore viene eliminata, adottando un serbatoio in lamiera di capacità aumentata realizzato in tempo record e su misura, e che conserva un aspetto simile a quello originale.

Purtroppo in questo modo si perdono 10 litri di carburante, che dovranno essere recuperati assolutamente fissando sopra la parte posteriore della coda due taniche da 5 litri, con le relative conseguenze di alterata stabilità che ne derivano. Non si riesce nemmeno a montare le forcelle Marzocchi “up-side-down°, mantenendo perciò quelle originali della R1. Viene presa la decisione di utilizzare una trasmissione finale rinforzata e maggiorata, nonostante il mio parere contrario. In effetti in nessuna gara di Enduro disputata dalla Gilera in Europa si è mai presentato il problema della catena che rompe il carter, per cui non si vede il motivo di rinunciare a questa modifica.

Le due moto sono così ultimate e sottoposte a prove da parte di collaudatori Gilera. Tra le modifiche apportate, l’eliminazione del miscelatore, della batteria, il cui vano sotto la sella viene occupato con una piccola tanica di riserva di olio per miscela, cavi di scorta gas e frizione già in posizione e pronti all’agganciamento, leve dei comandi di scorta fissati con elastici e fascette in plastica alla testa della forcella, seconda bobina di riserva, speciale cavalletto con larga base che non affonda nella sabbia, ruote con perni dotati di maniglietta per lo smontaggio rapido, e tutte le modifiche necessarie al manubrio (piastra e attacchi) per montare il road book e la bussola. Uno sforzo enorme da parte di meccanici e tecnici, che lavorando giorno e none, in una settimana hanno praticamente costruito due moto in grado di affrontare una Parigi-Dakar! Il 26 dicembre 1987 io e Grelaud, l’altro pilota, siamo a Milano dove si svolge la pre-partenza da Milano-Fiori.

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Sulle nostre casacche è ben in evidenza il marchio Gilera, e così sul serbatoio delle due moto, dove Gilera sovrasta Peugeot. Da Milano partiamo per la Francia in auto e arriviamo a Reims dove ci attendono Perini ed il meccanico Silvano Galbusera con il camion assistenza della Gilera e le due R1. A Reims ritroviamo anche Marcel Meriguet e Christian Izaire e le loro due Peugeot. qui hanno luogo le verifiche tecniche. Per quanto riguarda la numerazione, purtroppo il numero 1 viene spostato sulla Yamaha di Jean Claude Olivier (il potente importatore francese della Casa giapponese), così le quattro moto del Team avranno il 2, 3, 4 e 5, con i primi due numeri assegnati alle Gilera. Il 30 dicembre ’87 siamo a Cergy Pontoise (sul fiume Oise, qualche km a Nord Ovest di Parigi) dove si corre la prima prova speciale sotto un tempo infame. Pioggia e fango rendono la speciale un vero girone dantesco, ma le Gilera vanno perfettamente. Unica accortezza, viene montato un parafango anteriore alto per non intasarsi di fango, che poi sarà smontato perché inutile in Africa dove è preferibile quello basso. Al traguardo il risultato è davvero incoraggiante, con Grelaud 39°, e primo nella classe 125, e gli altri ben piazzati in posti alti della qualifica.

Il primo gennaio S8 ha inizio da Versailles la tappa di trasferimento verso Sète per l’imbarco per l’Africa: le due Gilera in rettilineo toccano i 145 km/h, meritandosi l’ammirazione di Jean Claude Olivier, che ci affianca con la sua Yamaha 600 incitandoci con il familiare gesto motociclistico della manetta tutta aperta. A Sète ci imbarchiamo sul traghetto che ci porta ad Algeri. Siamo in Africa! Da Algeri raggiungiamo EI Oued, dove il meccanico al seguito della spedizione, Michel Duhalde, provvede alla manutenzione delle moto. Solamente sulla mia Gilera si riscontra un serio problema: purtroppo sta verificandosi quanto temevo, e cioè che il pignone e la catena maggiorati impastandosi di sabbia fanno da mola smeriglio sul carter sinistro del motore che presenta una fessura di 5 cm, permettendo così alla sabbia di penetrare nel carter dell’accensione. Inoltre, fatto inspiegabile, viene rinvenuta la molletta della falsa maglia della catena all’interno del carter, mentre alla mia catena non manca. Forse un errore in fase di montaggio? La prossima tappa EI Oued-Hassi Messaoud, è di 594 km, di cui 250 di speciale nel deserto. Cosa fare? Cambiare tutto il motore, o solo il carter rotto? Il regolamento prevede che ogni moto abbia due motori di scorta, il primo da usare, nell’eventuale caso di una rottura, nella prima parte della gara, cioè fino ad Agadez, il secondo in seguito. Alla fine decidiamo di cambiare solo il carter risparmiando così il primo motore di scorta, e Michel lavora tutta la notte per completare l’operazione. Al mattino la moto gira perfettamente e prendo il via speranzoso. Anzi la Gilera, piccola e leggera rispetto alle altre moto, grosse e pesanti, naviga benissimo sulle dune.

La gioia però è destinata a durare poco: dopo tre ore il motore si ammutolisce. Guardo il carter di sinistra e vedo che si è nuovamente rotto, con la sabbia che è penetrata all’interno ed ha bloccato l’accensione. Non mi perdo d’animo, e con gli attrezzi che ho smonto il motore dal telaio, fiducioso che il camion assistenza sarà da me a breve. Invece dovrò aspettare 11 ore nel deserto prima che arrivi. Il camion mi lascia il motore nuovo ancora imballato e riparte subito, d’altronde è in gara anche lui! Nessuno mi aiuta, nessuno si ferma a vedere cosa non va. Siamo in una prova speciale, e la Parigi-Dakar non è una passeggiata nel deserto! Il nuovo motore parte subito, posso riprendere la marcia. Mi mancano 350 km per arrivare al traguardo di tappa.

La pista è resa quasi impraticabile dal passaggio di oltre cinquecento veicoli, ed è ormai sera, con la notte incombente. Accendo tutte le luci e proseguo con cautela. Improvvisamente, dopo una duna, trovo un assembramento di veicoli: moto, auto e camion sono fermi con i fari accesi in una sorta di accampamento dove rosseggiano già i primi falò. Mi fermo anch’io, nonostante non abbia nulla per passare la notte, ma sperimento la famosa fratellanza dei Dakariani: mi offrono da bere, da mangiare e per ripararmi durante la notte. Al mattino partiamo tutti. Mi manca la benzina, ed una Land Rover ormai fuori combattimento, mi regala la sua riserva. Così arrivo al traguardo di tappa di Hassi Messaud con ben 10 ore di ritardo.

qui vengo a sapere che le due Peugeot, che montavano i motori più vecchi col pignone e la catena più piccoli (da 428 anziché da 520), avevano superato questa prova, ma si erano comunque ritirate perché avevano finito l’olio per la miscela. In quella Parigi-Dakar, delle tredici 125 iscritte nessuna riuscirà a concludere la gara. Poco dopo mi raggiunge Christian Grelaud, ospite del camion scopa in compagnia di molti altri piloti. Ha rotto la scocca nel punto in cui era stata fissata al telaio e anche lui si è ritirato. Oltretutto il suo motore si stava rompendo esattamente come il mio. La mia moto, a proposito, comincia a denunciare lo stesso problema al carter dopo sei ore di marcia nemmeno tirata. Scoraggiato, non mi resta che abbandonare la gara, anche perché non arrivano i camion dell’assistenza, e per regolamento non potrei comunque montare il secondo motore di scorta. Decido però di tornare ad Algeri in moto, perché il trasferimento è tutto su asfalto.

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La mia Parigi-Dakar finisce qui. Anche gli altri componenti del Team raggiungono Algeri, dove, grazie all’abilità di Michel, riusciamo ad imbarcarci su un aereo cargo in compagnia delle moto e… di quel che ne resta. Magra consolazione è poi sapere che quella tappa era stata troppo dura per tutti: auto e camion ribaltati o fuori uso e moto distrutte o bloccate nella sabbia, per un totale di 147 abbandoni, e con tutte le 125 ritirate. Forse l’organizzazione non aveva ben valutato le difficoltà, ma i maligni sussurravano che la cosa fosse stata studiata apposta per ridurre il numero di concorrenti e quindi le spese generali… Comunque, forse per rimediare, all’ultimo momento la direzione di gara aveva concesso un bonus di 10 ore per i ritardatari. Riportata la Gilera ad Arcore, spiego le cause dei ritiri allo staff tecnico. Gianni Perini mi ascolta, registrando ogni minimo particolare, che di certo servirà come esperienza.

Subito mi propone di partecipare ad una maratona che si terrà tra poco in Spagna, la Baia Aragon, gara a staffetta per due piloti da fare con una R1 preparata. Accetto e scelgo Christian Grelaud come compagno. Purtroppo Christian rimarrà vittima di un incidente in auto pochi giorni prima della gara. Parteciperò ugualmente, anche per onorare la sua memoria, ma anche questa volta senza fortuna. Così chiuderò con la Gilera, non senza che i miei meriti siano stati riconosciuti quale promotore di una partecipazione che porterà alla Casa italiana tante soddisfazioni sportive°.

MICHEL DUHALDE E ROMOLO CIANCAMERLA

Non meno interessante anche il ricordo di Michel Duhalde, il meccanico francese incaricato dell’assistenza delle Gilera in terra d’Africa, e che fu invitato ad Arcore per la preparazione specifica. “Conosco Valade grazie alla mia BMW che ho trasformato in stile Parigi-Dakar. La moto gli piace e mi chiede se sono disposto a seguirlo nell’impresa Defi 125. Il suo entusiasmo mi contagia subito, ed il mio coinvolgimento sale alle stelle quando vengo scelto per andare ad Arcore al Reparto corse. Arrivo all’aeroporto di Linate la sera del 17 dicembre 1987 e vengo portato ad Arcore su una Lancia Thema Ferrari 8.32! Primo contatto con Gianni Perini e i meccanici del Reparto Corse ed Esperienze. Soprattutto con Silvano Galbusera stabilisco subito un buon rapporto, anche grazie al fatto che parla bene francese. Ci mettiamo subito al lavoro sulle due Peugeot per dotarle dei motori R1. Non è un lavoro facile: la marmitta, il silenziatore ed il filtro dell’aria sono incompatibili col telaio Peugeot.

Quindi Perini decide di utilizzare due R1 standard, dotandole dei componenti tolti alle due Peugeot. A sera chiamo Gilles Valade, e lo informo di tutto. Le scocche in carbonio vengono segate in due e se ne utilizza solo la parte posteriore, mentre alla forcella Marzocchi delle Peugeot si preferisce quella di serie della R1. Il lavoro procede rapidamente ed imparo tantissimo da questi professionisti del Reparto corse. A pranzo sono invitato alla mensa della Gilera e nel breve momento di relax, chiedo a Silvano qualche notizia sulla fabbrica e sulle moto. Ho in mente la bicilindrica da Cross utilizzata da Rinaldi solo per poche gare e poi scartata a causa del regolamento che vietava questo motore. Mi portano anche in un magazzino dove ci sono non meno di ottanta moto di tutte le epoche. Sono impolverate e abbandonate: è un vero peccato che la storia della Gilera sia trattata così! Ma il tempo stringe e il lavoro incombe.

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Ogni sera torno in albergo dove dormo poco e male, assalito da tutti i problemi tecnici e meccanici che continuamente si presentano. In Gilera fanno davvero del loro meglio, Perini mi ha addirittura regalato due tutte rosse con la scritta Gilera, così da farmi entrare ancor di più nell’ambiente. Si lavora senza tregua e con grande precisione. Così riusciamo a risolvere tutti i problemi, dal serbatoio, alle targhette di omologazione, al filtro dell’aria, alle piastre paramotore, ai due radiatori dell’acqua. Allo stesso modo superiamo brillantemente la difficoltà di installare il road book elettrico e la bussola sul manubrio. Poi saldiamo ai perni ruota delle levette per lo smontaggio rapido, e uniformiamo l’esagono a quello della candela così che con una sola chiave si possano smontare anche le ruote, modifichiamo il cavalletto ed eliminiamo la batteria, montando anche una bobina di scorta. Anche la sella viene realizzata apposta con una gomma piuma speciale molto resistente, e sono io a proporre di montare cavi e leve di scorta in posizione accessibile e pronti all’uso. In più i paramani sono rinforzati da barre in alluminio. Eliminiamo il motorino d’avviamento e il miscelatore.

Ciò che purtroppo non siamo in grado di risolvere, e che si rivelerà fatale, è la questione del pignone troppo grosso, che alla fine sfonderà il carter a causa della sabbia. Nemmeno Perini riesce a trovare qualcuno che ci realizzi un pignone più piccolo. L’unico risultato che otteniamo è di ricevere dalla Regina una catena 0-R di alta qualità da 520 (le Peugeot montano O-R Sedis da 428), come quella delle Cagiva 900 ufficiali. I giorni passano molto veloci e la mia settimana da Arcore si avvia alla fine. Il mio apporto non è comunque marginale, anzi sono fondamentale quando si tratta di montare le mousse Bib nelle Michelin delle ruote posteriori perché qui nessuno lo ha mai fatto prima. Dopo questa operazione le mie quotazioni salgono al punto che mi si chiede se non sono un tecnico della Michelin… Chiedo poi che i raggi siano sostituiti con altri più robusti, non senza però l’interessamento di Perini, che sceglie anche nuovi cerchi DID provenienti dal magazzino delle moto da Cross.

Le ruote davanti conservano invece i cerchi originali delle R1, e questo spiega perché siano anodizzate in oro, mentre le posteriori sono in color alluminio. Le moto sono quasi pronte, vengono messe a punto da un carburatorista della Dell’Orto e poi sono affidate per i primi giri a collaudatori Gilera. Infine sono caricate per portarle a Milano per la pre-partenza. E il 24 dicembre. Ho vissuto sette giorni entusiasmanti al Reparto Corse Gilera, un’esperienza molto importante per la mia vita, non solo professionale. Romolo Ciancamerla, per dieci anni in Gilera al Reparto corse, aggiunge ulteriori particolari alla storia.

Ogni sera torno in albergo dove dormo poco e male, assalito da tutti i problemi tecnici e meccanici che continuamente si presentano. In Gilera fanno davvero del loro meglio, Perini mi ha addirittura regalato due tutte rosse con la scritta Gilera, così da farmi entrare ancor di più nell’ambiente. Si lavora senza tregua e con grande precisione. Così riusciamo a risolvere tutti i problemi, dal serbatoio, alle targhette di omologazione, al filtro dell’aria, alle piastre paramotore, ai due radiatori dell’acqua. Allo stesso modo superiamo brillantemente la difficoltà di installare il road book elettrico e la bussola sul manubrio. Poi saldiamo ai perni ruota delle levette per lo smontaggio rapido, e uniformiamo l’esagono a quello della candela così che con una sola chiave si possano smontare anche le ruote, modifichiamo il cavalletto ed eliminiamo la batteria, montando anche una bobina di scorta. Anche la sella viene realizzata apposta con una gomma piuma speciale molto resistente, e sono io a proporre di montare cavi e leve di scorta in posizione accessibile e pronti all’uso. In più i paramani sono rinforzati da barre in alluminio. Eliminiamo il motorino d’avviamento e il miscelatore.

Ciò che purtroppo non siamo in grado di risolvere, e che si rivelerà fatale, è la questione del pignone troppo grosso, che alla fine sfonderà il carter a causa della sabbia. Nemmeno Perini riesce a trovare qualcuno che ci realizzi un pignone più piccolo. L’unico risultato che otteniamo è di ricevere dalla Regina una catena 0-R di alta qualità da 520 (le Peugeot montano O-R Sedis da 428), come quella delle Cagiva 900 ufficiali. I giorni passano molto veloci e la mia settimana da Arcore si avvia alla fine. Il mio apporto non è comunque marginale, anzi sono fondamentale quando si tratta di montare le mousse Bib nelle Michelin delle ruote posteriori perché qui nessuno lo ha mai fatto prima. Dopo questa operazione le mie quotazioni salgono al punto che mi si chiede se non sono un tecnico della Michelin… Chiedo poi che i raggi siano sostituiti con altri più robusti, non senza però l’interessamento di Perini, che sceglie anche nuovi cerchi DID provenienti dal magazzino delle moto da Cross.

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Le ruote davanti conservano invece i cerchi originali delle R1, e questo spiega perché siano anodizzate in oro, mentre le posteriori sono in color alluminio. Le moto sono quasi pronte, vengono messe a punto da un carburatorista della Dell’Orto e poi sono affidate per i primi giri a collaudatori Gilera. Infine sono caricate per portarle a Milano per la pre-partenza. E il 24 dicembre. Ho vissuto sette giorni entusiasmanti al Reparto Corse Gilera, un’esperienza molto importante per la mia vita, non solo professionale. Romolo Ciancamerla, per dieci anni in Gilera al Reparto corse, aggiunge ulteriori particolari alla storia.

Si ringrazia per l’articolo: Motociclismo, Motociclismo d’Epoca e Motociclismo Fuoristrada.

Franco Gualdi Team Cagiva Dakar 1988

Hai un minuto per raccontarci la tua Dakar?
Ero partito come assistenza veloce, io come del resto Picard, i nostri protetti erano Bacou e De Petri, a loro spettava l’onore di portare avanti in classifica le Cagiva; ad un certo punto De Petri ha avuto l’incidente, Bacou invece andava al di sotto di ogni aspettativa e quindi mi sono trovato di punto in bianco il meglio piazzato. Avevo accumulato molto ritardo per compiere il mio dovere nei giorni prima, e a quel punto an-che se avessi avuto lo spirito di buttarmi a mo’ di Kamikaze non avrei potuto concludere un gran che, per cui ho fatto la mia gara per giungere al-la fine senza danni, del resto anche psicologicamente non ero preparato a trasformarmi in uomo vincente, e tutto sommato il sesto posto mi appagava.

Hai trovato questa edizione veramente più dura delle precedenti?
Lo scorso anno ho vissuto ben poco della Dakar, sicuramente a mio avviso le prime tappe di questa edizione sono state molto più impegnative di quelle dello scorso anno. Dalla metà in poi direi che la difficoltà dei percorsi non mi è sembrata poi così incredibile, certo i chilometri da per-correre quotidianamente non erano pochi, ma a mio avviso non è stata una gara durissima.

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Come la vorresti in futuro?
L’assistenza medica è sicuramente la cosa che dovrebbe essere maggiormente curata e migliorata, per il resto la Paris-Dakar mi sembra debba essere così; sia il chilometraggio, che la durezza dei percorsi sono stati di mio gradimento, del resto se dovessero farla più facile perderebbe gran parte del fascino che esercita su tutti noi. Se fosse per me limiterei nei regolamenti le assistenze, adesso è permesso di tutto, cam-biare ogni pezzo della moto o delle macchine è una consuetudine ogni sera, invece a mio avviso limitando le sostituzioni a Dakar arriverebbero oltre ai piloti più bravi anche le moto più resi-stenti, naturalmente un regolamento del genere farebbe storcere il naso alle Case, ma questa è la mia idea personale.

La tua moto era perfetta o in che cosa avretri voluto in più o in meno?
Penso che tutti abbiano detto che la propria moto è stata perfetta, e anche io, sinceramente devo dirti che dopo qualche problema iniziale con i parastrappi della frizione, una volta sistemato l’inconveniente, al di fuori delle solite sostituzioni del materiale di consumo, catene, pignone, copertoni, per il resto la moto ha tenuto perfetta-mente fino all’arrivo. Il nostro team era super organizzato; i tecnici e i meccanici e gli uomini della assistenza in genere non ci hanno fatto mancare niente, la moto che avevamo in mano era sicuramente la numero uno, non esito a dire che chi è mancato nel team son stati i piloti, e quando parlo dei piloti non mi riferisco a Picard e Gualdi…

Quante volte sei caduto e per quali cause? Pensi che il rally africano sia più pericoloso delle altre gare motociclistiche?
Sono caduto una volta sola, a 50 km/h, per cui praticamente non sono mai caduto, cioè non ho fatto quelle cadute che abbiamo visto più volte in TV; alla Dakar questi rischi sono all’ordine del giorno, con le velocità elevate e il terreno così insidioso in 12.000 chilometri sarebbe impossibile che non accada a volte anche qualche grave incidente. Sicuramente la Dakar è più pericolosa della regolarità, soprattutto per le alte velocità che si devono tenere su un terreno dove per non rischiare dovresti andare a non più di 50 all’ora. Nella regolarità le velocità sono molto più limitate ma comunque un pilota è sempre ben protetto dai vari accessori come il casco, pettorine, ecc. ecc. Teniamo comunque presente che nei venti giorni dí questa maratona percorri tanti chilometri come in due anni di gare di regolarità e con tutti i partenti che ci sono…

Raccontaci l’episodio più curioso della tua Dakar.
Verso metà gara ero in gruppo con Orioli, Terruzzi e Findanno e abbiamo fatto un rifornimento di benzina sporca, tutti più o meno eravamo in panne, ma l’unica moto che era riuscita a digerire quel surrogato di petrolio è stata la mia Cagiva così ho aiutato Edy tirandolo e spingendolo fino a che la sua moto è ripartita.

Tornerai l’anno prossimo?
Nonostante la Paris-Dakar sia stata la gara più emozionante della mia vita, penso proprio di non parteciparvi più, anche a me è venuto il “mal d’Africa”, proprio per questo penso di non ritornare. Per vincere bisogna rischiare, io mi sono reso conto che pur non rischiando non accusavo dei distacchi elevati e quindi se mi dovessi ripresentare probabilmente cercherei di annullare il divario con i migliori e per fare ciò dovrei rischiare più di quello che voglio.

Fonte Motocross marzo 1988

Prologo maldetto! Aldo Winkler Dakar 1988

Alla partenza a Parigi tanto fiero di essere nella squadra Honda iItalia B avevo trovato anche gli sponsor ma questa foto mi ricorda un preludio drammatico, la moto rattava al prologo e questa foto documenta che volevo lavorarci ma qui a poco arriverà un inserviente che mi sgriderà minacciandomi di squalificarmi se non me ne fossi andato. Il giorno dopo partirò regolarmente, e farò 800 km al freddo e ghiaccio con il collettore rotto con la moto che rimaneva un po’ accelerata. A 5 km dalla Tour Eiffel si scollarono le ganasce del tamburo del freno posteriore, e dovetti smontare la ruota xper renderla libera. Dopo 300 km si romperà la catena, la giuntai e dopo altri 30 km la catena era ancora crepata.

Mollai la moto ad alcuni spettatori e un gentile signore con la macchina mi prese e a folle velocità mi porto via autostrada alla testa del rally perchè i camion partivano per primi, mi feci dare una catena e tornai indietro a riparare la moto. Ripresi la corsa tuto sudato e ripartii, ma era in estremo ritardo praticamente ultimo e di tanto! Cercando di recuperare e con la moto in quelle condizioni andai il più forte possibile, nella foga saltai un controllo timbro (pena 2 ore di penalità) e arrivai per ultimo a Cale Marsiglia,  e mentre la sistemavo per aggiustarla definitavamente mi presi un rinculo alla caviglia senza stivali nel tentativo di avviarla. Salii sul traghetto dolorante con 2 ore di penalità e distrutto dalla fatica e dalla tensione. I camion di Honda Iitalia si ritirarono e Honda France diede supporto ai piloti ufficiali italiani ma io ne fui escluso, il meccanico aviotrasportato si ammalò e ritornò in Italia. Mi trovai senza assistenza e senza meccanico.  Penserete: quanta sfiga! Si e vero ma la cosa più importante e che arrivai 19° Dakar e senza le due ore di penalità avrei fatto 12°!
Quanti ricordi dentro questa semplice foto…

Testo di Aldo Winkler

Privati italiani a Dakar 1988

Beppe Gualini sulla sua Suzuki DR650

Beppe Gualini sulla sua Suzuki DR650

Quattordicesimo assoluto, e miglior privato italiano a Dakar, Beppe Gualini è l’unico a potersi fregiare del titolo di privato. Aveva soltanto un meccanico in aereo (il celebre Marietto, piccolino per occupare poco spazio) e qualche cassa distribuita tra i camionisti che gli hanno noleggiato lo spazio.

«È stata dura – ha commentato il bergamasco – la più dura delle mie esperienze. Fortunatamente la mia Suzuki DR 600 ha marciato come un orologio, senza mai denunciare guai seri. Ma ho faticato più che mai: questa gara sta diventando davvero proibitiva peri piloti che non hanno una vera squadra alle spalle, con il massaggiatore, numerosi ricambi e tutto».

Aldo Winkler, che ha noleggiato una monocilindrica ufficiale dell’anno scorso e si è appoggiato alla Honda Italia, ha avuto meno problemi; ma ha pagato subito tre ore di penalità saltando un controllo a timbro fra Parigi e l’imbarco: tre ore che alla fine hanno pesato sul piazzamento.

Aldo WInler su Honda a Setè

Aldo Winkler su Honda a Setè

 

«Questa corsa — ha sintetizzato a Dakar — chiede al pilota una sempre maggiore concentrazione. Spesso mi sono chiesto: ma chi me lo ha fatto fare? E devo dire che non ero allenatissimo perché gli impegni di lavoro mi tengono occupato tutto l’anno. Ma è una corsa affascinante: tra pochi mesi morirò dalla voglia di ricominci-re, anche se oggi sono stanco morto».

Bruno Birbes è il privato “ricco”: con due soci motociclisti ha messo insieme un budget di 300 milioni ed era assistito da un camion personale e da due meccanici in aereo. Concessionario BMW a Brescia, ha corso con la bicilindrica finendo diciannovesimo.

«Sono arrivato a Dakar per la prima volta — ha detto Birbes —ma anche per l’ultima. Giuro che una faticaccia del genere non ho più nessuna intenzione di sobbarcarmela. Mi ha salvato l’esperienza».

Bruno Birbes sulla sua BMW

Bruno Birbes sulla sua BMW

Sono stati soltanto otto gli italiani capaci di arrivare in fondo alla Parigi-Dakar. Vederli arrivare sera per sera, stanchi morti e ricoperti di polvere, con mille avventure da raccontare ad ogni bivacco, è stato bello e appassionante.

Fonte Motociclismo
Special Tks Stefano Massenz per l’articolo

Incredibile Pierre Marie Poli alla Dakar 1988