Honda XL 600L 1986

Le moto giunsero direttamente dal Giappone ai primi di dicembre; furono allestite dal reparto Ricerche e Sviluppo, R & D, sulla base dei due prototipi utilizzati da Balestrieri e De Petri al Faraoni, quindi erano delle monoclindriche derivate dalla XL 600 LM.

La squadra della Honda France disponeva invece di macchine spinte da propulsori bicilindrici sviluppate dalla HRC, più potenti ma alla loro prima esperienza desertica. I responsabili della filiazione italiana vollero privilegiare il mono per le maggiori garanzie che esso offriva in fatto di affidabilità, ad ogni modo andava sempre considerato che per realizzare queste motociclette in Giappone la Casa madre investii, solo nello studio, la bellezza di un miliardo di lire. 

La macchina aveva alesaggio e corsa di 100 x 82 mm per una cilindrata di 643 cc.; la potenza non era notevolissima a causa della scarsa qualità delle benzine reperibili in territorio africano, comunque si aggirava sui 51 cavalli ottenuti con un rapporto di compressione pari a 8,5:1 e con un carburatore singolo da 40 mm di diametro.

Con cambio e frizione strettamente derivati dalla XL di serie, la Honda della Dakar riusciva a spingere una velocità massima di circa 170 chilometri orari, grazie anche alla nuova carenatura che, dai test effettuati in Giappone, aveva dimostrato la propria validità consentendo di guadagnare circa 10 chilometri l’ora.

L’interasse era di 1520 mm, sulle moto di Balestrieri e Orioli, mentre per De Petri la macchina era un po’ più corta perché «Ciro» aveva richiesto una diversa inclinazione del cannotto di sterzo; la forcella è da 43 mm ed è della Showa come il monoammortizzatore che lavorava su un Pro Link ridisegnato con leveraggi al di sotto della linea del forcellone.

Interessante la soluzione adottata per la carena, in tre pezzi, che nella parte inferiore aveva due serbatoi per l’acqua di scorta e per circa un chilo di lubrificante da utilizzare in caso di necessità; la capacità del serbatoio carburante era di 36 litri che venivano aumentati a 55 da quelli posteriori.

All’arrivo di Dakar si classificarono; Balestrieri al 3° posto, De Petri 5° e Edi Orioli 6°.

I fratelli Joineau alla Dakar 1983

Le Suzuki DR 500 dei fratelli Joineau alla partenza della Dakar 1983. Marc (#41) si classificò al terzo posto nell’assoluta, mentre Philippe (#40) si ritirò.

Cagiva Elefant 850 1987

È completamente carenata la Cagiva Ducati 850 cc. che cercherà di contrastare i team giapponesi e teutonici alla Parigi Dakar del 1987.

Le moto del team Lucky Explorer vantano motore bicilindrico raffreddato ad aria, distribuzione desmodromica, alesaggio e corsa di 92 x 64 mm, potenza di 80 cv a 8.500 g/m, carburatore Weber, accensione elettronica, frizione a secco e trasmissione primaria ad ingranaggi a dentatura elicoidale.

Il telaio è a traliccio superiore in tubi, d’acciaio a sezione quadra e la culla inferiore in tubi quadri in lega leggera; la forcella è una Marzocchi da 290 mm di escursione, il mono è un Ohlins montato su Ieveraggio progressivo per una escursione alla ruota di 290 mm.
I serbatoi, che alimentano il carburatore mediante due pompe elettriche, hanno rispettivamente la capacità di 33 all’anteriore e 32 litri per il posteriore; il peso a pieno carico è di 230 chili e la velocità massima di 185 chilometri orari sullo sterrato. 

I piloti schierati sono Hubert Auriol – Racing, Franco Gualdi, Alessandro De Petri e Gilles Picard

4 Vespa alla Dakar!!

Una delle mosse più coraggiose nella storia della Dakar è negli annali dell’edizione 1980: Jean Francois Piot, team manager Honda durante la prima competizione si presenta alla partenza con un team che desta clamore, e questa volta a vincere non ci pensa nemmeno. Il suo obiettivo è semplicemente concludere la gara. I critici lo giudicano con sarcasmo e ironizzano sul progetto: portare al traguardo del Lago Rosa quattro piloti su 4 Vespa 200 cc.

Un modello commercializzato dalla Piaggio in tutto il mondo si chiama infatti proprio “Rally”.

La squadra è composta da piloti destinati a stare incollati al corto sellino dello scooter di giornp, e con tutta probabilità anche di notte: sono i fratelli Tcherniavsky, Bernard Neimer e Marc Simonot. Accompagnati da due Land Rover di assistenza affidate ad altrettanti specialisti, Trautman e il tre volte vincitore alla 24 ore di Le Mans, Henry Pescarolo. 

Il loro compito è assistere le Vepa sulla pista di giorno ed, eventualmente, recuperarle e portarle al bivacco di notte. E così va avanti la corsa dei “forzati” sulla quale Sabine talvolta è costretto a chiudere un occhio e a perdonare un’interpretazione troppo elastica del regolamento. Ma a Dakar ben due Vespa portano a termine la corsa dopo diecimila chilometri di vere e proprie sofferenze: quelle di Bernard Tcherniavsky #6 e di Simonot #8

Mai più alla Dakar fu tentata un’impresa del genere.
Fonte Batini

Aprilia Tuareg Wind 600 1989

Per la prima volta l’Aprilia partecipa alla Dakar 1989 in forma ufficiale: i piloti sono Andrea Balestrieri e Alessandro Zanichelli, due affermati specialisti delle maratone africane, e le moto derivano dalla Tuareg Wind 600 di serie.

Sono modificate per l’impiego specifico nella Dakar con un grande serbatoio principale che funge anche da carenatura mentre il cupolino col doppio faro rimane quello di serie. Il motore è il classico Rotax monocilindrico a quattro valvole ampiamente riveduto dai tecnici Apri-lia per accrescerne l’affidabilità. 

Il raffreddamento rimane ad aria ma è stato aggiunto un radiatore dell’olio a quello già esistente, per diminuire la temperatura del lubrificante. Potenza dichiarata 46 cavalli, uguale a quella di serie nonostante sia diminuito il rapporto di compressione per utilizzare benzine povere d’ottani. Il carburante viene inviato al carburatore Dellorto da una pompa a depressione collegata al motore.

Oltre ai serbatoi della benzina ce ne sono altri due posti in basso davanti al motore, che conten-gono la scorta obbligatoria di acqua di 5 litri e del liquido energetico che il pilota può bere direttamente in gara tramite una piccola pompa elettrica azionata da un interruttore sul manubrio.

Il cruscotto dispone di una abbondante numero di strumenti con termometro dell’olio, contagiri, trip master ed una piccola bussola tradizionale. Anche la parte ciclistica deriva dalle moto normalmente in vendita ed è basata su un telaio monotrave in acciaio speciale con tubi a sezione qua-dra.

Le sospensioni vedono aumentata considerevolmente l’escursione ed il forcellone po-steriore è ora in alluminio. Per i freni all’anteriore c’è un doppio disco con pinze Brembo flottanti a singolo pistoncino premente, mentre dietro l’unico disco misura 220 mm.

Per l’articolo e le foto si ringrazia Andrea Torresani

Moto Guzzi V65 TT 1985

E’ invece durante il 1985 che un giovane architetto bergamasco di nome Torri si presenta all’Amministratore Delegato della Moto Guzzi, il rag. Donghi, chiedendo una V65TT con l’obiettivo di iscriversi alla gara più dura del mondo. Donghi non è entusiasta della cosa, ma alla fine acconsente, sia perché la Guzzi non si impegnerà ufficialmente, sia perché Torri è disposto a condividere le spese dell’avventura.

La moto nasce e si sviluppa nel reparto esperimenti di Mandello ed alla fine assomiglia ben poco alla V65 TT di serie. Sospensioni di lunga escursione, telaio irrobustito, motore preparato, serbatoio da 50 litri realizzato dagli abili battilastra di Mandello, sella monoposto sono gli elementi di quella che sarà poi chiamata V65 Baja, una moto dalla storia singolare.

Prevista infatti in un unico esemplare, se ne costruiranno 17, perché l’importatore francese ne chiede 15. Ed infatti due di queste moto si iscriveranno con piloti francesi di quella scuderia alla P-D del 1986. La Baja arriverà ad un passo dalla produzione di serie, e verrà anche presentata al salone di Milano del 1985.

Purtroppo al momento della preparazione del prototipo per la Dakar non c’erano ruote a raggi che potevano essere reperiti sul mercato per adattarsi alla trasmissione finale della V65, si è quindi deciso di gareggiare con le ruote stock, finendo però per essere l’anello debole delle Moto Guzzi, che cominciarono ad accusare rotture dei raggi a causa dei carichi laterali imposti dal cardano nella sabbia profonda, obbligando Torri al ritiro.

Ecureuil BMW di Hutin

Video di Alessio Corradini
Moto di Francesco Fermani

Yamaha YZE 750 Sonauto 1988

Nel 1988, Yamaha Sonauto scommette ancora su un monocilindrico per la Dakar, ma la 750YZE ha poco in comune con la XT680 dell’anno precedente. Il motore, che sfrutta la tecnologia del marchio Genesis, è un 757 cm3 cinque valvole (3 di aspirazione, di scarico 2) con raffreddamento a liquido. YZE-750-1988-3

Più pesante ma è anche più potente a tutti i regimi (56 CV) e consuma molto meno. Testato nel rally dei Faraoni, in 450 km di pista, permette un risparmio di 8 litri rispetto al XT680. Il telaio è una semplice doppia culla sospesa da una forcella Kayaba al monoammortizzatore Ohlins davanti e sul retro e mousse Michelin. A secco, la nuova Ténéré pesa 158 kg sulla bilancia e permette il carico di 53 litri di carburante, di cui 35 nella parte anteriore. 

Durante il Rally dei Faraoni nel 1987, la moto ha problemi tecnici dovuti al motore a doppia accensione che crea problemi di surriscaldamento.
Picco e Charbonnier sono entrambi costretti al ritiro, mentre Stephane Peterhansel rompe una guarnizione di testa il giorno prima dell’arrivo. Due giorni di test in Tunisia e quasi 8.500 miglia percorse confermano un grande guadagno in termini di affidabilità.

Quattro di queste moto saranno affidati a Sonauto Yamaha, supportato da Mobil, e altri quattro per il team italiano Yamaha-Belgarda. Intorno Franco Picco, leader indiscusso della squadra, c’è Medardo, Grasso e Alborgetti. La parte francese, Thierry Charbonnier, Andre Malherbe, Stéphane Peterhansel e il patron Jean Claude Olivier.

YZE 750 1988

La Dakar 1988 sembra condensare le difficoltà delle edizioni precedenti: in questo ambiente duro, molto veloce, la Yamaha 750 YZE fa pensare che sia la moto pronta ad un grande successo. Franco Picco resta in testa per quasi due settimane, mentre Carlos Mas, Peterhansel e Charbonnier si aggiudicano diverse speciali.
Questa edizione verrà anche ricordata per il drammatico incidente André Malherbe e per l’annuncio di Jean-Claude Olivier, che concluse settimo assoluto e annuncerà il suo ritiro dalle competizioni in polemica con gli organizzatori.

Yamaha XTZ 660 BYRD 1987

Nuovi colori per le Yamaha-Belgarda monocilindriche da 660 cc. che parteciperanno alla Parigi Dakar 1987, strettamente impa-rentate con quelle vincenti al rally dei Faraoni.

Tecnicamente va segnalata l’adozione del freno a disco posteriore da 200 mm di diametro che va ad affiancarsi all’anteriore da ben 300 mm, si è provveduto anche al recupero della benzina che in precedenza traboccava dalle vaschette dei carburatori, attraverso gli sfiati, adottando una piccola pompa di ricircolo. 

L’alimentazione infatti avviene tramite una pompa a depressione che provvede a prelevare carburante innanzitutto dai serbatoi laterali e poi da quello principale. Da notare che quest’ultimo è costruito in due sezioni distinte incernierate longitudinalmente in alto; l’apertura ad ala di gabbiano facilita la manutenzione e, in caso di caduta, limiterebbe la fuoriuscita di benzina.

Nell’immagine dall’alto si vede chiaramente anche la posizione del filtro aria a cartuccia mentre senza sella, appare evidente la conformazione portante dei serbatoi laterali che reggono sedile e codino; qui è previsto lo spazio per la scorta d’acqua, da trasferire nello spoiler anteriore solo nelle tappe più lunghe.

KTM 660 Dakar Richard Sainct 2003

La Dakar 2003 (noi la continueremo a chiamare così anche se questa edizione prese il via da Marsiglia ed arrivò a Sharm El Sheik) verrà ricordata come quella del “dominio austriaco assoluto” per via delle 15 moto “orange” nelle prime 15 posizioni!

Per il vincitore Richard Sainct, la gara è stata più “semplice”, la moto ha retto bene e non è incappato in incidenti e si aggiudica il titolo di re della Dakar, il terzo dopo i successi del 1999 e del 2000 a pieno merito. Il francese nelle 17 tappe totali della competizione è giunto 5 volte primo, due volte secondo e due volte terzo: insomma, è stato semplicemente il migliore.

Cala quindi il sipario anche su questa edizione della Dakar che, sebbene non abbia più il fascino di un tempo, e risenta degli effetti del turismo da globalizzazione e delle minacce del terrorismo internazionale, ha mantenuto la sua vitale spettacolarità.
La KTM 660 di Richard Sainct si rivela una perfetta macchina da deserto che ha raggiunto con questa edizione la definitiva maturità.