Cover Magazine – VDS – Francia 1992
Copertina VSD dedicata ad Angelo Signorelli del Team Byrd nella Dakar 1992
Copertina VSD dedicata ad Angelo Signorelli del Team Byrd nella Dakar 1992
Non bastavano quattro piloti ufficiali, assieme a loro la BYRD portò in Africa altri dodici piloti privati che con una cifra decisamente ragionevole potettero godere di un’assistenza quasi ufficiale. Un’iniziativa promozionale che richiese un notevole impegno, ma che riscosse anche grandi consensi: 32.000.000 di lire per l’acquisto di una Yamaha XTZ 660 già preparata per correre nella categoria marathon, abbigliamento da gara e da riposo, trasporto di moto e pilota a Parigi per la partenza e soprattutto trasporto dei ricambi ed assistenza meccanica in corsa, con la possibilità di avere sponsor personali.
Giuseppe Viziale, l’ex pilota cui fu stata affidata la responsabilità dell’operazione, si mostrò molto fiducioso, ed in effetti la formula venne già in passato sperimentata con successo da diverse Case: consentiva di ridurre le cifre ed allo stesso tempo godere di un’assistenza adeguata, fondamentale in una gara del genere. I ricambi viaggiavano su due camion, un Unimog ed un Liaz, ed in più c’erano anche alcuni meccanici aviotrasportati diretti dall’ing. Adriano Magherini. Vale la pena di ricordare che è proprio con un’iniziativa simile che due anni fa la Honda vinse la categoria marathon, con lo spagnolo Toni Boluda.
Questi i 12 piloti e il loro numero di gara:
53 Emanuele Cristanelli
54 Antonio Mori
55 Ettore Petrini
56 Fabrizio Meoni – Passò dall’enduro ai rally nell’89, e si mise subito in bella evidenza. Per lui le corse erano un hobby, praticato ad alto livello. Partecipò all’Incas due volte, ed una al Tunisia, mentre nel ’91 disputò, Baja 1000, Titano e Faraoni.
57 Luciano Carcheri
58 Samuele Landi
59 Massimo Marmiroli
60 Fabio Marcaccini – Essere soprannominato “l’uomo di Agadez” non bastò più all’ex velocista romagnolo, che due anni prima finì sui giornali di mezzo mondo per aver guidato un buon tratto della tappa che decise poi la Dakar ’90. Per puntare più in alto, decise di abbandonare la categoria prototipi, dove correva con moto costruite da lui e dall’amico-compagno di team Massimo Montebelli, e di mettersi alla prova nella marathon, dove non dovrà soffrire la concorrenza degli ufficiali. Ottima esperienza, tenacia e abilità nell’orientamento: una buona base su cui cercare di costruire qualcosa di buono.
61 Massimo Montebelli – Compagno di squadra di Marcaccini nel Wild Team, scelse come lui di correre nella marathon, e la formula BYRD potrebbe consentirgli di gareggiare più tranquillamente di quand’era privato. Supportato da un fisico erculeo, il romagnolo si è sempre dimostrato uno dei privati più veloci e due anni fa ottenne il successo nella classifica amatori.
64 Heinz Kinigadner – Due volte campione mondiale di cross 250 nell’84 e nell’85, il simpaticissimo austriaco ha abbandonato la serie iridata non le corse: trasferitosi ad Ibiza partecipò ai campionati spagnoli di rally e di enduro, che vinse vinto più volte. Deciso a tentare l’avventura della Paris-Le Cap, avrebbe voluto coinvolgere ufficialmente la BMW con l’appoggio dello sponsor Camel, ma l’operazione non andatò in porto.«Kini» comunque non si diede per vinto e con l’appoggio di Yamaha Austria aderì al progetto BYRD. Sulle sue doti velocistiche non si discute, sulla sua grinta nemmeno.
63 Jeremy Davies
62 JMN Claude Morellet “Fenuil” – “Corro per il piacere di farlo, se avessi cercato i soldi avrei gareggiato come navigatore per Citroen o Mitsubishi”. Una spiegazione che non fece una grinza, quella dell’organizzatore del Rally dei Faraoni, che aveva alle spalle 7 Dakar in moto (un terzo posto il miglior piazzamento) e 3 in auto, come navigatore, tutte disputate nelle posizioni di testa. Fu il primo ad attraversare il Sahara in moto in solitario, nel ’74, ed in Africa colse diverse soddisfazioni. Ma a 46 anni non aveva ancora voglia di smettere: l’avventura non ha età.
Fonte motosprint
Le trasformazioni rallistiche commercializzate da Belgarda per la Yamaha XTZ 660 Ténéré sono state approntate verso la fine del 1991 (dopo la presentazione ufficiale della Ténéré 660); erano pensate per rendere le nuove moto adeguate alle maratone africane; era un progetto BYRD realizzato in collaborazione con Acerbis che ha materialmente prodotto i serbatoi in poliuretano reticolato.
Beppe Gualini si occupò dei vari collaudi delle moto allestite con i nuovi kit rally.
Nel libro della Parigi Le Cap 1992, risultano iscritte 31 XTZ 660, ma dalla documentazione BYRD le moto immatricolate BYRD-italia erano 7, più tre SuperTénéré 750. I francesi ne avrebbero iscritte 6/7 con la configurazione azzurro-Francia e serbatoio come la marathon poi venduta.
La squadra italiana sarebbe stata composta da tre o quattro moto oltre alle sette direttamente intestate alla BYRD. Il kit Marathon era composto da molte parti ed ognuna poteva essere montata senza necessariamente acquistare il kit completo. La BYRD forniva insieme ai pezzi, il manuale nel quale erano illustrate tutte le fasi per il montaggio dei vari componenti.
La moto in oggetto è stata acquistata da Ettore Petrini di Bastia Umbra (PG), per prendere parte alla Paris-Le Cap del 1992; il suo numero di gara era il 55 (Fabrizio Meoni lo stesso anno corse con il 56 con una Yamaha Marathon identica a quella di Petrini).
Ettore Petrini si ritirerò per una caduta durante una delle prime tappe in Africa. Lo stesso Petrini aveva partecipato a precedenti edizioni della Parigi-Dakar con alterne fortune (ricordo il suo 42° posto all’arrivo della Dakar del 1990). La sua Yamaha è ora di proprietà del Dott. Livio Fioroni, un collezionista di Perugia che l’ha acquistata alcuni anni fa; il mezzo è in condizioni eccellenti anche se sono stati rimossi alcuni accessori tipicamente rallistici (strumentazione ed altri piccoli componenti) ed è stata eseguita una verniciatura che conferisce al mezzo una livrea vicina alle Yamaha France ufficiali degli anni successivi; le caratteristiche attuali del mezzo ne permettono un utilizzo stradale particolarmente piacevole con la consapevolezza e la soddisfazione di essere in sella ad un mezzo che ha preso parte alla gara motociclistica più dura ed affascinante del mondo. Una caratteristica che accresce l’interesse di questo mezzo: sono ancora presenti tutte le punzonature della Paris-Le Cap del 1992.
Testo e foto Massimo Fabi
Un bel video dedicato alle Yamaha, private ed ufficiali che hanno preso parte alla Dakar 1992.
Nonostante non sia arrivata la vittoria nell’assoluta, quella del 1992 rappresenta un’eccellente prestazione dello squadrone Cagiva, che piazza al secondo posto l’americano Danny Laporte, al terzo posto Jordi Arcarons, Marc Morales al 4°, Edi Orioli al 7° e Trolli al 10° posto!
Gilles Lalay, vincitore della Dakar 1989, è morto il 7 gennaio 1992 a mezzogiorno e mezzo sulla polverosa pista tra Franceville e Pointe Noire, in Congo.
Il motociclista della Yamaha Italia era in un tratto di trasferimento, 130 chilometri dopo la “speciale”. Una macchina dell’ organizzazione della Paris-Le Cap, una vettura del pronto soccorso medico che andava in senso opposto, ha travolto Lalay. Un impatto violentissimo, il ventinovenne corridore francese è morto sul colpo.
Maestri e abituati ad assorbire ogni cosa, gli organizzatori della corsa prima hanno fatto notare che Lalay, in quel momento, andava troppo forte e aveva tagliato una curva, poi si sono abbandonati alle solite considerazioni: “Un tragico colpo di coda del destino”.
Considerati i precedenti, una ricostruzione dell’incidente non verrà mai fatta con precisione. L’autista della macchina, al momento, per gli organizzatori non ha un nome e non può dire nulla.
A ben vedere, detta fuori dai denti, si tratta di una morte assurda in un raid che non ha più alcun significato tecnico e sportivo.
Lo ha fatto intendere con commozione e grande signorilità Daniele Papi, il team manager della Yamaha Italia: “Noi torniamo a casa. Senza alcuna polemica precisa. E morto uno dei nostri e riteniamo sbagliato restare qui. Certo, tutto quello che e’ avvenuto in questa corsa non ci è piaciuto molto”.
Sulla dinamica del tragico incidente restano solo brandelli di testimonianze. Angelo Cavandoli, un compagno di squadra del centauro francese, ha visto Gilles Lalay a terra, immobile, senza tracce di sangue sul volto.
Sul perchè la macchina del SOS andasse in senso opposto alla corsa ci sono state spiegazioni vaghe: dapprima si è detto che la vettura stava soccorrendo Jean Cristophe Wagner (anche lui seriamente ferito ieri), poi che la macchina faceva una normale opera di soccorso. In una breve conferenza stampa, Gilbert Sabine non ha aggiunto nulla ai dubbi che ci sono e rimarranno. E naturalmente: “La corsa continua”, con un’ottusa e ostinata tenacia, malgrado sia tutto già deciso.
La classifica delle moto e’ chiarissima e non può cambiare, perchè la piste da N’Djamena a Cape Town sono strette, polverose e alberate: nessuno si azzarda più a fare un sorpasso, chi parte per primo non può più perdere.
Chi ci prova rischia grosso, come hanno fatto ieri La Porte e Arcarons, che sono inevitabilmente caduti. Lo stesso discorso (forse anche di più) vale per le macchine.
Gilles Lalay aveva capito benissimo che la corsa era finita. Lunedì sera a Franceville si è mangiato l’ultimo piatto di “spaghetti italiens” della sua vita: glieli avevano cucinati Matilde Tomagnini e Federico Forchini. Faceva caldo e Lalay era stato al tavolino del piccolo accampamento di tende vicino all’ aereo della Yamaha, fino alle dieci di sera. Aveva commentato la cottura degli spaghetti: “Troppo al dente per me che vivo vicino a Limoges”. Poi si era quasi indirettamente tolto di dosso una serie di critiche che gli arrivavano: “Sta sempre li’ nel gruppo, non rischia nulla”. Gilles aveva capito e spiegava: “E del tutto inutile rischiare in queste condizioni. Non si può più sorpassare. Non puoi mai dire che una corsa sia finita, ma in questo caso non riesco a trovare altre definizioni”.
Non era la prima volta che Lalay diceva queste cose. Con il suo direttore sportivo, Aldo Betti, il corridore francese si era già confidato prima della partenza della Paris.Le Cap: “O si arriva in testa a Pointe Noire oppure è finita”. Ma l’assurdità della morte di Gilles Lalay non sta in queste piste strette, nella pericolosità dei sorpassi. Questa corsa, che costa ad ognuno ben 27 milioni e mezzo di lire soltanto di iscrizione, non sembra in grado di offrire la necessaria sicurezza. O perchè si vuole attraversare un territorio in guerra o perchè le macchine dell’organizzazione non conoscono bene le piste (come e’ avvenuto quest’anno a N’ Gougmi) oppure perchè una vettura del soccorso sanitario va nel senso contrario alla corsa.
Quindi capita, inevitabilmente, che, nel rally più famoso del mondo, un serio professionista come Lalay possa essere investito dagli organizzatori. Qualcuno commentava che si “è trattato di un incidente di strada”. E c’è da allargare le braccia pensando che al rally, contrabbandato per il più bello del mondo, si possa morire come il sabato sera vicino a una discoteca di Riccione.
Fonte: Gianluigi Da Rold – corriere.it
Siamo alla partenza della Parigi – Le Cap del 1992 e la Gilera decide finalmente di partire con un “prototipo” e cercare di giocarsi la vittoria nella generale. I piloti sono di altissimo livello e rispondono al nome di Franco Picco e “Luigino” Medardo, la moto è la nuova RC 750 che è alla sua sola seconda uscita, dopo la brevissima esperienza nel Rally dei Faraoni del ’91, interrotta anzitempo a causa della frattura di Picco e della rottura della cinghia di distribuzione sulla moto di Medardo. La moto è una monocilindrica da 750 cc. con distribuzione bialbero a 4 valvole in testa comandata da cinghia dentata, cambio è a 5 marce e frizione a secco.
Un progetto innovativo che va controcorrente rispetto alle tendenze dell’epoca: alla potenza e al peso delle bicilindriche ufficiali vengono preferite la leggerezza e la maneggevolezza.
Purtroppo la sfortuna si accanisce su questo progetto nato con le migliori aspettative, entrambi i piloti si ritireranno nella stessa tappa, la speciale Waw El Kbir-Tumu, Medardo per un guasto tecnico, Picco per una caduta che gli causerà una frattura al polso.
Parigi – Sirte – Le Cap 1992: il confine sud del Ciad segna l’ingresso dell’Africa Nera, ma non per tutti. Per Alessandro De Petri l’Africa è diventata nera molti chilometri prima, in Niger. È riuscito ad arrivare in moto a Dirkou, ma lo ha fatto con la clavicola destra fratturata. impossibile ripartire il giorno dopo.
Così, ancora una volta, «Ciro» si è visto sfuggire dalle mani una gara che sentiva di poter vincere, e la sua rabbia è quasi palpabile, resa ancora più forte dalla incredibile dinamica dell’incidente.
«Sono arrivato al rifornimento davanti a tutti— si sfoga ma i km dopo essere ripartito ho tolto una mano dal manubrio per sistemare il road book, perché la carta non scorreva. Non l’avessi mai fatto!
Stavo andando piano, ma ho preso una buca e la moto si è messa di traverso. Non ho nemmeno fatto in tempo a riacchiappare il manubrio, e con una mano sola davvero non potevo sperare di controllare la mia Yamaha, per giunta con il pieno. Mi ha buttato per aria ed ho picchiato duro. Che incidente stupido!».
De Petri parla a ruota libera, senza interrompersi. Non riesce ad accettare il ritiro, non riesce a capacitarsi della sfortuna che continua a perseguitarlo.
«Non puoi spiegare cosa provi quando ti succede una cosa del genere. Non puoi accettare di doverti fermare così dopo 8 mesi di preparazione.
Ore e ore passate in palestra ogni giorno e un’équipe di persone che lavora per preparare la tua gara. Subito dopo la caduta non riuscivo a tenere gli occhi aperti, ed ho perso i sensi. Quando lí ho ripresi mi sentivo come se mi stessi risvegliando da un brutto sogno, come se tutto dovesse finire lì. Evviva, ho pensato, ma quando ho messo a fuoco il casco di Peterhansel, che si era fermato per aiutarmi, ho capito che purtroppo non era solo un sogno».
«Ciro» però non ha voluto rassegnarsi al ritiro. Non ancora. (fonte MS)
Parlare e scrivere di personaggi che hanno lasciato un segno indelebile in questo sport e non sono più fra noi non è mai facile, abbiamo quindi preferito ricordarlo con le parole di chi lo conosceva bene.
Massimo Montebelli aveva partecipato a sette edizioni della Parigi–Dakar. In cinque di queste era riuscito a tagliare il traguardo e nel 1993 era arrivato il suo miglior piazzamento, ottavo, davanti a tanti famosi e strapagati professionisti.
Con lui credo se ne sia andato un pezzo di storia della Dakar, quella vera come amava chiamarla lui, aveva vinto la categoria Marathon alla Paris-Le Cap con Meoni nella stessa squadra, la Yamaha BYRD, mi piace pensare che si siano ritrovati lassù e continuino a parlare di corse dune di sabbia e prove speciali.
Ma la moto era anche il suo lavoro, specialmente per quanto riguarda la realizzazione a mano di serbatoi speciali. Per questo era stato soprannominato, e noto in tutta Italia e anche all’estero, come il mago dell’alluminio.
(Fonte Massimo Marcaccini – Riders)
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