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Intervista del 2005 a Franco Zotti e il ricordo di Meoni

Si erano fronteggiati diversi anni fa. Prima nel campionato enduro juniores, poi nel campionato toscano della medesima specialità. Erano gli anni Ottanta.

Da una parte c’era il goriziano «un po’ guascone e sempre pronto a scherzare», dall’altra il fiorentino «scrupoloso e dal fisico esplosivo».

Il goriziano era Franco Zotti. Il fiorentino, invece, rispondeva al nome di Fabrizio Meoni, la cui vita si è spenta nel sud della Mauritania, nell’ultima tappa della Parigi-Dakar. Personaggi diversi ma accomunati dalla medesima «passionaccia» per le ruote artigliate.

Chi vinceva?
«Le gare erano sempre molto combattute – ricorda -. Quando c’era da spingere, Fabrizio non si tirava mai indietro. Aveva grinta da vendere ma era anche molto tecnico». Zotti trattiene a stento le lacrime. «Mi è nato un figlio. Ma è morto un amico», dice. Il consigliere comunale-motociclista, infatti, ha appena festeggiato la nascita di Ari (in onore del rallysta Ari Vatanen) ma il suo cuore è spezzato per la scomparsa di Fabrizio Meoni. I due – oltre alle gare nei campionati nazionali enduro – hanno in comune la partecipazione a diverse edizioni della Parigi-Dakar. «Ma non ci siamo mai incrociati. Lui ha iniziato più tardi e subito con mezzi ufficiali», ricorda sospirando.

Che ricordo conserva di Fabrizio Meoni? 

«Era uno sportivo vero. Leale, serio, un professionista dalla testa ai piedi. Inoltre aveva una tecnica sopraffina. Ah, quante sfide nel campionato juniores! Però, nonostante fossimo avversari, siamo sempre rimasti amici. Nel nostro ambiente tutti stimano e rispettano tutti».


Alla Dakar, però, non vi siete mai incrociati. 

«No. Lui ha iniziato più tardi nonostante l’età sia più o meno la stessa (Zotti ha 45 anni, Meoni aveva 47, ndr). Fabrizio, però, è entrato dalla porta principale, con moto ufficiali».

Lei, invece, ha gareggiato sempre da privato?
«Ho preso parte a sei edizioni della Dakar, dal 1988 al 1993: quattro volte in moto (in sella a Honda 600 Xr e 250 Xr e a due Suzuki 800), una volta a bordo di un camion Mercedes Unimog e, l’ultima, alla guida di una Daihatsu Feroza. Esperienze uniche, irripetibili».

La Dakar ha un fascino particolare…
«È una competizione massacrante e rischiosa. Chi vi partecipa deve mettere in conto che potrebbe non tornare a casa. E non crediate che gli incidenti siano sempre spettacolari. Alla Dakar si muore, talvolta, a causa di incidenti stupidissimi. Ricordo ancora la morte del povero motociclista giapponenese Nomoto».

Come perse la vita?
«Eravamo appena partiti da Parigi nella notte di Capodanno. Era il 1988. Nomoto, dopo pochissimi chilometri, venne centrato in pieno da un’auto condotta da un ubriaco. Morì sul colpo: non ebbe nemmeno il tempo di vedere il deserto. E poi non posso dimenticare l’atroce morte di altri compagni di viaggio: si misero a dormire sotto un camion, il pilota – la mattina dopo – ripartì e li travolse. Potrei citare decine e decine di altri casi. Nel 1988 morirono 10 persone fra piloti, organizzatori e gente del luogo, l’anno dopo quindici».

E l’esperienza non basta. Come dimostra la morte di Meoni. 

«Il deserto è traditore. Le insidie sono dappertutto. Soltanto dove ero certo di trovare deserto piatto correvo, raggiungendo anche i 150 all’ora. Nelle altre zone, l’andatura era più tranquilla: non avendo assistenza, non potevo permettermi di rompere la moto. I big, invece, sfrecciano ad altissima velocità. Il loro obiettivo è quello di vincere, il mio era quello di arrivare a Dakar».

E a Dakar ci è arrivato con la minuscola Honda 250.
«Una soddisfazione incredibile. Nessun motociclista nella storia della Dakar è riuscito ad andare sino in fondo con una moto così piccola. Per me è stata una vittoria».

Un ultimo ricordo di Meoni?
«Mi è rimasta impressa la sua frase che questa sarebbe stata la sua ultima Dakar. Una frase quasi profetica. Ciao, caro Fabrizio».

Intervista di Francesco Fain

fonte: http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2005/01/13/GO_16_ZOTI.html

 

Patrizia Wolf e Franco Zotti: obiettivo Dakar centrato con successo!

Amici dakariani, abbiamo scovato fra le pile polverose di riviste, un’intervista di Motosprint a Franco Zotti e la compianta Patrizia Wolf. Ci sembrava doveroso e rispettoso tributarle uno spazio su questo sito.

La Parigi-Dakar è una gara sufficientemente dura di per sé, ma c’è sempre qualcuno che decide di complicarla ulteriormente con qualche idea strampalata come quella di lasciare la capitale francese su tre ruote, in sidecar o in trike, oppure affidandosi alla ridotta potenza di una 125 o una 250, trovandosi poi ad annaspare a passo d’uomo nella sabbia.

Solitamente si tratta di iniziative nelle quali credono poco anche gli stessi protagonisti, che riprendono la strada di casa dopo un paio di giorni d’Africa. Fanno sicuramente eccezione alla categoria Franco Zotti e Patrizia Wolf, partiti dall’Italia per raggiungere Dakar edizione 1989 in sella ad due Honda XR 250 a quattro tempi.

«L’ho fatto perché se arrivi al traguardo per ultimo con una 600 non sei nessuno spiega Zotti — mentre finire la gara con una quarto di litro vale qualcosa di più».

Goriziano, ventinove anni, Zotti è alla seconda Dakar dopo una breve partecipazione nell’88, della quale si parlò perché per cercare di incrementare il budget si tuffò in acqua da un ponte alto ventidue metri. Quest’anno invece per autofinanziarsi ha lasciato il lavoro…

«Rischiare la vita buttandosi in un fiume per racimolare pochi spiccioli è una follia, per questo ho rinunciato. Mi sono licenziato e con la liquidazione per i dieci anni che ho lavorato come ma-gazziniere ho pagato l’iscrizione. Per la moto, il meccanico e le spese ho fatto dei debiti. Una volta a casa troverò un altro lavoro e li pagherò. Non è una follia. Ognuno ha i suoi sogni e se arriverò a Dakar io avrò realizzato il mio».

Per Patrizia Wolf invece, quella di correre con una 250 non è stata esattamente una scelta. «In realtà, dopo avere corso il Rally dei Faraoni non pensavo neppure di venire alla Dakar L’idea è nata quando sono stata alla concessionaria di Ormeni per ordinare la moto con cui correrò nell’89 Massimo Orme-ni mi ha offerto di partecipare con una moto identica a quella di Zotti che era già pronta. Non potevo rifiutare».

Ventisettenne tedesca di Darmstadt, Patrizia è venuta in Italia tre anni fa per disputare una delle sue prime gare e non se n’è più andata.

«Avevo cominciato a correre nell’enduro in Germania, ma è Bergamo la capitale di questa specialità, così mi ci sono ferma-ta trovando uno sponsor nella IPA (un’azienda che produce prefabbricati) che oggi è anche l’azienda per cui lavoro. Finirà che dovrò lasciare la Dakar ma in fondo è l’enduro la specialità che preferisco. Per correre basta una moto e via, senza tanti problemi di assistenza».

Laureata in architettura all’università di Francoforte, ipersportiva (per allenarsi pratica footing e ciclismo), Patrizia ha scoperto proprio in Africa l’amore per la moto. Era in Algeria, a Tamanrasset, per praticare free climbing, un’altra delle sue specialità preferite, e vedeva ogni giorno qualche motociclista in partenza o di ritorno dalle piste. Fino a quando qualcuno non l’ha fatta provare. «Mi sono divertita moltissimo e così ho finito per cambiare sport, anche perché dall’Africa sono tornata tutta scorticata per una caduta mentre scalavo una parete e perché non ho più amici con la stessa passione».

Alla sua seconda Parigi-Dakar è rimasta l’unica donna in gara. Viaggiando ad una velocità che nella sabbia non supera i 60 km/h Franco e Patrizia viaggiano uno a fianco all’altro, aiutandosi a vicenda ad uscire dai guai quando necessario. Sulle spalle hanno un fardello di sette-otto chili tra attrezzi e pezzi di ricambio. Tutto l’indispensabile per un intervento di fortuna. L’imperativo è fermarsi soltanto a Dakar.

Ndr. Franco e Patrizia arrivarono regolarmente a Dakar sulle loro piccole Honda, in 31° e 32° posizione, su 60 moto al traguardo!