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Privati italiani a Dakar 1988

Beppe Gualini sulla sua Suzuki DR650

Beppe Gualini sulla sua Suzuki DR650

Quattordicesimo assoluto, e miglior privato italiano a Dakar, Beppe Gualini è l’unico a potersi fregiare del titolo di privato. Aveva soltanto un meccanico in aereo (il celebre Marietto, piccolino per occupare poco spazio) e qualche cassa distribuita tra i camionisti che gli hanno noleggiato lo spazio.

«È stata dura – ha commentato il bergamasco – la più dura delle mie esperienze. Fortunatamente la mia Suzuki DR 600 ha marciato come un orologio, senza mai denunciare guai seri. Ma ho faticato più che mai: questa gara sta diventando davvero proibitiva peri piloti che non hanno una vera squadra alle spalle, con il massaggiatore, numerosi ricambi e tutto».

Aldo Winkler, che ha noleggiato una monocilindrica ufficiale dell’anno scorso e si è appoggiato alla Honda Italia, ha avuto meno problemi; ma ha pagato subito tre ore di penalità saltando un controllo a timbro fra Parigi e l’imbarco: tre ore che alla fine hanno pesato sul piazzamento.

Aldo WInler su Honda a Setè

Aldo Winkler su Honda a Setè

 

«Questa corsa — ha sintetizzato a Dakar — chiede al pilota una sempre maggiore concentrazione. Spesso mi sono chiesto: ma chi me lo ha fatto fare? E devo dire che non ero allenatissimo perché gli impegni di lavoro mi tengono occupato tutto l’anno. Ma è una corsa affascinante: tra pochi mesi morirò dalla voglia di ricominci-re, anche se oggi sono stanco morto».

Bruno Birbes è il privato “ricco”: con due soci motociclisti ha messo insieme un budget di 300 milioni ed era assistito da un camion personale e da due meccanici in aereo. Concessionario BMW a Brescia, ha corso con la bicilindrica finendo diciannovesimo.

«Sono arrivato a Dakar per la prima volta — ha detto Birbes —ma anche per l’ultima. Giuro che una faticaccia del genere non ho più nessuna intenzione di sobbarcarmela. Mi ha salvato l’esperienza».

Bruno Birbes sulla sua BMW

Bruno Birbes sulla sua BMW

Sono stati soltanto otto gli italiani capaci di arrivare in fondo alla Parigi-Dakar. Vederli arrivare sera per sera, stanchi morti e ricoperti di polvere, con mille avventure da raccontare ad ogni bivacco, è stato bello e appassionante.

Fonte Motociclismo
Special Tks Stefano Massenz per l’articolo

Foto di gruppo Dakar 1988

Italiani a Dakar, in piedi da sinistra Findanno, Birbes, Orioli, Terruzzi e Gualdi. In ginocchio Picco, Gualini e Winkler.

 

Team Kawasaki IP alla Dakar 1992

Era la prima volta che la Kawasaki 500 KLE , presentata alla fine del ’90 al Salone di Colonia, veniva schierata al via del più importante rally africano. Dunque non mancavano le incognite, ma la Kawasaki-Italia aveva lavorato con cura cercando di prepararsi al meglio all’impegnativa maratona, anche se la decisione di gareggiare nella categoria marathon aveva imposto di restare il più vicino possibile al modello di serie. Le due KLE di Surini e Maletti avevano conservato il loro motore standard, un bicilindrico parallelo a quattro tempi di 499 cm3, con distribuzione a doppio albero a camme in testa e quattro valvole per cilindro, misure caratteristiche 74 x 58 mm e cambio a 6 marce.

Sulla ciclistica invece era stato possibile lavorare, perché nonostante il vincolo del telaio di serie, doppi culla in acciaio, il regolamento permetteva di intervenire sulle sospensioni, a patto di mantenere i leveraggi originali della posteriore e foderi e steli di serie per la forcella. Totalmente nuove invece le parti della carrozzeria, con un grande serbatoio anteriore e due piccoli posteriormente, per una capacità totale di 54 litri di benzina. Per la gestione delle moto il team Kawasaki-IP che aveva come sponsor principale l’Italiana Petroli, si era affidato al Team Assomoto: la squadra di Bruno Birbes era una delle più organizzate a livello nazionale, ed aveva una percentuale di piloti portati al traguardo nella Dakar del 79%.

Come mezzi d’assistenza ci si era affidati ad un camion Liaz 154-111 ed un’auto Range Rover 3900. Particolare curioso, l’auto per l’assistenza veloce era guidata da Davide Pollini, presidente e responsabile logistico e finanziario del team Assomoto, che aveva alle spalle un paio di Dakar in moto, ed una in auto nel 1991.

I PILOTI:

29 GUIDO MALETTI È stato uno dei primi italiani a dedicarsi ai grandi rally africani, e nell’87 riuscì ad ottenere un ottimo undicesimo posto nella Parigi-Dakar Reggiano, 33 anni, vanta numerose esperienze nell’enduro nazionale; fu pilota ufficiale Kawasaki-France nella Dakar ’90 mentre nell’edizione successiva non corse. Di nuovo in gara con la Kawasaki, punta soprattutto sulla regolarità e sulla capacità di sbagliare poco, quelle che sono le sue doti migliori.

30 WALTER SURINI Denti stretti e tanta fatica per portare a termine lo scorso anno la sua prima Dakar. Ma ce la fece, e questa volta ci riprovava come pilota ufficiale della Kawasaki-Italia. La sua esperienza rallistica però non si limitava alla classica africana: tra i suoi risultati di maggior prestigio una vittoria nell’Incas Rally ’88, quando riuscì da privato a battere diversi ufficiali, e buoni piazzamenti nuovamente in Perù ed in Sardegna, oltre al successo nel Rally della Repubblica Dominicana del ’91. Bergamasco trentunenne, pilota d’elicottero, aveva vinto diversi campionati nazionali di enduro, endurance e junior.

Ndr: entrambi i piloti si comportano egregiamente, terminando entrambi la competizione, dimostrando la serietà del Team e la bontà della moto portata in gara. Maletti e Surini conclusero rispettivamente 19° e 20° nell’assoluta (4°e 5° nella categoria Marathon vinta da Massimo Montebelli).

fonte: motosprint

 

Che Fatichi…la Dakar! La BMW di Birbes Dakar 1987

Fatichi e Birbes. dopo le precedenti esperienze al Rally dei Faraoni delle edizioni ’84 e ’85, si erano fatti un’idea ben chiara e precisa di come doveva essere una motocicletta in grado di competere per la vittoria. Prima di tutto un motore bicilindrico e affidabile in grado di garantire velocità di punta elevate e una indispensabile resistenza nelle lunghe maratone desertiche.

Ovvia quindi la scelta della BMW considerato anche che Birbes, della casa tedesca, ne è stato il concessionario ufficiale per Brescia e provincia.

«Avevo in mente la motocicletta di Rahier» – esordisce Silvio Fatichi – «volevo farne una uguale e se possibile migliorandola. Le mie idee, dopo quasi dieci mesi di lavoro, hanno portato a questo risultato finale del quale sono soddisfatto».

In effetti dopo quasi un anno di sabati e domeniche rubati alla famiglia e al riposo, l’oggetto che ne è uscito non potrà che soddisfare Birbes il quale dopo le prime prove sulla pista di Rezzato, si è espresso in termini molto favorevoli.

«La motocicletta in linea di massima è valida. ma dobbiamo ancora perfezionare la sospensione anteriore perchè. con il pieno di benzina (60 litri), va a fondo corsa».

Se consideriamo che questa BMW-Fatichi col pieno di benzina pesa circa 240 chilogrammi, quasi meno delle motociclette ufficiali tedesche. possiamo imma-inare lo sforzo profuso per arrivare a un tale risultato.

Quali difficoltà avete incontrato nella realizzazione di questo «mostro»?

«Ho dovuto allungare il forcellone posteriore di nove centimetri ricostruendo quindi tutta la trasmissione» – risponde Fatichi – «ho rifatto completamente la parte posteriore del telaio in maniera da permettere un agevole posizionamento del serbatoio di scorta in modo tale poi da poter smontare la motocicletta senza incontrare troppe difficoltà. Ora riesco ad intervenire sul cambio e sulla trasmissione senza smontare eccessivamente il mezzo».

La BMW-Fatichi partirà ai primi di ottobre per Marsiglia dove saranno effettuate le punzonature per l’edizione ’86 del Rally dei Faraoni. Dal risultato di questa competizione dipenderà anche la partecipazione alla Parigi-Dakar che prenderà il via il primo gennaio prossimo. (ndr. Birbes arrivò 6° a quell’edizione dei Faraoni).
«L’iscrizione alla Dakar» – conclude Birbes – «è già stata espletata. ma il risultato del «Faraoni» influenzerà notevolmente sulla nostra partecipazione. Credo comunque d’avere a disposizione la motocicletta adatta a queste maratone».

Lasciamo Birbes e Fatichi alle centinaia di domande che appassionati e curiosi li rivolgono per sapere «il perché e il per come» della loro realizzazione. La somiglianza con le motociclette ufficiali BMW è davvero notevole, ma la moto però è frutto solamente delle idee e dell’ingegno di Silvio Fatichi.

Ringraziamo Donato Benetti (fiero proprietario della moto) per il materiale fornito per realizzare questo post.

Intervista a Bruno Birbes

A novembre mi chiama Fabio, e dopo avermi dato del cialtrone e dell’incompetente come fa da sempre, mi dice che però può darmi un’ultima possibilità: ci sarebbe da fare un articolo su un certo…
Ovviamente finiti i nostri giochetti, mi dice: «Oh, guarda che questo è uno VERO, è un dakariano vecchio stampo, mica una mezza sega come te…». E ancora: «Questo ne ha fatte più di una decina, tra quelle in moto come pilota e quelle come assistenza e team manager. È uno delle tue parti, un bresciano…».

Bresciano a chi, io sono un genovese. Mia moglie, mia glia e il mio cane sono bresciane, ma questo è un discorso a parte… Quindi mi faccio avanti e gli chiedo il nome, lui mi dice che si chiama Birbes, Bruno Birbes. Ma io lo conosco!!! Quante Dakar? Quello? Quel Bruno Birbes? Ah sì, mi era giunta voce… Ha ragione Fabio, sono un cialtrone.
Sì, ma è mai possibile che tutte le volte che incontro “il” Bruno (notare l’articolo prima del nome, alla bresciana) quello sembra sempre che sia un docile sessantacinquenne a cui piace fare ancora qualche scampagnata con gli amici alle cavalcate motociclistiche… Cos’è, uno scherzo? Al che inizio ad indaga- re, chiamo un paio di amici e questi mi parla- no di uno che dà del gas da vendere, che si è messo dietro in classi ca piloti professionisti con nomi altisonanti, che si è giocato dei Rally dei Faraoni nei primi sei.

Questi bresciani mi fanno arrabbiare: è mai possibile che quando ti rapporti con loro sembrano sempre gli ultimi arrivati, quelli che hanno vissuto nella capanna no a ieri pomeriggio, poi vai a vedere sotto e scopri che sono dei draghi di quella roba lì!?
Ora vi racconto un pochino di chi stiamo parlando. Parliamo di un giovane promettente campione classe 1949, che fa i suoi primi passi con dei Gerosa 50, Italjet 50 e Müller 50 nelle gincane dei primi anni ’60. Addirittura nel 1968, alla Sei Giorni di San Pellegrino, conquista la medaglia di bronzo su Müller 50 motorizzato Zündapp, no al momento in cui non si compra un Müller 125, motore Montesa, lo mette in mano al mitico preparatore di Borgo San Giacomo, Maestroni (recentemente scomparso), e inizia l’avventura delle corse. Va fortissimo il ragazzino, ha quel guizzo che lo fa stare davanti, ha quella follia del campione. Inizia così a farsi un nome e con esso iniziano ad arrivare le amicizie e gli aiuti.

Dal 1970 al ’74 corre con CZ 250 e Maico 500, e alterna Cross con Regolarità, dove si scontra con i nomi di quell’epoca, nomi del calibro di Vertemati e Angiolini. Mentre mi racconta queste storie a un certo punto Bruno, serio come un carabiniere, mi cita un episodio del 1970 che lo vede protagonista con il Maico 500 in una gara internazionale: spicca il volo, sbaglia la velocità e atterra sul piano dopo un volo pazzesco, piegando manubrio, pedane e telaietto e riducendo il cerchio davanti a forma di palla da rugby. Al che mi dice: «E da lì sono come mi vedi ora, prima ero alto e biondo». Con questa ho capito che è uno che si prende in giro da solo, come tutti i motociclisti sani…

In quegli anni arriva l’ufficialità con Puch nella Regolarità e il grande incontro con l’uomo della svolta, Silvio Fatichi, ai tempi officina assistenza Puch e meccanico preparatore. Nel 1973 Birbes entra a far parte della squadra ufficiale Frigerio e diventa un pilota Puch a tutti gli effetti. Corre con la 180 cc, fatta su misura per la Sei Giorni di Camerino nelle Marche del 1974, e con la 250 Replica Everest a due carburatori, con la quale si gioca il podio della classifica di fine stagione all’italiano, combattendo con piloti come Testori, Taiocchi e Ferrari.

Nel 1975 prova a mettere la testa a posto e decide di aprire una concessionaria Puch e BMW; si avvale dell’importantissima figura di Fatichi, smette di correre ufficialmente ed inizia una florida carriera imprenditoriale. Uso il termine “prova” perché, agonistica- mente parlando, la testa a posto ha fatto finta di metterla, dedicandosi alle gare minori e mettendosi ad aprire la saracinesca la mattina. Ha sposato la figlia di Fatichi, gli ha regalato delle nipoti, ha venduto tante belle BMW boxer, mansuete e silenziose, e ha rigato diritto per qualche annetto. Il problema è che sotto la cenere c’era ancora il vulcano acceso: un bel giorno si è svegliato, ha guardato una BMW, si è rivolto a suo suocero, Fatichi, e gli ha detto: «Ne facciamo una e andiamo alla Dakar!».

Ecco, ora sono c… 1984, Rally dei Faraoni, Puch 500 4 tempi, 24°; l’anno dopo stesse posizioni, sempre saltando controlli timbro e prendendosi ore di penalità. Quindi si iscrive alla Grande Avventura: nel 1987 è deciso a prendere parte alla Dakar. Sull’onda dei successi di Gaston Rahier, della sua BMW ufficiale e del fatto di esserne concessionario, costruiscono, lui e Fatichi, un missile da deserto su base BMW boxer. Al Faraoni dell’86 vanno a testarla e tornano con un 6° assoluto, quindi via verso Dakar. Senza assistenza, esperienza e con tanta manetta, al terzo giorno senza chiudere occhio di notte cappotta e si rompe spalla, costole, ecc…

Arriva a fine tappa e nella sua testa, di avventuriero malato di moto, pensa di ripartire… Carlo Florenzano, allora
team manager Honda con Orioli e Terruzzi, lo prende e gli fa capire che la sua gara è finita, lo carica sull’aereo al suo posto e gli porta la moto no ad Agadez. Mentre mi racconta l’episodio, Bruno ha le lacrime agli occhi. Fatto sta che, ovviamente, si riorganizza e addirittura crea un Team, l’Assomoto, grazie all’aiuto determinante di Pollini e Girardi (suoi grandi amici, altri due malati di rally).

Così, dopo aver comprato un Unimog, pa tono per la Dakar 1988. In questa edizione c’è una tappa da 1.150 km… è un’edizione durissima, rompe il cambio nella seconda tappa e dopo essersi fatto trainare da Winkler fino al traguardo, racconta di essere rimasto senza benzina (anche perché altrimenti lo squalificano) e passa il traguardo accendendo la moto con l’aria tirata facendo finta che sia tutto a posto… In seguito rompe il telaio sotto il canotto di sterzo, ci finisce una tappa e poi lo salda; a Bamako cambia il motore che ormai va ad olio, ma alla fine arriva e anche in ottima posizione.

Al Rally dei Faraoni dell’88 va con un XR 600. Agguerritissimo e pronto a fare un buon risultato, pianta una mina di quelle di cui si ricorda solo che dopo essersi fermato a dare una pinza a De Petri… buio completo fino a quando Gualini gli dice di stare fermo che sta arrivando l’elicottero. Due giorni in coma al Cairo. Dal 1989 basta motociclette, ma solo da guidare. Arriva Beppe Cannella a correre e lui diventa team manager, anche perché è ancora imbustato. Dal ’90 diventano assistenza ufficiale Gilera per i privati iscritti alla Dakar e nel ’91 diventano addirittura Team Ufficiale Kawasaki con le KLE 500 bicilindriche.

Fatichi ormai è diventato un drago delle preparazioni dakariane, e dal 1985 al ’95 prepara qualcosa come 25 moto. È conosciuto come un uomo dal carattere duro e che sa bene come metterti in piedi una motocicletta da deserto, per cui in tanti si affidano al “nonno”. Durante questi anni fanno assistenza a vari piloti, tra cui Aldo Winkler, e vivono l’avventura delle Dakar vecchio stile, quelle africane, diventando a tutti gli effetti un team importante e riconosciuto come certezza dall’organico della Dakar (tra i tanti aneddoti che mi racconta Bruno rimango colpito da quella volta in cui all’arrivo di una tappa in Mauritania Orioli arriva col cambio finito, tappa Marathon senza assistenza; Birbes è lì, e con l’aiuto di alcuni amici smonta tutto in una notte, sistema il cambio e permette al campione di fare la tappa del giorno dopo, arrivare all’assistenza e infine vincere la sua terza Dakar).

Fino in mezzo ad un trasferimento, tampona di striscio un camion fermo a fari spenti; a 120 km/h lo vedono all’ultimo e lo colpiscono col fianco sinistro, si strappano tutte le ruote da quella parte e iniziano a carambolare. Per uscire buttano giù il vetro davanti a calci con il camion che fuma pronto a prendere fuoco. Per capirci meglio, Bruno ha intuito quella notte che i jolly erano finiti…
La sua BMW ora la tiene in casa al quarto piano, di fianco ai giocattoli dei nipotini, di fronte alla scrivania, vicino alle fotografie. Lui è un gentile sessantenne di buona educazione e rispettoso della casa e del suo ordine, mai più ti viene da pensare che sia quel diavolo da Dakar che si è sempre buttato dentro all’Avventura, quella maiuscola.

Fra le foto che trovo in casa di Bruno Birbes, una mi colpisce particolarmente, e così gli chiedo cosa stava facendo in quella foto. Immediatamente inizia a ridere e mi spiega che in un’edizione degli anni ’90 della Dakar durante una tappa Aldo Winkler arriva col forcellone spezzato. Birbes, che è la sua assistenza, sa di non avere il ricambio lì e il giorno dopo deve tassativamente far ripartire il suo pilota. Ora, vorrei citare la definizione di genio che viene data nel film Amici Miei: “il Genio è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione!”. Quindi Birbes si guarda in giro col braccio del forcellone spezzato in mano. Lì a fianco c’è un chioschetto mauritano con i tavolini e le seggiole di ferro. Con fare furtivo acchiappa una seggiola, sega una gamba e la in la divisa in due dentro i canali interni del forcellone rotto; rivetta il tutto (ovviamente in maniera seria) e il giorno dopo Winkler è ripartito… e ha finito la gara. Ragazzi, vi giuro che mi sono brillati gli occhi!

Tratto da un articolo di Endurista Magazine, testo di Paolo Silvestri