Il 29 dicembre 1991, António Lopes è stato il primo pilota portoghese a schierarsi alla partenza del Rally Dakar. António Lopes aveva già un lungo curriculum in moto, essendo stato campioneLopez 1991-1 nazionale di endurance nel 1990, aveva già vinto la Baja Portalegre 500 e all’estero era, per esempio, 26° al Rally dei Faraoni.

Se, in auto, la partecipazione portoghese è iniziata nel 1982, attraverso José Megre, alla guida di una UMM Indenor 2.5 con il numero 216 (fu 45° nella classifica generale), fu solo nella 13a edizione della Dakar, nel 1991, che un motociclista portoghese partecipò per la prima volta alla Dakar.
Alla guida di una Honda Africa Twin 650, e con l’assistenza di Honda France, il pilota portoghese ha partecipato alla Parigi-Tripoli-Dakar, e ha impressionato all’inizio della gara. Ha raggiunto il giorno di riposo al 29° posto della classifica generale, in una gara alla quale partecipavano una trentina di moto di squadre ufficiali, e subito in testa alla classe Marathon.

“Le cose stavano andando bene”. Era al primo posto nella classe marathon e al 20° posto in classifica generale, ma una caduta nella 12ª tappa, in Mali, ha rovinato tutto. Caduto rimane privo di sensi e il pilota che lo ha soccorso ha attivato la radiotrasmittente che inviava il supporto medico (elicottero) e ha escluso il corridore infortunato dalla gara: “È stato frustrante”. Non si è fatto male, nemmeno un graffio da raccontare: “Mi sono svegliato in un’ambulanza e avrei continuato, ma le regole erano così e sono stato escluso”.

A parte il risveglio in un’ambulanza, l’avventura più grande è stata quella di partecipare a un segreto che inlcudeva anche una morte di un concorrente. L’atmosfera era tesa, la Guerra del Golfo era iniziata nell’agosto del 1990 e un soldato africano finì per uccidere uno dei concorrenti in Mali. La versione ufficiale è che Cabannes fu colpito da un proiettile vagante. Questo fu l’inizio dei problemi che avrebbero portato la Dakar a lasciare l’Africa per il Sud America e poi il Medio Oriente.

“È stata l’avventura di una vita. Nessuno sapeva come fosse. Sapevamo solo quello che leggevamo sulle riviste e sui giornali, quindi dire che sono andato al buio è un eufemismo”, ha raccontato l’ex pilota a DN. Il 29 dicembre 1991, si è recato al rally con una moto prestatagli dalla Honda, una squadra che lo conosceva dalle competizioni fuoristrada.

E’ stato campione nazionale di Enduro e aveva già vinto la Baja Portalegre e partecipato al Rally dei Faraoni. “La moto era rimasta dall’anno precedente, era quasi pronta e doveva solo essere messa a punto. All’epoca cominciavano ad arrivare gli sponsor e ho ottenuto i soldi necessari, 12.000 escudos (circa 60.000 euro)”, racconta, sottolineando che oggi la quota di iscrizione è molto più bassa e si può fare una Dakar con 7/8.000 escudos.

Era la prima volta che un motociclista portoghese vi partecipava. Le moto pesavano 300 kg (oggi pesano la metà), erano alte quasi due metri ed era difficile manovrarle tra le dune. Non c’erano i moderni road book o il GPS. “C’era una bussola elettronica, che aiutava chi sapeva come funzionava. L’ho ricevuta solo due giorni prima, quando sono arrivato in Francia. Mi hanno dato un opuscolo su come funzionava, ma era quasi inutile”, ha confessato l’attuale proprietario di una concessionaria Honda a Mem Martins.

Andavano alle tappe con una mappa e un biglietto aereo. Se si perdevano, bastava andare in un qualsiasi aeroporto africano per raggiungere Dakar o Parigi. Se la loro moto si rompeva e non poteva essere riparata, rimanevano lì. Non c’erano camion scopa e nessuno li andava a prendere: “Eravamo da soli e questa è la grande differenza con oggi, ed è per questo che i nostalgici dicono che quella era la vera avventura. È da qui che nasce l’espressione ‘se arrivi alla fine è una grande vittoria’. Perché è stato così”.

Non è più tornato alla Dakar. Aveva realizzato il suo sogno e questo era “sufficiente” per lui. Sapeva che vincere era impossibile e non era disposto “a correre rischi così grandi solo per partecipare” ma il record di un grande debutto, ai comandi di un Africa Twin quasi standard. Il primo concorrente di moto a finire fu Pedro Amado, l’anno successivo, 1992, in sella a una Yamaha XTZ 660 (fu 28° assoluto/9° nella classe Marathon), ma di lui parleremo un’altra volta…

Fonte: Rapporto della rivista Moto Show
Giornalista Gabriel Hochet

Pochi sanno che nella prima edizione del Rally Parigi-Dakar, quasi il 100% dei concorrenti si è ammalato a causa del cibo locale. È già famoso il motto “i sacchi vuoti non stanno in piedi”. Con le informazioni e l’esperienza della prima edizione, Thierry Sabine decise di coinvolgere Africatour, una società specializzata in viaggi in Africa, per creare una sorta di “mensa militare”.

MEZIANI Patrick 1980

Per la seconda edizione della gara venne stata aggiunta una tassa sul cibo al momento dell’iscrizione. Il cibo era sano, il gusto meglio non commentare. Dettaglio importante: per mangiare era necessario completare la tappa. Il nuovo regolamento vede l’inserimento della categoria autocarri. Nella categoria auto compare già il primo team ufficiale: Volkswagen. Tra le moto, le Yamaha XT 500 sono di nuovo le più numerose, ma non c’è ancora una squadra ufficiale.

Il rally inizia il 1° gennaio con 204 concorrenti. Il ritmo è più elevato e con esso anche il numero di incidenti e problemi meccanici.

Sabine decide di portare un gruppo di giornalisti a un attraversamento del fiume nella penultima tappa, così da poter immortalare gli eroi in azione. Al momento del passaggio, videro concorrenti esausti, feriti e malati. Il francese Lioret, che tremante per la febbre, con il polso sinistro rotto e il ginocchio ferito, venne assistito dai medici ma continuò la corsa (ndr. concluse eroicamente i 10000 km della corsa classificandosi al 4° posto fra le moto).

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Il francese Lloret, stoico al traguardo.

Perplessi, i giornalisti commentano: “ma sono completamente pazzi, non seguono un regolamento”.

Sabine finge di non capire, sa che non esistono regole per il coraggio, né limiti umani. Il francese Cyril Neveu è due volte campione in sella a una Yamaha XT 500. Le vendite di questo modello salgono alle stelle. Il mondo inizia a rendersi conto dell’importanza del Rally Parigi-Dakar. Le prime auto sono le Volkswagen Iltis 4×4 dei tedeschi Kotulinsky/Leffelman.

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Testo di Klever Kolberg
Fonte facebook

Immaginate, Thierry Sabine ha preparato un percorso giudicato diabolico per la quinta edizione del Rally Parigi-Dakar! Ha ottenuto il diritto di passare attraverso le “piste” proibite del Tassilli (nel sud-est dell’Algeria) e del Ténéré (Niger). I concorrenti temevano e allo stesso tempo erano affascinati quando immaginavano le gigantesche dune degli altipiani montuosi di Illizi e Tamanrasset, le spaventose piste di Djanet e il crudele deserto del Ténéré, il più grande del Sahara.

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Ma Sabine non era soddisfatto. Inoltre si era inventato una tappa maraton di 1.700 km da percorrere in tre giorni, nel bel mezzo del deserto del Sahara, dove ci sono solo sentieri distrutti dalle intemperie.Fin dalla prima tappa, il piccolo pilota belga Gaston Rahier, tre volte campione del mondo di motocross, dimostra la tattica del team BMW: attacco totale! Finisce per perdere la testa della classifica il terzo giorno, quando si rompe il carter della sua moto a causa di un urto contro una roccia.

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All’ingresso del Ténéré i leader erano il francese Hubert Auriol con la sua BMW nelle moto e il belga Jacky Ickx con la sua Mercedes 280 GE 4×4 nelle auto. Tutto procede regolarmente fino a metà gara. Durante il briefing mattutino del 12 gennaio, Sabine avvertì tutta la carovana: “Vedrete le dune più fantastiche del mondo. Fate attenzione in questo bellissimo deserto, è pericoloso”, ma nemmeno lui immaginava che stava per arrivare la tappa più dura della storia della Dakar.

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Per i primi 100 km tutto è andò bene, ma all’improvviso il cielo divenne grigio, pesante, il vento aumentò e il rally venne stato colpito da una fortissima tempesta di sabbia. La visibilità si riduceva rapidamente e lo scenario sembrava quello di una fiction sul pianeta Marte. La tempesta imperversò per tutta la notte. Sabine cercò di salvare alcuni concorrenti, ma il suo elicottero si schiantò all’atterraggio, senza riportare ferite, (Sabine sarebbe deceduto in un incidente in elicottero tre anni dopo, durante l’edizione del 1986). Tutto divenne ancora più complicato.

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I primi concorrenti che completarono la tappa arrivarono esausti, crollando per la stanchezza. Chi era ancora nel deserto ha vissuto un’esperienza simile a quella di uno zombie. Alcuni sono diventati disperati pensando che non sarebbero mai riusciti a uscire da lì. Quaranta concorrenti sono stati dispersi per quattro giorni, ma tutti sono stati ritrovati sani e salvi. Nelle ultime tappe Jacky Ickx ruppe un asse della sua Mercedes, ma fu salvato dal camion di supporto del team Range Rover, uno dei suoi principali rivali. Una storia irripetibile ai giorni nostri! Ickx è poi risultato il vincitore della categoria auto. Hubert Auriol ha invece vinto per la seconda volta la gara di moto con la BMW.

La copertura della stampa internazionale è stata più grande che mai. Il 5° Rally Pari-Dakar ha affascinato il mondo, la gara ha continuato a crescere e l’immagine dell’avventura è stata ancora più forte. L’azzardo di Sabine cominciava a dare i suoi frutti.

Testo di Nicolò Bertaccini

La Paris-Dakar, quella che tutti abbiamo amato e che ancora amiamo, non smette mai di restituirci racconti. La passione di ognuno permette di tener vivi i ricordi e ogni tanto fa riaffiorare un ricordo, un aneddoto. Questo viene dalla Spagna e ci viene riportato da Joan Marti Utset, un amico del nostro sito, che ringraziamo per la condivisione. Come tutti i racconti che risalgono ad oltre trent’anni fa non tutti i punti sono chiari, non tutti i ricordi sono nitidi. Però gli elementi sono sufficienti per ricostruire la storia.

Siamo nel 1989, undicesima Dakar. Joan è al seguito della carovana in un team che accompagna un gruppo di giornalisti. Stanno seguendo la gara, la documentano, la raccontano. Ad un certo punto, siamo all’ottava tappa, poco prima della metà della gara, la Termit – Agadez, vedono una moto a terra. Si fermano e vedono il pilota tramortito: ha subito una botta alla testa e non è presente a se stesso. Con lui c’è uno dei compagni di squadra. Il pilota a terra a Alessandro Girardi, pilota del team Assomoto in sella ad una Honda XR600.

 

Girardi 1989

 

Il suo compagno di avventura, di conseguenza, deve essere uno fra Canella, Pollini o Viziale. Il compagno si assicura che Joan e gli altri prestino il dovuto soccorso e gli raccomanda di caricare la moto, dopodiché parte. Nel gruppo di giornalisti c’è anche un medico, cosa abbastanza frequente allora. Si rende conto che Girardi non è in condizione e lo carica in auto. Qui comincia la cosa incredibile.

Joan prende la moto di Girardi e, nonostante il manubrio storto e qualche altra ammaccautra, la porta fino al bivacco di Agadez, tappa fissa della gara di Sabine. Appena arriva cerca il team cui consegnare la moto e poi si ricongiunge ai suoi. Il suo compiuto è terminato, può rientrare in Spagna. C’è un particolare. Quando arriva ad Agadez, all’arrivo di tappa, l’organizzazione gli chiede la carta di controllo.

Joan dice di averla persa e la direzione gara, all’epoca ancora molto flessibile, si annota il numero di tabella della moto, numero 17.

Joan torna a casa, attraversa l’Algeria e arriva a Barcellona. Ovviamente continua a seguire la corsa, raccoglie informazioni ed immagini come può, come tutti noi che eravamo a casa. Ci sono però le immagini dell’arrivo, gli ultimi km e la festa. Joan è davanti al suo televisore e qualcosa attira il suo sguardo: una tabella numero 17. Girardi ha ripreso la moto ed è arrivato sul Lago Rosa, alla fine della corsa. Probabilmente il giorno di riposo ad Agadez gli ha permesso di rimettersi in sesto e di continuare la sua avventura nel deserto.

Non sappiamo come arrivare a Girardi, però ci facciamo portatori del messaggio di Joan che a distanza di oltre trent’anni vuole complimentarsi con lui e raccontargli del suo piccolo aiuto.

Ndr: Alessandro Girardi è classificato in 42* posizione alla Dakar 1989, unica volta sul Lago Rosa in 3 partecipazioni.

Oggi parliamo di un esemplare che, guidato da Gilles Francru, ha corso la Parigi – Dakar del 1994.  L’unicità dell’edizione del 1994 della Parigi – Dakar è che, in quell’anno, la competizione partiva da Parigi arrivando a Dakar, in Senegal, per poi fare ritorno in Francia, a Eurodisney, alle porte della capitale.

Il contachilometri, che si dice sia in gran parte originale, indica 27.846 km, una distanza sufficiente per non una, ma due edizioni della Parigi-Dakar. Sono presenti anche adesivi della corsa del 1993 (e del 1994), ma la sua partecipazione e il suo arrivo all’evento non sono confermati. Se questa moto potesse parlare, avrebbe molte storie incredibili da raccontare.

Quell’anno Gilles Francru riuscì a piazzarsi al trentatreesimo posto: non male, considerando che delle 97 moto partite, solo 47 arrivarono al castello di Topolino. Detto ciò, il fascino della Parigi – Dakar, quella vera, quella che fino al 2007 si svolgeva a cavallo tra il Vecchio Continente e l’Africa, è sempre vivo anche oggi e i più nostalgici e curiosi forse non sapranno che questa moto fu messa all’asta alla RM Sotheby’s e venduta per 10.800 sterline.

 

Quella dell’86 fu la gara più amara in assoluto per la squadra varesina: a pochi chilometri dall’arrivo, quando sembrava che la grande corsa fosse finita, Giampaolo Marinoni seguiva la sorte di Sabine, dipingendo di nero l’edizione più tragica della Dakar. Nel suo ricordo, per onorarlo nel sacrificio dello sport, la Cagiva si ripresenta con quella che, almeno sulla carta, è una delle squadre più forti.

De Petri e Auriol puntano sugli 80 CV del Ducati CAGIVA la più potente

Quattro piloti: i due francesi Auriol e Picard ed i nostri De Petri e Gualdi, e due staff al seguito: uno in pista capitanato da Vismara che guiderà anche uno dei quattro mezzi d’assistenza ed un altro, comprendente anche un medico, sull’aereo dell’organizzazione. Gli uomini non abbisognano di grandi presentazioni: Auriol ha già vinto due volte; De Petri lo scorso anno ha vinto sei tappe e cinque successi li ha colti nell’ultimo Rally dei Faraoni; Gualdi, ex regolarista, debutta in Africa ma vanta successi nei campionati europeo ed italiano d’enduro e nella «Sei Giorni».

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Il francesino Picard è il gregario ideale, sempre pronto a sacrificarsi per il suo «capitano». Le moto sono le rinnovate Cagiva 850. Il motore bicilindrico Ducati con i suoi 80 CV consente loro di raggiungere un velocità massima nel deserto di 185 Kmh, nonostante il peso a pieno carico, quindi anche con i 65 litri di carburante distribuiti nei due serbatoi, sia di 230 Kg.

elefant_87Dopo gli ultimi test, da parte dei piloti c’è la ferma convinzione che la moto disponga dell’affidabilità indispensabile per inserirsi di prepotenza nella lotta tra le bicilindriche, dominata finora da BMW ed Honda. Il prototipo che partecipa alla Paris – Dakar del 1987 viene profondamente rinnovato, per alimentare la cavalleria del motore Ducati la moto viene dotata di una carenatura integrale che comprende anche il serbatoio del carburante. Un serbatoio supplementare fa anche da sostegno per la sella.

Il risultato è un mezzo compatto ed efficacissimo sulle piste africane e, mentre una squalifica mette presto fuori gioco la coppia italiana Alessandro “Ciro” De Petri – Franco Gualdi, Hubert Auriol, coadiuvato nelle prime fasi da Gilles Picard, giunge alla penultima tappa (in pratica all’ultima, vera, speciale) in testa alla competizione seguito da Neveu su Honda.

Ma una stupida radice nascosta nella sabbia di una piantagione senegalese toglie di mezzo “Hubert l’africano”, agganciandone un piede e facendo perdere l’equilibrio al pilota che, così, va a sbattere contro un albero. Il francese ne riporta entrambe le caviglie spezzate e, dopo aver superato notevoli difficoltà per tutta la gara ed essere, anche in queste condizioni, riuscito a tagliare il traguardo, viene costretto al ritiro. Le immagini televisive di Auriol piangente dal dolore fanno il giro del mondo e lo elevano a vincitore morale di questa edizione della corsa.

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Immediatamente viene presentata sul mercato motociclistico una sorta di “Auriol replica”, come la definisce la rivista francese “Motoverte”, ovvero una Elefant che, a grandi linee, riprende l’impostazione della moto da gara. In realtà la moto in vendita al pubblico non è altro che la moto dell’anno precedente dotata di parafango basso e di carburatori Bing a depressione che ne addolciscono l’erogazione. Il richiamo estetico alla moto africana viene affidato alla carenatura integrale con il monofaro ora non più solidale alla forcella. Importante differenza è invece l’adozione del motore di 750 cc.

Tratto da Rombo 1987

Testo di Giovanni Tazzone Fantazzini

Per cercare di evitare lo strapotere dei prototipi alla Dakar, la direzione di gara verso la fine del 1993 provvede a cambiare il regolamento, ed introdurre la categoria sport prototipi, moto di derivate dalla serie. La Yamaha visto il poco tempo per prepararsi e le divergenze con la direzione gara, non iscrive nessuna squadra alla Dakar 1994.

 

De Montremy Landreau 1995

 

Durante il 1995 la Yamaha Motor France non potendo più contare sui prototipi provenienti dal Giappone, nel proprio atelier prepara due piccole serie di moto, 15 bicilindrici e 15 monocilindrici. Il bicilindrico direttamente derivato dal prototipo vincente nel 1993, con telaio Barigo e motore di derivazione TDM, come riportato sulle carte di circolazione delle moto, moto adatta a piloti professionisti ed esperti. Il monocilindrico derivato dal XTZ 660 con modifiche al telaio, sospensioni, alla cassa filtro e alle sovrastrutture, adattato e preparato per piloti amatori che erano nella sfera di Yamaha France.

Le importanti modifiche vennero state testate da Stéphan Peterhansel al Nevada Rallye.

La capacità del carburante è stata aumentata a 37 litri grazie ai due serbatoi anteriori in alluminio (un optional posteriore da 5 litri), il paramotore riceve una riserva d’acqua in alluminio, il telaietto posteriore rimovibile è in acciaio, la forcella è una Kayaba da 43 mm della gamma YZ preparata nell’idraulica e nelle molle, l’ammortizzatore è un Ohlins dedicato nelle misure e nel serbatoio, il forcellone in alluminio scatolato è realizzato su misura con la possibilità di smontaggio rapido della ruota posteriore, il silenziatore è un First Racing, l’airbox è originale ma modificato (con un’apertura più ampia e un secondo filtro, alcune vennero dotate di cassa filtro in alluminio dedicata).

Il cupolino e i fianchetti laterali sono in poliestere rinforzato con fibra di carbonio, i parafanghi anteriori e posteriori provengono dalla WR 250, la sella è in poliestere specifico. L’equipaggiamento di navigazione è obbligatorio e comprende Trip elettrico MD e triplo ICO. Il prezzo di vendita includeva la moto, ma anche un kit di parti molto fornite, l’assistenza e il trasporto dei pasti durante l’evento. Le 15 moto troveranno rapidamente compratori, tra cui il “Team Les Copains” composto da Christian Sarron , Pierre Landereau, Philippe Alliot e Raphael de Montrémy. Jacques Laffite correrà su una TT 350 e Thierry Magnaldi sulla XTZ850R.

Tra gli altri piloti anche il famosl pilota/velista/giornalista Thierry Rannou, Egfried Depoorter e altri. Circa metà delle 14 moto corsero anche nella Dakar 1996 con Marc Troussard, Michel Servet e altri. Visto la richiesta e il prezzo altissimo della Super Production, la Yamaha Motor France, preparò nel 1995 due serie di moto per le corse raid, la Marathon e la Marathon Rallye, entrambe preparate su base XTZ 660 ma con poche e mirate modifiche.
La Marathon: serbatoi e sospensioni.
La Marathon Rallye: serbatoi sospensioni e cassa filtro.
Per entrambe nessuna modifica al telaio.

 

Tratto da GPONE il ricordo di Carlo Pernat

“Hubert Auriol era un signore e un amico, una persona che mi ha insegnato tanto, sopratutto nelle relazioni esterne. Era sempre sorridente e con la battuta pronta”. Carlo Pernat ricorda così il re della Dakar, il primo pilota ad averla vinta sia in moto sia in auto. Uno dei miti di quel raid circondato dalla leggenda.

Il rapporto tra Pernat e Auriol non era stato solo professionale, sulle piste dell’Africa era nata un’amicizia durata negli anni. “Ero in Aprilia quando ed ero stata invitato in una trasmissione tv a Parigi, il lunedì dopo il Gran Premio di Le Mans – racconta ancora Carlo – Finito di registrare, erano verso le 23, ci venne in mente di telefonare a Hubert per andare a mangiare qualcosa tutti insieme, a quei tempi aveva un ristorante. Mi rispose che era già a letto, si rivestì e venne con noia mangiare una pizza”.

Il loro rapporto iniziò quando il pilota francese fu ingaggiato dalla Cagiva per correre la Dakar.

“Mi presentarono Auriol ne1 1985. Era già un mito e fu importante per ottenere le sponsorizzazioni – continua Pernat – Ricordo che Ligier mi aveva detto di andare alla Tour Elf a Parigi, garantendoci che ci avrebbero dato i soldi per la sponsorizzazione. Io non ci credevo, ma andammo: ci offrirono il pranzo e poi andammo nel cinema privato a vedere dei filmati della Dakar. Alla fine mi dissero: qui c’è un miliardo per la gara. Fu grazie a Hubert se li ottenemmo”.

Hubert, nato ad Addis Abeba, conosceva i segreti dell’Africa e li costudiva gelosamente. ” Il suo asso nella manica era la Mauritania, anche se non ho mai capito il perché – confessa Pernat – Praticamente lì, in ogni tappa, aveva mezz’ora di vantaggio su tutti. Gli chiedevo come facesse e lui mi rispondeva che seguiva le tracce degli animali”.

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L’avventura con la Cagiva durò 3 anni, ma il destino volle che non fosse coronata dal successo. Nel 1987 sfumò quando sembrava scontato. “Avevamo praticamente già vinto la Dakar, avevamo un’ora e mezzo di vantaggio all’inizio dell’ultima tappa, che è solitamente è una passerella sul Lago Rosa – il ricordo di quel giorno è ancora vivido nella mente di Carlo – Tutto era nato la sera prima al bivacco. Nel corso dell’ultima tappa si passava su delle rotaie dismesse e Roberto Azzalin, il capotecnico, e Auriol litigarono sul fatto se usare o no le mousse per gli pneumatici. Non ricordo cosa decisero, ma che fu Hubert ad averla vinta, però poi durante la tappa forò 3 volte”.

La sfortuna non era finita.

“Mi raccontò poi che aveva battuto con la caviglia contro una specie di alberello nascosto, dall’altra parte c’era un sasso e andò a sbattere anche contro quello. Le due caviglie erano aperte, non riuscivamo nemmeno a levarli gli stivali, non ho mai capito come abbia fatto a guidare per altri 30 chilometri in quelle condizioni. Una cosa mi è rimasta particolarmente impressa. Lo avevamo caricato sull’elicottero che lo avrebbe portato all’aeroporto da cui poi sarebbe partito per la Francia. Hubert piangeva e mi ripeteva: “di’ a Castiglioni che abbiamo battuto la Honda”.
Quella è stata una delle poche volte nella mia vita in cui non son o riuscito a trattenere le lacrime

Anche dopo quella sconfitta, Hubert non si abbatté.

“Auriol era molto professionale. Claudio organizzò un volo privato per Parigi con alcuni giornalisti per fargli visita in ospedale. Hubert ci ricevette con la maglia della squadra, non con il camice. È una delle persone che hanno contato di più nella mia vita e nella mia carriera, ho imparato tanto da lui’ conclude Pernat”.

Alessandro De Petri lo aveva chiesto l’anno precedente agli ingegneri della Yamaha; «Voglio un motore più potente ma facile nella erogazione e una moto più leggera». E in Giappone lo hanno esaudito. All’irruente e veloce pilota bergamasco, all’altro francese Peterhansel, è arrivata, per la Paris-Le Cap, una nuova moto con il motore della TDM 850 e un peso ridotto di nove chili per un totale dichiarato a secco di 180 kg. E la Yamaha YZE ha vinto anche questa edizione della maratona africana confermando la maturità raggiunta nella precedente “Dakar”.

L’anno precedente la Super Ténéré si era aggiudicata la gara con Peterhansel sbloccando una specie di maledizione che gravava sulla Yamaha. Dopo avere vinto le prime due edizioni della gara africana con Cyril Neveu e la midica XT 500 monocilindrica, la Casa giapponese aveva dovuto segnare il passo per ben dieci lunghi anni, a favore di BMW, Honda e Cagiva. La nuova moto riprende le caratteristiche della precedente YZE tanto che esternamente appare praticamente uguale al modello 1991.

Una iniezione di potenza ha permesso alla YZE di rimanere in testa alla classifica. Migliorata anche la maneggevolezza diminuendo il peso. Nella prova emergono un telaio facile e una forcella rigida.

Le modifiche più appariscenti sono una sella più lunga voluta da De Petri per avere maggiore comodità, (contemporaneamente proteggere meglio il sensore della bussola) e un impianto di scarico più lungo con un silenziatore di maggiori dimensioni. Si notano anche una diversa e più voluminosa piastra di protezione realizzata in alluminio per la parte esterna e in kevlar per la parte vicina al carter motore e una presa d’aria sulla sinistra della carenatura-serbatoio per diminuire la temperatura intorno all’ammortizzatore.

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Ma le novità più consistenti sono sotto la grande carenatura e i voluminosi serbatoi. Cominciamo dal motore che è pratica-mente quello della Yamaha TDM 850. Addirittura è uguale al propulsore di serie nel novanta per cento delle sue parti: stessi carter, pistoni, teste, diametro delle dieci valvole, albero motore, dimensioni dei carburatore Mikuni da 38 mm, oltre all’alesaggio e alla corsa (89,5 x 67,5 mm con una cilindrata di 849 cc). Ancora presenti i due alberi di equilibratura davanti e dietro all’albero motore e praticamente indispensabili per ridurre le vibrazioni generate da questo bicilindrico parallelo con i perni di manovella disposti a 3600.

Modificata invece la cassa d’aspirazione (differente anche rispetto al modello dello scorso anno) che dispone di due filtri piazzati più in basso; i collettori di aspirazione che hanno un andamento pratica-mente rettilineo e portano i carburatori più avanti mentre l’impianto di scarico è rea-lizzato interamente in leggerissimo titanio.

Rispetto alla moto ’91 la modifica più evidente riguarda una sella più lunga e comoda, una nuova protezione in kevlar e lega leggera per la parte inferiore del motore oltre ad un alleggerimento globale.

Differente rispetto alla TDM ed alla YZE dello scorso anno, la rapportatura del cambio ulteriormente ravvicinata grazie ad una quinta marcia leggermente più corta. L’accensione è differente dalla TDM di serie ed è realizzata per accordarsi anche con i carburanti a basso numero di ottani recuperatili in Africa. Resta sempre la comodità dell’avviamento elettrico, un aggravio di peso ben tollerato, anzi richiesto, dai piloti, per affrancare dallo sforzo dell’avviamento a pedale.

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Le quote del telaio e delle sospensioni sono le stesse anche se è stata posta una grande attenzione nel cercare di concentrare il più possibile i pesi verso il baricentro. Oltre allo spostamento della camera di aspirazione e dei relativi filtri ai lati del trave superiore la batteria emigra dalla parte superiore del telaio sin dietro i cilindri. La sua costruzione è particolare poiché si tratta di una struttura modulare divisa in tanti pezzi. Per adeguarsi alla nuova collocazione forma così un parallelepipedo a forma di U.

II telaio ha lo stesso disegno monotrave e svolge ancora funzione di serbatoio dell’olio per la lubrificazione a carter secco del motore. Praticamente il disegno verte sul trave superiore, realizzato in lamiera d’acciaio piegata e saldata, che unisce direttamente il can notto di sterzo all’attacco del monoammortizzatore. Quattro bretelle fissano ed abbracciano il motore anteriormente mentre posteriormente una struttura, sempre in lamiera scatolata sorregge motore e forcellone. Due semiculle, in tubi estrusi di lega leggera, collegano sotto il motore, la parte anteriore del telaio a quella posteriore.

Un telaio decisamente massiccio e rassicurante nell’aspetto a cui si fissano i tre serbatoi realizzati in alluminio; il posteriore è autoportante e sostiene anche il parafango e il sensore della bussola elettronica. La capienza totale dei  serbatoi è diminuita da 61,5 a 55 litri grazie al minore consumo del motore. Per le tappe più lunghe è stato però studiato un serbatoio supplementare da quattro litri da montare sulla destra del serbatoio posteriore. La centralina d’accensione e il raddrizzatore di corrente sono posti ora nella zona anteriore sotto la strumentazione, prima erano alloggiati sotto la sella.

Come abbiamo detto anche le sospensioni restano le medesime. La forcella è stata rivista nella taratura, mentre l’ammortizzatore, causa di non pochi problemi alla precedente “Dakar”, ha un nuovo serbatoio d’espansione di maggiore volume e completamente alettato per smaltire meglio il calore. La forcella Kayaba a steli rovesciati da 43 mm di diametro conserva una escursione di 300 mm ed è ampiamente regolabile sia in compressione sia in estensione. Dietro resta il bellissimo forcellone in lega leggera costruito piegando una lastra d’alluminio ed integrandolo con elementi di fusione; il tutto per formare una struttura differenziata secondo i punti di maggiore sollecitazione.

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Per sicurezza i punti di attacco del biellismo di progressione che si erano rotti sulla moto di Cavandoli sia alla Dakar come ai Faraoni dello scorso anno sono stati irrobustiti a dovere. Il resto della ciclistica è ancora uguale alla YZE del 1991 con due freni a dischi flottanti dotati di pinze a doppio pistoncino e mozzi in alluminio con raggi doppi che vanno ad unire da una parte all’altra il cerchio. Una moto “dakariana” o per meglio dire africana, oltre ad essere potente e maneggevole deve essere concepita anche dal punto di vista aerodinamico in modo da offrire la minore resistenza possibile all’aria e contemporaneamente rendere più confortevole la guida al pilota.

Nessuno dei “top driver” ha però richiesto maggiore protezione e la forma della carena è rimasta la medesima della vecchia versione. Carenatura, cupolino e parafanghi sono in fibra di carbonio mista a kevlar, per essere elastici e resistenti allo stesso tempo. L’abbondante strumentazione è raccolta dietro il cupolino ma la squadra italiana della BYRD ha una plancia diversa da quella realizzata in Giappone ed utilizzata dalla moto di Peterhansel. È più alta per facilitare la consultazione degli strumenti di navigazione e del road-book anche nella guida da seduti. La plancia, nuova-mente in materiali compositi, è costruita in Italia.

Come Cagiva Elefant, anche la Yamaha YZE che abbiamo provato era reduce dal rally dei Faraoni. È quella di “Ciro” De Petri e porta i segni del trattamento sempre rude del pilota bergamasco. È un poco rovinata nella carrozzeria per le cadute e per essere rimasta intrappolata nelle sabbie mobili della seconda giornata di gara; inoltre ha avuto anche la sfortuna di vedersi cambiare il “cuore” (leggi ovviamente il motore) poiché “Ciro” ha subito un incontro troppo ravvicinato con una pietra che ha sfondato il carter del propulsore con repentina fuoriuscita dell’indispensabile lubrificante.

Rimane comunque affascinante anche se il “trucco” non è da gran sera. L’aria così vissuta è una specie di garanzia sul fatto che questa moto è proprio quella che ha gareggiato ai Faraoni. Questa stessa YZE la ritroveremo solamente più bella, senza ammaccature e graffi, alla partenza della Paris-Le Cap. II terreno di prova è lo stesso che abbiamo utilizzato per la Cagiva Elefant. Immediato il confronto dove emergono analogie come la facilità di guida, la stabilità sulle piste veloci, e freni potenti e ancora modulabili. La moto di Varese è superiore nel motore, nella sua erogazione della potenza, nel tiro corposo sin dai bassi regimi.

In quanto al valore massimo della potenza probabilmente sono vicinissime e solo la Yamaha appare più rabbiosa, più grintosa dai medi regimi sino al massimo dell’utilizzo del motore. Sul piano delle prestazioni la Yamaha ha quindi avvicinato sensibilmente la Cagiva diminuendo moltissimo il divario di potenza che costituiva la maggiore differenza con la Elefant. Anche la distribuzione dei pesi appare ora più favorevole e la moto ha guadagnato in maneggevolezza. La mole non spaventa più di tanto e l’assetto in sella consente di controllare al meglio la moto. Inoltre la nuova sella è una vera poltrona tanto soffice ed abbondante nelle dimensioni senza comunque essere d’impaccio nella zona centrale.

Ovviamente la YZE non è una leggera enduro a due tempi ma è abbastanza facile da condurre grazie a delle sospensioni ben tarate. Specialmente quella posteriore riesce sempre a copiare con rigore le asperità mentre la forcella Kayaba è troppo rigida e trasmette parte delle sollecitazioni alle braccia. Del motore abbiamo accennato la giusta erogazione e la sensibile potenza che dovrebbe aggirarsi intorno agli 80 cavalli ad un regime superiore agli 8000 giri. Sono quasi dieci in più del motore della TDM da cui strettamente deriva ma sembrano molti di più per la vivacità del carattere di questo motore. La differenza a favore della YZE deriva principalmente dalla possibilità di avere uno scarico pratica-mente “libero” e dalla specifica taratura dei carburatori, dalla cassetta del filtro completamente diversa e da una accensione modificata.

Dati tecnici

Motore bicilindrico quattro tempi frontemarcia ed inclinato in avanti di 45 gradi.
Distribuzione bialbero comandata da catena e cinque valvole per cilindro.
Doppio contralbero di equilibratura comandato da ingranaggi.
Alesaggio x corsa 89,5 x 67,5 mm, cilindrata 849 cc.
Avviamento elettrico, accensione elettronica digitale con anticipo elettronico.
Raffreddamento a liquido con pompa centrifuga comandata da ingranaggi.
Due carburatori Mikuni a depressione da 38 mm di diametro.
Lubrificazione a carter secco con l’olio contenuto nel telaio.
Frizione a dischi multipli in bagno d’olio, cambio a cinque rapporti, trasmissione primaria ad ingranaggi a denti diritti.
Ciclistica: telaio monotrave in tubi di sezione quadra ed elementi di lamiera scatolata.
Motore usato come elemento portante.
Forcella teleidraulica Kayaba a steli rovesciati da 43 mm.
Freni a disco flottanti in acciaio al carbonio da 290 mm di diametro ant. e 230 mm post.
Pinze flottanti a doppio pistoncino ant. e post.
Pneumatici Michelin da 90/ 90-21 ant. e 140/90-18 post. capacità totale serbatoi 60 litri.
Peso a secco dichiarato 180 kg.
Dimensioni in mm: lunghezza massima 2440, interasse 1580, altezza sella 965, larghezza massima 890.

Fonte MOTOCICLISMO febbraio

L’8 febbraio 2005 venne a mancare Gaston Rahier. Un Campione piccolo di statura ma grande nel talento e nei numeri. ‘Le petit Gaston’ era un pilota polivalente, in grado di trionfare nelle più rinomate competizioni legate al fuoristrada. Dal 1975 al 1977 ottenne il tris iridato nel Mondiale Cross 125 dominando, in lungo e in largo, in sella alla Suzuki.

Nel 1978 perse il Titolo in favore del giapponese Akira Watanabe. L’anno seguente approdò in Yamaha, ma non riuscì a fare meglio del terzo posto finale. Il 1980 lo vide accasarsi alla Gilera. Nella stagione d’esordio con la Casa italiana, appose la sua ultima firma in un Gp. Sul tracciato jugoslavo di Trzic ottenne, infatti, il successo assoluto grazie a un secondo e un primo posto. Si fermò così a 29 successi nella ottavo di litro, un record che resisterà fino all’ultimo anno di esistenza della classe minore, prima dell’avvento delle nuove categorie.

Rahier 1984-2

Nel 1982 tornò in Suzuki, ma fu anche l’anno che sancì il suo addio al Motocross. Un serio infortunio alla mano riportato durante il Mondiale 250 non decretò, comunque, la fine della sua carriera sportiva, perché da lì a poco intraprese l’avventura alla Parigi-Dakar. In sella alla BMW, nel biennio 1984-1985 il fiammingo centrò il bersaglio grosso, entrando una volta di più nella leggenda. Ma Gaston non si sentì sazio a sufficienza. A quel punto mise nel mirino il Rally dei Faraoni.

Anche in quell’occasione tornò in patria vittorioso, aggiudicandosi l’edizione 1988. Un nuovo incredibile traguardo che arricchì ulteriormente il suo palmares, già vasto come pochi altri. Fra i vari Titoli, non vanno dimenticati i successi che colse con il Team belga al Motocross delle Nazioni 1976 e al Trofeo delle Nazioni in ben quattro edizioni. La passione per le due ruote artigliate lo accompagnò fino all’ultimo giorno della sua esistenza.

Diciassette anni fa Gaston Rahier se n’è andato sconfitto da un cancro, a 58 anni, lasciando un vuoto che persiste con intensità ancora oggi. Molti appassionati continuano a ricordarlo, per tenere viva la memoria di un uomo che dedicò la sua esistenza al fuoristrada, segnando per sempre questo mondo.