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Dakar 1996 | Il richiamo alla Dakar di Winkler

Erano 4 anni che non facevo più la Dakar, mi mancava, finalmente riesco a organizzarmi meglio e sistemare gli impegni lavorativi. Nel 1991 Nikon ha deciso di assegnare la distribuzione al nostro gruppo, e si e dovuto fare una nuova società la Nital sulle orme della Swa, sono stati anni di fuoco dove ovviamente non si e potuto fare altro che mettere tutto l’impegno in questo progetto. Ma mi mancava qualcosa. Mi mancava l’adrenalina dell’avventura della Dakar. Dopo 4 anni praticamente di solo lavoro me lo sono meritato, e quindi decido: vado a farla.

Mi metto in contatto con Bruno Birbes e Pollini del team Assomoto con i quali avevo partecipato l’ultima volta. Oltre a provare sentimenti di forte amicizia per loro, con Bruno ci siamo conosciuti alla Dakar 1988, lui correva con una BMW e praticamente siamo stati insieme per metà gara, dividendo ansie e felicita, cosa che ci ha legati profondamente anche dopo la gara. Il loro team era perfetto: un’assistenza, una logistica, e Fatichi, il suocero di Bruno, grande meccanico che si e messo subito in opera allestendo per me un Kawasaki 650. La scelta della moto era facilmente dettata dal fatto che Bruno era concessionario Kawasaki.

Libero da impegni organizzativi e di preparazione della moto mi dedico all’allenamento fisico e in moto, facendo una grande preparazione. A dicembre ero in splendida forma!

La moto non la provo nemmeno, ma devo dire che era bellissima: semplice, piccola e maneggevole.

Prendo l’aereo per Granada dove mi aspettano tutti e dove si devono fare le verifiche tecniche e amministrative. Piccolo inciso: il taxi che dall’aeroporto mi portava all’albergo buca una gomma, sotto una pioggia torrenziale e da vero gentleman mi offro di aiutare l’autista donna. Inizio bagnato, inizio fortunato. Al mattino si parte per due prove, la prima viene subito annullata per il maltempo. La pioggia torrenziale della sera prima non accennava a calare neanche per un momento. Nemmeno il tempo per prendere confidenza con la nuova moto che e diventata un blocco di fango.

 

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Dopo un trasferimento arriviamo al porto per l’imbarco. Tutto procede bene, ci sono le cuccette e si dorme. Fattore non secondario, visto che in passato si dormiva per terra e non c’erano le cuccette per la traversata in naveda Sete ad Algeri. Che comodità! Prima coricarmi prendo l’Ariam, il medicinale per la malaria. Questa volta decido per questo farmaco perché si assume una volta alla settimana, e non tutti i giorni. Chiaramente il dosaggio è maggiore e mi viene un mal di testa terribile e una nausea spaventosa. Al risveglio sembra di essere passato sotto un camion. Sarà l’ultima volta che prenderò un antimalarico.

Finalmente in Africa, è sempre un’emozione sbarcare in questo continente pieno di fascino e avventura.

Partiamo per la speciale, ed è importante prendere confidenza con la moto nelle prime tappe. E’ una speciale molto tecnica tra le montagne, non sono in forma e mi stanco tantissimo, sicuramente mi porto ancora addosso l’effetto dell’antimalaria misto alla tensione. Non comincio troppo bene perché tutti e due i trip si guastano, scopro che è l’attacco della calamita sulla ruota. Poco male tanto non c’era navigazione. A metà speciale sono senza freno posteriore. Probabilmente non ancora abituato alla moto, ho tenuto il piede troppo appoggiato sul pedale e visto il ripetersi di molte curve è entrato in ebollizione l’olio.

Questa è la mia prima esperienza con il GPS. A parte la necessità di capirlo bene, da sicurezza, ti dice la direzione giusta ed è molto rassicurante. Senza l’ansia che ti assale quando non sei certo della rottura giusta, (prima te lo dicevano le tracce degli altri piloti). Però mi pento subito, seguendo le tracce ovviamente dritte per il waypoint, tutti seguono la via diretta, ma mi trovo nel bel mezzo di una salita degna di un mondiale di trial. Mi sono sempre chiesto dove portassero quelle tracce.

 

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Il GPS si ti dà la direzione, ma usandolo per strada e una cosa,  usandolo nel deserto ti porta in direzioni che ti portano ad incontrare difficoltà estreme. Continuano ad esserci delle tracce segnate da altre moto, ma questa volta decido di tornare indietro e seguire alla lettera il roadbook. I bei vecchi metodi di navigazione sono una sicurezza, seguendo le indicazioni trovo una pista bella e facile. Purtroppo la sera controllando la classifica mi accorgo che sono molto indietro e con davanti a me molti piloti molto piacere lenti. Mannaggia a me che ho seguito il road book. Imparando ad usare questo infernale GPS molti piloti hanno avuto agevolazioni sulla navigazione sopravanzandomi in classifica. Comincio un pò a maledire queste nuove diavolerie.

Il giorno dopo parto per la tappa. Mi sento bene, tiro parecchio e tutto procede bene, rimonto molte posizioni.

Ad un certo punto la pista ha una strozzatura, si stringe, si rallenta leggermente, raggiungo un altro pilota ma c’è tantissima polvere e non c’è modo di superarlo. Gli sto dietro per parecchio tempo, ma mi spazientisco e rischio il tutto per tutto, voglio passarlo a tutti i costo, ma della polvere prendo un grosso pietrone. A momenti mi cappotto ma sto in piedi per miracolo, mi vengono le formiche ai piedi per lo spavento.  Mi fermo per fare un check dei danni, vedo che il cerchione anteriore è tutto bollato e storto. Do una tirata ai raggi e con la coda tra le gambe finisco la speciale piano piano. Arrivo al bivacco e solo qui mi rammentano che la tappa era “marathon” ossia senza assistenza. Non posso sostituire il cerchione e mi trovo costretto a partire il giorno successivo nelle stesse condizioni in cui sono arrivato.

Si entra in Mauritania, conoscevo quelle piste, le avevo già percorse nelle precedenti edizioni, ma causa dei disordini nella zona a causa del fronte belisario si corre in una specie di corridoio transennato da balize, dove l’organizzazione si è fortemente raccomandata di non uscire per non incorrere nel rischio di entrare in un campo minato. 

Ai bordi della pista ci sono molte camionette dell’ONU.

La tappa è molto lunga e impegnativa con tante dune difficili, incomincia a calare il sole. In passato ho fatto parecchie tappe di notte e ne sono terrorizzato, tiro più che posso, ad un certo punto il GPS perde il segnale, seguo le tracce fin che posso e poi seguo semplicemente la stessa direzione. Che ansia. Maledico continuamente il GPS, che finalmente riprende il segnale e mi segnala che sono a soli 3 km dall’arrivo.

 

 

La mattina dopo mi aspetta una tappa dura. Si deve attraversare un erg di dune molto lungo, mi insabbio parecchie volte e consumo tantissima benzina. Faccio due calcoli, e i risultati mi dicono che non arriverò mai alla fine. Vado piano per non consumare e per fortuna la pista diventa più scorrevole e arrivo con un goccio solo di benzina nel serbatoio. La gara comincia a farsi davvero dura. Parto per una tappa difficilissima, praticamente un pianoro enorme di pietre grosse che mi mettono a dura prova. Mi stanco moltissimo, non puoi mai procedere seduto per riposare le gambe. Procedo in piedi sulla moto, sono cosi stanco che a volte mi siedo andando a passo duomo, arrivo col buio.

 

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Il giorno dopo la tappa prevedeva di percorrere la pista in senso contrario del giorno precedente. Le tracce sono ancora evidenti e senza nessun problema di navigazione tiro come un matto, raggiungo parecchi piloti. Tutto andava da favola, ero veramente messo bene in classifica, un solo piccolo inconveniente deriva dal GPS che segnava la rotta leggermente verso sinistra. Preso dalla bagarre e confortato dal fatto che parecchi altri piloti stavano procedendo in quella direzione, si va avanti. Che errore da principiante. Ci accorgiamo dopo diversi chilometri che non seguendo il GPS ci eravamo allontanati dalla pista. Cosi torniamo indietro fino a Zouerat. Siamo in sette, facciamo il punto, la pista si biforcava a V, e noi abbiamo seguito le tracce del giorno precedente. Uno decide di tagliare dritto, lo seguono in quattro, io e un altro decidiamo di tornare indietro, io del GPS non mi fido. Non più. Torniamo al famoso bivio, ci rendiamo conto che con i km fatti in più non saremmo mai arrivati al rifornimento di benzina.

 

 

Arrivano pero le macchine, e mannaggia a loro se ne fermasse solo una. Finalmente due giapponesi si fermano, gli chiediamo della benzina, ma è veramente difficile tirarla fuori dal serbatoio e perdiamo tantissimo tempo. Riparto sulla strada giusta, quanto tempo ho perso, mi metto a tirare più che posso, sapendo che ogni km fatto in più con la luce sono ore in meno regalato al buio. Viaggiare di notte è veramente una cosa brutta non si vede nulla, la pista è rovinata dal passaggio di tutto il rally ed e facilissimo cadere. Inoltre le dune, già difficili di giorno, di notte non ti perdonano e ti insabbi così tante volte non avendo il riferimento della fine della duna. Sono profondamente arrabbiato con me stesso per un errore cosi stupido.

Faccio parecchi km con Alberto Morelli forse e lì ci conosciamo meglio gettando le basi per una profonda amicizia e correremo insieme tanti rally futuri. Ovviamente arriva la notte, di conseguenza cado parecchie volte, per fortuna ci sono poche dune ma tantissima erba a cammello,(sono delle montagnette di sabbia dura con sopra dei ciuffi di erba the devi zigzagare, me se ne prendi una il volo è inevitabile). Arrivo all’una e naturalmente come una buona legge di Murphy scopro che è una tappa Marathon. Pulisco il filtro e controllo l’olio, ero a secco, me lo faccio prestare e crollo in braccio a Morfeo.

Per la cronaca, i 5 motociclisti che tagliarono dritto non sono arrivati e si sono ritirati tutti.

Al mattino si riparte, la moto si avvia in una nuvola di fumo. La sera prima al buio avevo messo troppo olio, ne tolgo un po’ e riparto. Il percorso è veramente duro, sabbia molle alternati con pietroni grossi. Si fa il pass di Nega (un posto infernale, lo avevo già fatto al contrario in salita, una pendenza infernale ed è rimasto famoso perché le auto si son quasi fermate tutte tanto era ripido). Ma in discesa la musica è cambiata.

 

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A 30 km dall’arrivo di tappa prendo una buca abbastanza forte, nulla di speciale ma sento un rumore metallico. Rallento per vedere cosa sia successo: niente freno. Mi fermo e guardo meglio, vedo il tubo dell’olio tranciato di netto e il forcellone dalla parte destra si è staccato di netto dall’attacco girandosi all’indietro.

Piano piano riparto e arrivo.

Birbes mio amico e compagno di tante avventure mi accoglie all’arrivo, ero disperato per il mio forcellone. Decidiamo di andare nel paese vicino per vedere se per caso c’era un meccanico. Troviamo un “saldor” come li chiamano da quelle parti. Questo prende subito il cannello, Lo blocco! E’ alluminio, non puoi saldarlo cosi! Bruno cerca di ingegniarsi, vede una sedia e si accorge che le gambe sono perfette per risolvere il problema, si incastrano perfettamente dentro al forcellone, avendo forma rettangolare e le infiliamo dentro e poi ce ne torniamo al bivacco. Tutta la notte aspettiamo i camion assistenza, ci vuole assolutamente il una saldatrice al tig per l’alluminio.

Arriva il camion Honda France, loro hanno il tig ma la proverbiale simpatia transalpina non si smentisce mai, nonostante la nostra insistenza non ci prestano la saldatrice. Alle tre del mattino arriva la Yamaha e loro sì che sono gentili e mi promettono che ci daranno una mano. Io però ero stanchissimo e vado a dormire, Bruno mi rassicura ci penserà lui ad effettuare la riparazione. Effettivamente al mattino trovo il forcellone saldato e con un fazzoletto di alluminio che chiudeva la parte rotta.

Saluto Bruno, che era aviotrasportato, parto e ad un ritmo di tutta sicurezza arrivo a Kaies.

Anche questa era una tappa Marathon quindi le moto si portano al parco chiuso ed è vietato toccarle. Mentre vado a farmi timbrare il passaporto perché siamo entrati in Mali, vedo passare un camion scopa e vedo che su ha una moto verde. La guardo meglio ed è una KLR come la mia! Mi viene l’idea di cambiare il forcellone, lo smonto tutto felice sapendo che forse cosi avrei potuto finire la gara, e mi preparo per la sostituzione, ma mi beccano subito. I commissari mi cacciano a male parole, decido di mangiare un po’ al buio e aspetto che si allontanino per ritentare più tardi.

 

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Non sono un bravo meccanico ma con pazienza e con logica si fa tutto, solo che ci metto tanto tempo a fare le cose. Anche perché al buio e molto difficile e non si vede nulla, ma ovviamente non potevo accendere la pila altrimenti i commissari mi avrebbero scoperto. Riesco a montarlo, ero stanchissimo ma non riesco a montare la pinza del freno e mi accorgo che era diversa e diversi erano gli attacchi. Ritorno alla moto ritirata e prendo anche la pinza, il tutto facendo un giro lunghissimo per non farmi vedere. Riesco a montarla resta solo di montare la ruota, tocca al perno e scopro che anche lui era diverso rispetto alla mia. Mi accorgo che la mia moto era dell’anno precedente, mentre quella ritirata era dell’ultimo anno e chissà perché Kawasaki aveva cambiato così tanti particolari. Ero stanchissimo e probabilmente mi è venuta una crisi di nervi, mi sono messo a piangere come un bambino.

 

 

Vengo scoperto dal commissario e probabilmente vedendomi in quelle condizioni ha provato pena per me, e intenerendosi mi ha aiutato a finire il lavoro che non sarei più stato in grado di finire. Cominciano a vedersi le prime luci dell’alba. Appena finito l’ho abbracciato e baciato per dimostragli la mia gratitudine. Una veloce colazione e si riparte, stanco ma felice di essere sulla mia moto perfetta come nuova.
(NB: a Dakar ho poi risostituito il pezzo con il mio rotto, ho scoperto che la moto ritirata era di un italiano e ora il Kawasaki è nel mio garage tra le moto a cui tengo di più e dentro al forcellone ci sono sempre le gambe della sedia.

Avevo già fatto questa speciale e me la ricordavo come una tappa lunghissima e difficilissima. Il paesaggio è cambiato e corriamo all’interno di una foresta, dopo tanta sabbia fa piacere vedere un po’ di verde. Si vedono animali, molte scimmie. Si deve anche guadare un corso d’acqua profondissimo, Auriol mi aiuta e spinge la moto che si era spenta. Lungo la sponda del fiume c’era una ecatombe di moto, tutte con problemi, filtri intasati, marmitte piene d’acqua. Per una volta ho la fortuna dalla mia parte, il kawa riparte quasi subito, dopo aver asciugato il filtro.

 

 

Si attraversano tanti paesini, la gente si vede ai bordi, sorridono tutti, esprimono gioia nel vederti. Che contrasto con la grande città, qui siamo praticamente blindati nel campo. L’indomani parto per una tappa di montagna, la stanchezza accumulata era tantissima, ma si comincia a sentire un certo profumo di arrivo. Arrivo in un punto di fesh fesh (sabbia borotalco che non vedi il terreno). Cado. La pista era stretta, sopraggiunge un’auto, era sicuramente tra le prime in classifica (ma nel trambusto riesco ad identificarla). Si ferma e si mette a suonare come un pazzo, affinché liberassi il passaggio. Cerco di fare il più in fretta possibile, ma ero davvero stanco, stanchissimo. Rialzo la moto, che non parte, e per premura la spingo a lato. 

Il pilota dell’auto, spazientito mi spinge e mi butta a terra al lato della strada. La sua fortuna è stata che sia riuscito a passare velocemente. Ero talmente arrabbiato che gli ho detto tante di quelle parolacce e maledizioni da vergognarmi. Nella caduta si è rotto il faro e il serbatoio dell’acqua del radiatore di recupero. A fatica ritorno in pista in un punto molto ripido. Quel pilota è stato fortunato, perché se lo avessi riconosciuto al al bivacco non so cosa avrei fatto.

 

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L’ultimo giorno ci sono due speciali da percorrere e tanta tensione. L’obiettivo è arrivare. La moto è allo stremo, non ce la fa più. Nell’ultima speciale che porta al Lago Rosa c’è una sabbia mollissima, e sentire urlare il motore agonizzante mi stringe il cuore. Sale l’ansia. Ho in mente il povero Angelo Cavandoli che ruppe la moto a 3 km dall’arrivo.

 

 

L’arrivo è una liberazione! Arrivato! Stava diventando un’ossessione, gareggiare 20 giorni con questo unico scopo riempie di gioia ma al tempo stesso si avverte anche un vuoto interiore. Per me il post Dakar è una situazione da metabolizzare. Si deve recuperare una stanchezza micidiale che rimane per un po’ di tempo, ma mi viene anche un po’ di crisi esistenziale. La Dakar da. La Dakar toglie. Tutte le volte.

 

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Questa Dakar 1996 è un premio, mi ha dato tanto e si è presa tanto, senza al Team Assomoto e a Bruno Birbes non ce l’avrei mai fatta.  Ho anche ho conosciuto una persona meravigliosa, grazie Alberto.

Fonte foto e testi: pagina facebook di Aldo Winkler

Dakar 1994 | Il KLX-R di Alvaro Bultó e Xavi Riba

Nel 1994 la Dakar cambiò proprietà e l’evento divenne proprietà del gruppo ASO, che tra l’altro aveva e continua ad avere eventi sportivi come la stessa Dakar o il Tour de France.
Il percorso è stato un esperimento che non ha funzionato da quando la gara ha lasciato Parigi per raggiungere Dakar e poi tornare a Parigi. Ovvero una Parigi-Dakar-Parigi con 13.379 chilometri di percorso a cui si sono iscritte 96 motociclette.

 

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Tra questi la Kawasaki dell’indimenticabile Alvaro Bultó, zio simpatico e sportivo che ha fatto il suo debutto alla Dakar dopo aver attraversato varie modalità e il ignifugo Xavi Riba. Riba ha fatto molta esperienza nel test dato che vi aveva partecipato sei volte prima di fare il suo debutto in Kawasaki.

Figlio del fondatore della Bultaco FX Bultó e all’inizio un pilota di motocross, Alvaro è stato il miglior debuttante allaIMG_7156-e1548414682787-225x300 Dakar di quel lontano 1994. L’affascinante Bultó che divenne famoso tra le altre storie per i suoi programmi su TVE, era un regolare nei rally in asfalto, una specialità che è scomparsa e dove è arrivato secondo in Spagna con il fratello Ignacio.

Si è distinto anche come velocista e pilota di Supermotard, prima di abbandonare la competizione motociclistica dopo la Dakar (è tornato in macchina) e concentrarsi su altre sfide come il volo o la caduta libera. Nel 2005 con la sua tuta alare inizia a volare alto: attraversando lo Stretto di Gibilterra in caduta libera e una velocità media orizzontale … 208 Km h!

Purtroppo ha subito un incidente che gli è costato la vita nell’agosto 2013.
Quando nel 1994 Alvaro Bultó e Xavi Riba andarono alla Dakar con la loro Kawasaki, il marchio fu importato da Derbi Nacional Motor, che diede loro due KLX 650-R che erano completamente preparati per la grande avventura africana. La Kawasaki KLX 650 in versione R produceva 48 CV di potenza a 6.500 giri ed era dotata di un singolo cilindro con doppio albero a camme e raffreddamento a liquido.

Il telaio era un doppio raggio perimetrale in cromo molibdeno ereditato dalla versione da motocross a cui dovettero Kawasaki_1994_2essere apportate alcune modifiche poiché il motore della KLX era più alto. Le sospensioni sono state preparate da Felipe Higuera, che è stato uno dei migliori specialisti del nostro Paese e, mantenendo la forcella Kayaba di serie, molle e olio sono stati modificati preservando i 300 mm. viaggio.

Dietro è stato montato un ammortizzatore Ohlins (280 mm). La sezione più laboriosa è stata il montaggio dei serbatoi di carburante supplementari. Due sono stati posizionati nella parte anteriore, cercando di posizionare il peso il più vicino possibile al centro di gravità per ottenere la maneggevolezza. Due serbatoi laterali sono stati posizionati anche nella parte posteriore. Presentava un’impressionante piastra paramotore in Kevlar e non mancava una via di fuga dall’indimenticabile Tavi.

La gara è stata un’odissea per entrambi i piloti, soprattutto per Alvaro Bultó, che ha mostrato grande orgoglio e IMG_7154spirito di sacrificio al traguardo nonostante abbia subito un doloroso infortunio alla mano, risultato di un incidente in moto d’acqua.

Entrambi hanno finito. Riba 10 ° e Bultó 11 ° dopo aver fatto tutta la gara insieme e aver dimostrato come altri piloti nella storia della Dakar, che con una Kawasaki praticamente standard, il sogno di finire la gara più dura del mondo potrebbe essere realizzato.

L’italiano Maletti ha ripetuto la sua esperienza in questo caso su una KLX nel 1998 concludendo 24° nell’edizione Parigi-Granada-Dakar. Un’edizione in cui il pilota “Xicu” Ferrer non ha concluso la gara in quanto ha dovuto abbandonare la sua Kawasaki nella tappa Smara-Zouerat.

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E negli ultimi tempi con la Dakar in Sud America altri piloti hanno realizzato il loro sogno ai comandi di una Kawasaki, tra cui spicca il cileno Patricio Carrera.
 
testo: Alex Medina
fonte: http://kawasakimotos.es/

Advertising Kawasaki 1994

Walter Surini al traguardo di Città del Capo nel 1992

Due volte al via e due volte al traguardo, nel ’91 a Dakar, 36esimo, a Città del Capo, 20esimo. Walter Surini ha nuovamente dimostrato di avere le capacità ed il temperamento per ben districarsi nella massacrante maratona africana. Difendendo i colori della Kawasaki IP Italy  ripagò la fiducia accordatagli portando la 500 Kle bicilindrica quattro tempi da un capo all’altro del Continente nero sfiorando il successo nella categoria 500 (è stato a lungo in testa alla graduatoria provvisoria) e centrando quella della 500 international, riservata ai piloti con buoni risultati nei rally internazionali.

Il pilota di Rogno portò a termine anche la sua seconda avventura nella Dakar piazzandosi ventesimo assoluto su Kawasaki – il salto di un timbro per una nota errata del road-book gli costò una penalizzazione di dodici ore.

Grande soddisfazione all'arrivo. Maletti risulterà vincitore della cat. fino a 500 cc.

Grande soddisfazione di Surini con il compagno di team Maletti all’arrivo.

– E’ stato più emozionante raggiungere Dakar l’anno scorso oppure Città del Capo quest’anno?
“Sono state entrambe sensazioni bellissime. A Dakar si trattava della prima volta, era la fine di un’avventura tutta da scoprire, a Città del Capo mi ha colpito l’accoglienza che ci hanno tributato, l’entusiasmo degli spettatori. Se devo proprio scegliere è stato più bello l’arrivo ’92 perché la gara è stata più difficile, più faticosa e stressante. Non è vero, come si è detto e scritto, che nella seconda parte la corsa sia stata una passeggiata. Si, non ci sono più stati colpi di scena ai vertici delle classifiche ma abbiamo attraversato percorsi insidiosi e molto difficili, non è stata una vacanza, lo posso assicurare. Chi ha affermato il contrario o si è ritirato a metà oppure ha effettuato i trasferimenti in aereo.”

– Che sia stata comunque deludente non si può però negare. Se facesse parte dell’organizzazione che modifiche apporterebbe?
“Continuerei a puntare sul completo attraversamento dell’Africa ma effettuerei la gara al contrario, da sud a nord, da Città del Capo a Tripoli. Pensa, all’inizio tappe con brevi distacchi tanto per creare il clima giusto e poi, nel deserto, la grande selezione finale. Certo ci sarebbero inconvenienti anche in questo caso, per esempio il trasporto dei mezzi in Sudafrica condizionerebbe i tempi di effettuazione, ma dal punto di vista prettamente agonistico si proporrebbe una competizione sicuramente più interessante ed incerta sino all’ultimo.”

Surini.Dakar

Walter Surini sulla Kawasaki KLE 500 del Team IP Italy

– Da trentaseiesimo a ventesimo è stato un bel passo avanti. Merito della maggiore esperienza o anche di cos’altro?
“Innanzitutto poteva andare anche molto meglio, senza il salto di timbro nelle battute conclusive e la conseguente pesante penalizzazione avrei potuto guadagnare anche cinque posizioni. Certo l’esperienza ha giocato un ruolo non indifferente ma determinante è stata l’affidabilità della mia Kawasaki, una moto talvolta non adeguatamente potente, con un assetto non specifico ma davvero affidabile. Rispetto a dodici mesi prima ho tribolato molto meno, non ha avuto rotture gravi anche se per qualche giorno ho corso senza la quinta marcia, ho potuto raggiungere i bivacchi in tempi ragionevoli e quindi ripresentarmi molto pi` riposato e lucido al via della frazione successiva. E tutto questo nonostante la nostra organizzazione abbia dovuto fare a meno molto presto del camion d’assistenza costringendoci a limitare le sostituzioni dei pezzi usurati e spesso ad elemosinare qualche copertone o altri pezzi di ricambio.”

– Ma esattamente cosa è successo quel giorno che ha saltato il controllo a timbro?
“Quella è stata una tappa micidiale, davvero molto impegnativa, e l’inconveniente capitato a me è successo anche a parecchi altri piloti. Certo io sono arrivato in ritardo di qualche minuto al briefing mattutino ma quello che mi ha indotto all’errore è stata una nota inesatta del road-book. Mi ha fatto imboccare una pista parallela a quella giusta, in mezzo alla vegetazione, e non ho potuto accorgermi del timbro, che magari era vicinissimo a dove sono transitato. Sono stato penalizzato con dodici ore, l’inconveniente mi è costato davvero caro.

– Ai suoi livelli si riesce a pareggiare le spese o addirittura partecipare a questa gara comporta sacrifici economici?
“Stavolta ho pareggiato i conti ma obiettivamente dopo una tale faticaccia, aver trascorso un mese tra polvere e sudore, aver macinato migliaia di chilometri non mi sembra di dire un’eresia se affermo che qualcosa in tasca dovrebbe anche rimanere. D’altronde noi piloti siamo così, la passione troppo spesso ci fa fare cose irrazionali.”

– Adesso nel suo futuro cosa c’è?
“Alla fine di febbraio conto di conseguire il brevetto commerciale come pilota d’elicotteri mentre come pilota aspetto che la Kawasaki definisca i suoi prossimi programmi. Certamente conto di partecipare a qualche rally importante.”
di Danilo Sechi
http://www.motowinners.it/spazio%20interviste/Surini%20Dakar%201992.htm

Team Kawasaki IP alla Dakar 1992

Era la prima volta che la Kawasaki 500 KLE , presentata alla fine del ’90 al Salone di Colonia, veniva schierata al via del più importante rally africano. Dunque non mancavano le incognite, ma la Kawasaki-Italia aveva lavorato con cura cercando di prepararsi al meglio all’impegnativa maratona, anche se la decisione di gareggiare nella categoria marathon aveva imposto di restare il più vicino possibile al modello di serie. Le due KLE di Surini e Maletti avevano conservato il loro motore standard, un bicilindrico parallelo a quattro tempi di 499 cm3, con distribuzione a doppio albero a camme in testa e quattro valvole per cilindro, misure caratteristiche 74 x 58 mm e cambio a 6 marce.

Sulla ciclistica invece era stato possibile lavorare, perché nonostante il vincolo del telaio di serie, doppi culla in acciaio, il regolamento permetteva di intervenire sulle sospensioni, a patto di mantenere i leveraggi originali della posteriore e foderi e steli di serie per la forcella. Totalmente nuove invece le parti della carrozzeria, con un grande serbatoio anteriore e due piccoli posteriormente, per una capacità totale di 54 litri di benzina. Per la gestione delle moto il team Kawasaki-IP che aveva come sponsor principale l’Italiana Petroli, si era affidato al Team Assomoto: la squadra di Bruno Birbes era una delle più organizzate a livello nazionale, ed aveva una percentuale di piloti portati al traguardo nella Dakar del 79%.

Come mezzi d’assistenza ci si era affidati ad un camion Liaz 154-111 ed un’auto Range Rover 3900. Particolare curioso, l’auto per l’assistenza veloce era guidata da Davide Pollini, presidente e responsabile logistico e finanziario del team Assomoto, che aveva alle spalle un paio di Dakar in moto, ed una in auto nel 1991.

I PILOTI:

29 GUIDO MALETTI È stato uno dei primi italiani a dedicarsi ai grandi rally africani, e nell’87 riuscì ad ottenere un ottimo undicesimo posto nella Parigi-Dakar Reggiano, 33 anni, vanta numerose esperienze nell’enduro nazionale; fu pilota ufficiale Kawasaki-France nella Dakar ’90 mentre nell’edizione successiva non corse. Di nuovo in gara con la Kawasaki, punta soprattutto sulla regolarità e sulla capacità di sbagliare poco, quelle che sono le sue doti migliori.

30 WALTER SURINI Denti stretti e tanta fatica per portare a termine lo scorso anno la sua prima Dakar. Ma ce la fece, e questa volta ci riprovava come pilota ufficiale della Kawasaki-Italia. La sua esperienza rallistica però non si limitava alla classica africana: tra i suoi risultati di maggior prestigio una vittoria nell’Incas Rally ’88, quando riuscì da privato a battere diversi ufficiali, e buoni piazzamenti nuovamente in Perù ed in Sardegna, oltre al successo nel Rally della Repubblica Dominicana del ’91. Bergamasco trentunenne, pilota d’elicottero, aveva vinto diversi campionati nazionali di enduro, endurance e junior.

Ndr: entrambi i piloti si comportano egregiamente, terminando entrambi la competizione, dimostrando la serietà del Team e la bontà della moto portata in gara. Maletti e Surini conclusero rispettivamente 19° e 20° nell’assoluta (4°e 5° nella categoria Marathon vinta da Massimo Montebelli).

fonte: motosprint

 

Guido Maletti Dakar 1998

Guido Maletti di Dakar ne ha fatte 11, finendone 7, e da qualche anno corre con una Kawasaki KLX 650 strettamente di serie nella categoria Production. Sarebbe arrivato probabilmente nei primi dieci se, al  secondo giorno, non avesse preso una penalizzazione forfettaria di nove ore per il tempo perso a causa della rottura dell’accensione. Non si è dato per vinto e tappa dopo tappa è risalito fino alla ventiquattresima posizione.

«È stata molto dura, ma per me è comunque una bella soddisfazione essere arrivato a Dakar, considerando soprattutto come era iniziata. Una gara che mi continua ad affascinare e divertire, io sono un grande appassionato di Africa, di moto e dí meccanica. Ecco perché ogni anno sono qua e, se potrò, ci tornerò anche il prossimo».

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Fonte e foto Motosprint

Guido Maletti Dakar 1998

Guido Maletti 24° alla Parigi Granada Dakar 1998

 

La mia Dakar 1996 by Aldo Winkler

“L’ultimo giorno, due speciali, tanta tensione, l’obiettivo è arrivare. La moto poveretta non ce la fa più.

Nell’ultima speciale che porta al Lago Rosa c’è una sabbia mollissima, e sentire urlare il motore agonizzante della mia Kawasaki fa pena e ansia, mi viene sempre in mente il povero Cavandoli che ruppe la moto a 3 km dall’arrivo.

L’arrivo è una liberazione. Arrivato! Era ormai una ossessione, fare 20 giorni con questo solo scopo riempie di gioia, ma al tempo stesso si sente un vuoto interiore che manca qualcosa.
I sentimenti  dopo l’arrivo a Dakar sono contrastanti: si deve recuperare una stanchezza che rimane per un po’ di tempo e mi viene un po di crisi esistenziale.
Grazie anche al Team Assomoto, a Bruno Birbes, e grazie perchè in questa Dakar ho conosciuto una persona meravigliosa, Alberto.”

La mia Dakar 1987 by Batti Grassotti

Il Team G.R. Yashica alla Parigi Dakar del 1987 schiera due piloti, Aldo Winkler e Batti Grassotti i quali correranno rispettivamente con un’ Honda XL 600 ed una Kawasaki KLR 650, entrambe completamente di serie.

Il 31 dicembre la gara parte da Parigi. Il 4, 5 e 6 gennaio dopo il trasferimento in Africa, vengono effettuate le prime tre speciali: Ghardaia-El Golea, El Gholea – In Salah, In Salah Tamanrasset. Grassotti, con il KLR 650 si aggira sempre attorno al 36° – 37° posto. Durante la tappa Tamanrasset – Arlit, a Grassotti capita quasi un’avventura da esploratore nel deserto, sbagliando strada ai confini con il Niger.

Grassotti 1987

“Accortomi di essere su una strada sbagliata – racconta il torinese – ho cercato di ritornare indietro e ritrovare i giusti riferimenti. Ho così vagato sino a finire il carburante. Scese le tenebre, con il freddo che cominciava a farsi sentire, potevo sperare solo in un miracolo per essere ritrovato prima dell’indomani. All’improvviso sono sbucati due fari.

Erano quelli di un’auto guidata da due Tuareg che vista la mia situazione, mi hanno detto di aspettare. Sono ripartiti e con loro le mie speranze. Invece poco dopo sono ritornati con la benzina prelevata da un mezzo abbandonato da un altro concorrente ritirato. Riempito il serbatoio, mi hanno indicato una stella e mi hanno detto di seguirla sempre. Così ho fatto e sono arrivato ad Arlit giusto in tempo per vedere ripartire gli altri concorrenti.”-

Finisce quindi il 7 gennaio 1988, per arrivo oltre il tempo massimo,