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Dakar 1989 – L’indimenticabile Guinea

TAMRACOUNDA – Vista dall’alto la Guinea è uno smeraldo incastonato nel deserto. Per gli equipaggi dell’undicesima Parigi Dakar, però, è un inferno verde, solcato dalle rosse arterie che sono le infide piste di laterite, velocissime ma scivolose. Al suo terzo impatto con la giungla il rally più massacrante del mondo ha riscoperto che non è solo il Ténéré a far soffrire. La Guinea se la ricorderanno a lungo Clay Regazzoni, Claudio Terruzzi, ma anche lo spagnolo Prieto, ed i due buoni samaritani del team Assomoto Giuseppe Cannella e Davide Pollini.

Speciale disumana: in corsa per 24 ore nell’inferno verde

Sono stati questi ultimi, infatti a tirare fuori dalla sua Mercedes semidistrutta da un capottamento Clay infischiandosene di prendere penalizzazione forfettaria.
Eravamo circa al chilometro 270 della speciale – raccontano questi due ragazzi trentenni, di Brescia – quando su di una pista veloce a gobba d’asino, abbiamo visto una macchina a ruote per aria. Era in una pozza di benzina ed il navigatore che era già fuori, perdeva sangue da un braccio. Lo abbiamo riconosciuto subito: era Del Prete, Clay era ancora dentro e stava tentando di liberarsi. Incuranti che il tempo scorreva, Giuseppe e Davide hanno sistemato Regazzoni lontano dalla macchina, appoggiato ad un masso perché la sua carrozzella era andata distrutta, e medicato Del Prete.
Nessuno si è fermato a darci una mano – ricordano i due – uno ci ha buttato una bottiglia d’acqua dal finestrino.
É passata gente che non aveva problemi di classifica… non capiamo, quando si è in speciale tutti si sentono dei campioni.

Terruzzi Cagiva 1989-3

Si è fermato, invece, Claudio Terruzzi ed anche Klaus Seppi. Una storia della Dakar, un frammento che, insieme ad altri, ricostruisce una delle giornate più dure del rally.
É stata una speciale disumana – dice senza mezzi termini Terruzzi, arrivato al campo a notte inoltrata – prima di incontrare Regazzoni ne avevo viste di tutti i colori. Sono finito in un guado al chilometro 130 lo stavo facendo a piedi perché la mia Cagiva andava ad un cilindro. Improvvisamente, mentre ero con l’acqua alla vita. il motore ha ‘”preso” e sono scivolato sul fondo viscido. Ci ho messo un’ora a tirare fuori la moto dal guado, grazie all’aiuto di alcuni ragazzi che venivano da un villaggio vicino, e con loro mi sono messo a smontare la moto per tentare di farla ripartire.
Ci sono infine riuscito, ma un ritorno di fiamma ha dato fuoco al filtro dell’aria ed uno dei miei improvvisati aiutanti, impaurito, ha gettato una manciata di terra nei carburatori… per fortuna mentre ero impegnato a smontare tutto di nuovo e arrivato Savoldelli, la mia assistenza, con la macchina, che mi ha tirato fuori. Ero triste quando ha lasciato dietro dirne tutti quei ragazzi che si erano dati da fare per aiutarmi, ma non ci ho più pensato quando, nel buio mi sono trovato a dover fare la pista dietro alle auto.

Terruzzi Orioli

In un polverone che limitava la visibilità a pochi metri Terruzzi è caduto, ha centrato una vacca, e ripartito di nuovo tirando alla cieca, ma non ha potuto evitare la penalizzazione.
E dire – ricorda – che ero partito benissimo… davanti a me avevo solo due tracce. Dovevo essere terzo prima di cadere in quel maledetto guado… il road book era fatto da cani, per un pelo non ho rischiato la pelle nella secca curva a sinistra nella quale è poi caduto Magnaldi.

Savoldelli, che lo ha aiutato la sera è con lui al campo. Un altro tassello si inserisce nel rompicapo della speciale Bamako – Labè.
Ci siamo trovati tutti in un guado profondo, noi delle macchine – racconta l’assistenza veloce della Cagiva – in acqua c’era la Nissan di Prieto. Non riusciva ad uscire. Lui era alla guida, mentre il suo secondo si era tuffato per sistemare le slitte sotto le ruote. Andava e veniva, in quell’acqua limacciosa, quando d’improvviso l’ho sentito urlare. Li per li non ho capito, poi l’ho visto sorreggere Prieto, che era in acqua svenuto, per le ascelle. La marmitta sfiatava all’interno della carrozzeria e lui, respirando ossido di carbonio, si era addormentato, accasciandosi alla guida. Aveva avuto appena la forza di aprire la portiera prima di lasciarsi andare nell’acqua. Per fortuna che, in tutta quella confusione il navigatore se ne accorto.

regazzoni

É l’alba del giorno dopo quando, con una macchina dei medici, arriva Regazzoni al bivacco. Sporco, con la barba lunga, è quasi irriconoscibile, ma non stanco, né disfatto. Il giorno più lungo della Dakar si chiude nel suo racconto.
Non riesco a capire – dice scuotendo la testa – eravamo appena usciti dalla parte più dura della speciale quando in un rettilineo di terra rossa, la macchina si è messa traverso. L’ho controllata per un po’, ma poi mi è partita. Si è fermato dopo quattro giravolte con le ruote in aria. Sentivo puzza di benzina e Del Prete lamentarsi. Poi sono arrivati i due motociclisti italiani che mi hanno aiutato ad uscire.

Mentre Clay parla gente continua ad uscire dalla speciale. Sono i camion che non ce l’hanno fatta ad arrivare nella notte. Rivediamo il bivacco buio, privo della luce dei generatori, e quei pochi mezzi pesanti arrivati a far da punto d’appoggio per tutti. La speciale Barnako – Labè è durata esattamente 24 ore. Nessuno se l’aspettava cosi dura.

Foto di gruppo Dakar 1988

Italiani a Dakar, in piedi da sinistra Findanno, Birbes, Orioli, Terruzzi e Gualdi. In ginocchio Picco, Gualini e Winkler.

 

Honda NXR 750 Dakar 1988

Gli ottimi risultati conseguiti dai piloti italiani nelle maratone africane e in particolare nella Parigi-Dakar, cominciano ad avere il giusto riconoscimento da parte delle Case giapponesi. Per la prima volta quest’anno la Honda Italia potrà scendere in campo con le stesse moto affidate dalla Casa madre alla consorella francese.

Uno dei piloti di punta del team italiano, posto sotto la guida tecnica di Massimo Ormeni, sarà Andrea Balestrieri che sulla pista per Dakar condurrà la versione ’88 della NXR 750, vincitrice nel 1987 con Cyril Neveu della maratona africana. Lo stesso “Balestra” ci ha illustrato al Motor Show di Bologna l’arma con la quale tenterà di diventare il primo italiano vincitore della Parigi-Dakar. Balestrieri ha già provato la NXR 750 in Tunisia e ne è entusiasta.

«Rispetto alla monocilindrica che guidavo l’anno scorso, la NXR 750 è tutta un’altra cosa. E una moto particolarmente equilibrata, sfruttabilissima già ai bassi regimi di giri. Si può riprendere in quinta da 2000 giri senza che il motore denunci il minimo problema. La velocità di punta sui rettilinei sterrati è fantastica, oltre 190 km/ora, contro i 160 scarsi della monocilindrica. Nonostante sia più pesante e voluminosa, si manovra altrettanto bene e la posizione in sella è senz’altro più comoda e meno affaticante. Inoltre, rispetto alla monocilindrica il motore è meno “tirato”, a tutto vantaggio dell’affidabilità, elemento determinante nel-e maratone come la Parigi-Dakar. Gli unici problemi di tenuta possono sorgere nel misto stretto e sulle pietraie, dove peso e ingombri si fanno sentire, ma sulle immense distese di sabbia la superiorità delle bicilindriche non si può mettere in discussione.

Si tratterà piuttosto di riuscire a mantenere per oltre venti giorni il forsennato ritmo che moto come la NXR sono in grado di consentire».

«Sotto il profilo tecnico», prosegue Balestrieri «la versione ’88 della NXR 750 non ha subito sostanziali modifiche rispetto alla moto che ha vinto la Dakar lo scorso anno. Alla HRC (il reparto corse Honda) hanno lavorato soprattutto sui diagrammi della distribuzione per rendere l’erogazione della potenza fluida e costante a ogni regime. Sono state poi adottate numerose soluzioni in grado di semplificare il lavoro dei meccanici nelle operazioni di manutenzione.
Per esempio è stata ricavata sul cilindro un’ampia finestrella per il controllo della fase e la registrazione delle punterie.
In una gara come la Dakar è importante valutare ogni minimo particolare, a questo proposito un elemento che può apparire di scarsa importanza come la stampella laterale è stata invece frutto di un attento studio, non solo per quanto riguarda la ovvia robustezza del materiale, ma anche la forma e l’inclinazione necessarie per offrire il migliore ancoraggio sulla sabbia.

«Lo staff di Ormeni», spiega Balestrieri «ha ulteriormente migliorato quanto fatto in Giappone e si è preoccupato di fornire la motocicletta di tutti gli accessori necessari per affrontare una dura e imprevedibile maratona quale è la Parigi-Dakar.

Come si sa, uno dei problemi più difficili da risolvere è rappresentato dall’orientamento.
Ad aiutarmi quest’anno ho addirittura una bussola da elicottero e due sofisticati tripmaster elettronici. Le tappe della Dakar prevedono anche trasferimenti notturni e in condizioni di scarsa visibilità, indispensabile quindi un più che efficiente impianto di illuminazione. Il doppio gruppo ottico anteriore ha la potenza di un faro alogeno da vettura da gran turismo tanto che abbiamo avuto problemi per trovare una griglia di protezione in grado di sopportare il notevolissimo calore sviluppato.
Potente anche il fanale posteriore che per ragioni di sicurezza è doppio La capienza del serbatoio è rimasta di 55 litri (di cui 20 in un secondo serbatoio ricavato nel retrotreno e 17,5 ripartiti nei due alloggi laterali). La moto pesa a vuoto 180 chili, ma a pieno carico supera i 230, meglio non pensare cosa può succedere se cade per terra!»

Fonte Tuttomoto

Special tks Enrico Bondi

Advertising Nolan 1988

Pagina pubblicitaria casco Nolan N43 indossato da Edi Orioli e Claudio Terruzzi alla Dakar 1988

Claudio Terruzzi – Dakar 1989

Velocissimo, nonostante le due speciali vinte, la classifica della Dakar 1989 per Claudio Terruzzi langue: per lui solo un 22° posto nell’assoluta…

Claudio Terruzzi, per gli amici “il Teruz”

Claudio Terruzzi meglio conosciuto come “’Il Teruz”; ha vissuto la Dakar da pilota ufficiale sempre a gas spalancato in sella a Honda e Cagiva, vincendo diverse tappe e rischiando addirittura di vincere l’edizione del 1988.

Cos’è stata per te la Dakar?

“Il ricordo più forte? Le dune alte 200 metri che arrivano a Djado al confine con il Niger, le ninfee che galleggiano nei piccoli fiumi e soprattutto le tappe in cui, leader provvisorio di classifica, partivo primo; davanti a me nessuna traccia di mezzo a motore, alle spalle 600 equipaggi e la voglia di andare ancora più veloce per vincere: 1500 e più sensazioni miste di paura e adrenalina.”

La prima Dakar e perché.

“Colpa di un paio di amici: Ciro De Petri e Arnaldo Farioli! Nel 1980 avevo partecipato alla 6 giorni in Francia, ma era stato un massacro e avevo smesso i panni del pilota. Però è bastata la telefonata giusta per stuzzicarmi, poi il rally di Tunisia andato molto bene… e la voglia di correre mi è tornata. Alla 6 giorni di San Pellegrino, per nulla allenato, Massimo Ormeni di Honda Italia si è accorto dei miei tempi nella linea e mi ha proposto di correre: ho fatto un provino con Orioli e Balestrieri a Montecatini e mi sono ritrovato pilota ufficiale, tra le mani il manubrio di una Honda XR 650 R pronta per la Dakar, potevo dire di no?”

Avventura o competizione?

“Ovviamente ho corso la Dakar per vincerla; a manetta dall’alba al tramonto ed ero ben preparato per correre e andare forte. Il primo anno ho vinto il premio rookie of the year – migliore esordiente – ma non immaginavo fosse così dura. Quando sono arrivato a Dakar avevo la sensazione di aver vissuto 15 anni in 15 giorni, per l’esperienza, per la tensione, l’emozione. Ti giuro che al traguardo sono arrivato cambiato, non so se mi spiego! Ho vissuto l’esperienza più estrema della mia vita: spesso da solo, senza civiltà attorno per ore; centinaia di chilometri senza assistenza tecnica, con tappe maratahon da 900/1000km. In quell’edizione, alla 5 tappa, Michele Rinaldi ha dato forfait perché l’ha ritenuta troppo dura. Ricordo gente piangere al campo, tappe finite a notte fonda, piloti che arrivavano alle 5 del mattino. Fai conto che per sei mesi a Milano ho avuto gli incubi, mi svegliavo all’improvviso, vedevo la spia rossa del televisore e pensavo fosse l’accampamento.”

Un aneddoto da ricordare?

“I consigli di quel pazzo di Ciro De Petri. In una tappa mista di dossi dove non vedevi oltre, sterratoni pietrosi e 600 km di speciali mi ha consigliato di non dare retta all’istinto che ti porta a chiudere il gas, ma, anzi, nel dubbio accelerare sempre. Affermava di conoscere a memoria quei mille dossi e che a fine tappa avrei guadagnato almeno 10 minuti in classifica. A metà percorso bandiere sventolate ed elicotteri: Ciro ha saltato una curva a destra segnata sul roadbook… non dico altro”

Quante ne hai fatte e qual è stata la Dakar più dura di tutte?

“3 in totale, la più bella è indubbiamente stata la seconda perché ero pilota ufficiale con la Honda HRC NXR750R, quinto assoluto e 6 vittorie di tappa. La prima è stata più emozionante ma troppo dura; la seconda forse avrei potuto vincerla se non avessi avuto grane meccaniche che mi hanno fatto prendere più di due ore dai primi.”

Qual è stata la tua prima moto?

“Honda XR 650 R ufficiale Honda Italia”

Quanto costava partecipare?

“Ho avuto la fortuna di essere pilota ufficiale e quindi pagato per correre: un bel privilegio”

Le moto bicilindriche hanno reso più pericolosa la Dakar?

“Falso, le bicilindriche hanno solo cambiato il modo di correre la Dakar, ok andavi a 200 all’ora ma in diverse occasioni ti tiravano fuori dalle difficoltà senza fatica, cosa che con le mono non era possibile. Il problema è che la bicilindrica è una moto da professionista, per guidarla servono preparazione e una concentrazione che deve rimanere massima per 15.000 km: e non è facile,ricordo tappe la cui partenza era dalle 4 del mattino e l’arrivo ben oltre il tramonto. Ricordo che la decima Dakar – versione anniversario – è stata quella con il maggior numero di iscritti e già alla prima tappa si erano ritirati il 40% dei piloti, era stata concepita come una vera gara di sopravvivenza: tappe durissime e navigazione impossibile: avevi poche informazioni e poi sul road-book c’era indicato di seguire le tracce degli animali per arrivare al pozzo… in mezzo al deserto, segui le tracce? Ma che c@##o, sono un privilegiato che posso raccontare di quell’edizione.”

Il pilota migliore in assoluto con cui hai corso?

“Edi Orioli, perché ha sempre saputo gestire la gara sapeva chiudere il gas e quindi risparmiare le gomme. L’esatto contrario di me, quando sono stato in testa con la Cagiva ho iniziato a sbranare lo pneumatico posteriore a ogni tappa e invece lui no. In questo modo, andando meno veloce di me e De Petri, ha azzeccato tappe perfette rifilandoci legnate da quaranta minuti o un’ora. Lui mi ha davvero stupito, nemmeno Peterhansel secondo me ha fatto altrettanto: Edi era sempre freddo e lucido.”

Cosa pensi della Dakar in Sudamerica?

“No dai, domanda di riserva? Stiamo parlando di due sport diversi, della Dakar non c’è più nulla. Era avventura e sport estremo, coraggio, sopravvivenza e tanto gas. All’epoca i piloti si perdevano e non si trovavano più, di molti non si è più saputo nulla: smarriti nel deserto per sempre. Oggi con il navigatore è tutto più facile, tutto più sicuro, quasi noioso: meglio fare una gara d’enduro. “

Chi vince oggi la Dakar? Il pilota, la squadra o la moto affidabile?

“Vince il miglior compromesso non necessariamente il pilota migliore.”

La Dakar ipoteticamente torna in Africa, ci torni?

“No, perché la Dakar, quella Dakar, non tornerà più. Ho ancora un VHS del TG1 condotto da Fraiese, la prima notizia parlava di Ronald Reagan, la seconda di Claudio Terruzzi che aveva vinto la tappa della Dakar. Ricordo gli striscioni in via Padova a Milano con scritto ben tornato Claudio… sai cosa vuol dire? Siccome ho fatto 87mila chilometri in Africa, perché dovrei tornare? Sono certo che non troverei più lo spirito e l’adrenalina, anche se l’idea mi alletta ancora, però sappi che la Dakar era vita o morte; c’erano personaggi di fantasia con zaino sulle spalle e taniche appese alla moto… era pionierismo puro. Partivamo con lo spirito dell’avventura. Oggi sarebbe un surrogato. E poi… c’ho un’età.”

Intervista red-live.it

Foto archivio privato Claudio Terruzzi

Claudio Terruzzi, una simpatica “manetta”

“Ovviamente ho corso la Dakar per vincerla; a manetta dall’alba al tramonto ed ero ben preparato per correre e andare forte. Il primo anno ho vinto il premio rookie of the year – migliore esordiente – ma non immaginavo fosse così dura.

Quando sono arrivato a Dakar avevo la sensazione di aver vissuto 15 anni in 15 giorni, per l’esperienza, per la tensione, l’emozione. Ti giuro che al traguardo sono arrivato cambiato, non so se mi spiego!

Ho vissuto l’esperienza più estrema della mia vita: spesso da solo, senza civiltà attorno per ore; centinaia di chilometri senza assistenza tecnica, con tappe maratahon da 900/1000km.

In quell’edizione, alla 5 tappa, Michele Rinaldi ha dato forfait perché l’ha ritenuta troppo dura. Ricordo gente piangere al campo, tappe finite a notte fonda, piloti che arrivavano alle 5 del mattino.

Fai conto che per sei mesi a Milano ho avuto gli incubi, mi svegliavo all’improvviso, vedevo la spia rossa del televisore e pensavo fosse l’accampamento.”

Foto fornita da Claudio Terruzzi
Team Honda 1988

(fonte red-live.it)