Yamaha XTZ 660 Wild Team 1991

Il sogno era correre una Dakar in sella ad una moto fatta su misura: Massimo Montebelli e Fabio Marcaccini pensarono per la prima volta alla realizzazione di una moto destinata a correre nei rally africani nel corso di una notte buianel gennaio 1988 quando, in compagnia di parecchi altri piloti privati dovettero ritirarsi dalla gara decorso della lunghissima tappa (oltre 800 chilometri) che portava i piloti della Parigi Dakar da Bordj Omar Driss a Tamanrasset. Al ritorno in patria i due iniziarono la realizzazione di sempre più rinomate special destinate a correre nelle classiche africane.

La Wild Bike preparata per la stagione 1991-92 aveva già conquistato con Marcaccini il 13° posto alla decima edizione del Rally dei Faraoni ed è pronta per la prima partecipazione della Dakar.

Questo special si sviluppa attorno al monocilindrico Yamaha che equipaggia la XTZ 660 Ténéré. Il propulsore è la parte sottoposta alle minori modifiche. Solo il profilo delle camme, che comandano le 5 valvole della distribuzione è stato incattivito per accrescere la potenza. Su nessun’altra componente si è voluto intervenire, preservando così le doti di robustezza e affidabilità del monocilindrico Yamaha. Persino l’avviamento elettrico è stato mantenuto, che se da una parte penalizza di qualche chilo la moto, dall’altra si rivela utilissimo nell’accensione dopo le inevitabili cadute e relativi ingolfamenti. Il raffreddamento ad acqua si avvale di un ampio radiatore frontale presa da una Cagiva Mito su cui è stata montata una elettroventola, comandata sia da un termostato che manualmente dal pilota attraverso un pulsante posto sul manubrio.

Strettamente di serie è pure il carburatore a doppio corpo YDIS, a cui è stata modificata solo la regolazione, arricchendo un poco la carburazione. Il motore è però solo una felice eccezione. Dell’originale Yamaha 660 Ténéré, da cui la Wild Bike deriva, rimangono solo i numeri di immatricolazione sul cannotto del telaio. Tutto il resto è stato ricostruito con materiali e geometrie diverse, a cominciare dall’inclinazione del cannotto dello sterzo che è ora di 28°. Davvero notevole per una moto che, sia pur speciale, rimane una moto da fuoristrada. Ma nel deserto, tra la sabbia, più che agilità occorre una grande stabilità nei tratti misti-veloce caratteristiche delle piste africane.

La moto a secco, esclusi i 55 litri di benzina contenuti nei serbatoi, pesa solo 165 kg. Un risultato davvero buono se pensiamo che non ci troviamo di fronte ad un mastro di qualche team ufficiale, con tante risorse e tecnologie ma davanti al frutto del lavoro e della passione di un gruppo di amanti della moto, che divide sede e officina con un laboratorio di falegnameria in una vecchia casa colonica. Naturalmente, massiccio è stato l’impiego di materiali speciali e il risultato finale non è certo stato ottenuto a scapito dell’affidabilità generale: delle tre moto presentate dal Wild Team al via parigino della Parigi-Dakar dello 1991, non una ha presentato nel corso della gara problemi e cedimenti.

Tutte e tre hanno potuto togliersi la soddisfazione di appoggiare le ruote sulla spiaggia di Dakar con ottimi piazzamenti. Il telaio è stato sottoposto a cura radicali e rifatto praticamente ex-novo. Il risultato finale è il frutto dell’esperienza in prima linea di piloti che non salgono solo sulla moto e aprono il gas, ma che passano la notte tra una tappa e l’altra lavorando sul loro mezzo. Il progetto ha privilegiato la ricerca di una maggiore resistenza nelle zone più sollecitate (come gli attacchi del cannotto di sterzo e del monoammortizzatore), e la definizione di una diversa distribuzione dei pesi (con un netto sbilanciamento verso il retrotreno, che aiuta la ruota anteriore a galleggiare sulla sabbia migliorando così la guidabili della moto).

Per la costruzione della culla, che adotta la classica soluzione a motonave sdoppiato, sono stati utilizzati i noti tubi Columbus al cromo-molibdeno saldato con il procedimento a TIG (Tungsten Inert Gas). Telaio e forcellone sono stato sottoposti a trattamento di rinvenimento, per equilibrare la diversa rigidità tra tubi e saldatura per evitare così rotture per i diversi carichi tensioni.
Orgoglioso del proprio lavoro, i ragazzi del Wild Team non nascondono l’aiuto e i consigli ricevuti dalla BYRD anche se accettati ed elaborati in piena autonomia, a cominciare dal progetto del porcellone posteriore e i relativi cinematismi punto cruciale della moto e della sua guida. Il forcellone, in Anticorodal, risulta ora ben 32 mm più lungo di quello montato sulla Yamaha 600 TT e con una straordinaria rigidità.

Naturalmente completamente rivisto è stato il gruppo sospensioni-monoammortizzatore, che ora utilizza componenti della White Power, che, oltre ai materiali, ha fornito al team la propria consulenza. Anteriormente è montata una forcella di 40 mm upside-down. Una soluzione non comune tra le moto dakariane, ma che, a detta dei piloti, ha portato ad un notevole incremento della rigidità torsionale della forcella, assorbendo magnificamente le svergolature che sono impresse all’avantreno quando si affrontano a velocità sostenute buche e oued, o in fase di frenata.

Le piastre, in avional, sono ricavate dal pieno con una lavorazione completamente manuale dalla ditta Martini di Gambettola (FC). Il serbatoio è realizzato in alluminio e diviso in due semi gusci autonomi ancorati al trave centrale del telaio su silent block. Quello posteriore, in kevlar, funge anche da culla, sostenendo sella e pilota. Il travaso della benzina tra i due serbatoi avviene mediante una pompa a depressione, fatta funzionare dal gioco dei flussi d’aria del carburatore al quale è collegata con un tubo di raccordo. La fiancata laterale sinistra del serbatoio centrale presenta un grosso foro per lo spurgo dei flussi d’aria calda del motore ed è provvista di un apposito attacco per la radio balise.

Tra i due semigusci, sopra il trave superiore che funziona anche da serbatoio dell’olio motore, trova posto la batteria, da cui dipende il funzionamento di tutto l’impianto elettrico. Accanto alla batteria è posto l’elemento filtrante dell’aria. Di tipo cartaceo, è proveniente niente meno che dalla Fiat Uno diesel, ed è protetto da una scatola in alluminio forata posteriormente per l’ingresso dell’aria. Sotto la culla anteriore del telaio è posto un piccolo serbatoio contentnente 5 litri d’acqua obbligatori per regolamento.

Le ruote montano mozzi in magnesio e cerchi in alluminio dai canali nelle classiche misure di 2,50×18” e 1,85×21”, su cui sono montate coperture Michelin con mousse sia anteriore che posteriore. I freni sono di provenienza BYRD, con anteriormente un disco di 300 mm e pinza YZ (montata sui modelli cross della Yamaha) a doppio pistoncino e posteriormente un disco di 230 mm con pinza Brembo a doppio pistoncino contrapposto. Sia dischi che pompe sono di tipo flottante. Pignone e corona sono realizzati in lega speciale dalla ditta Chiaravalli, che fornisce al team anche la catena mod. GY520X0, dall’eccezionale robustezza nel corso dell’ultima Paris Dakar non è dovuto procedere alla sua sostituzione!

Il ponte di comando è imponente come quello di un piroscafo. davanti al manubrio in Ergal, che monta comandi e leve originali Yamaha, troneggia il road book MD comandato elettricamente. Sopra e sotto i tue trip master: quello principale della ICO e quello secondario, per i totali chilometrici, di provenienza Honda. Lateralmente è posta una bussola giroscopica di derivazione aeronautica montata su tamponi antivibranti.

Testi e foto Fabio Marcaccini