Dakar 1985 | Beppe Gualini. Ritirato sarà lei!

di Nicolò Bertaccini

E adesso basta, questo sassolino è giusto toglierselo dalle scarpe, anzi, dagli stivali. Perchè in giro ci sono mille documenti, tutti ufficiali e su questi compaiono solo sentenze: fuori tempo massimo, ritirato, squalificato, settanduesimo con ventidue arrivati al traguardo (!?). Invece, sul Lago Rosa e a Dakar, nel 1985 Beppe Gualini c’è arrivato. Eccome. Certo, a modo suo. Però se rompi un motore, ti fai trainare, cadi in mare, ti tirano i ricambi manco fossi Jeeg robot, allora è giusto che ti venga riconosciuto quanto hai fatto.

Dicevamo, anno 1985, il nostro Buon Samaritano Gualini è in sella ad una Yamaha Tenere allestita con un kit Byrd. É giunto alla penultima tappa, il Lago Rosa ed il traguardo sono ad un passo. Manca poco, si tratta di gestire quel che resta della moto, un occhio ai fuori tempo ed è fatta. Succede l’imprevisto, anzi, l’ennesimo imprevisto. La moto si ferma. Beppe fa mille controlli, mille check ma la moto non ne ha più, il motore è andato, cotto. Manca poco, si sente già l’odore di acqua salata ma non basta. Beppe non demorde. Ci prova. Da lì a poco incredibilmente passa il camion assistenza Byrd (Belgarda Yamaha Racing Division) che “non si sono neppure fermati, mi han buttato giù un motore e sono ripartiti”.

Il camion era preso dal seguire i piloti ufficiali Belgarda ma si ferma per capire di cosa avesse bisogno Beppe. Serve un motore, ad una tappa dall’arrivo c’è la possibilità di scaricarne uno al volo e lasciarglielo perché provasse a montarlo e farlo funzionare. Un motore non nuovo, anzi un po’ sfatto. Però con un grandissimo pregio: si accendeva e funzionava. Per Beppe parte una corsa contro il tempo, smontare e rimontare per poter arrivare entro il limite. Quindi, dopo una ventina di giorni di competizione, con la moto che ormai si regge assieme solo per miracolo ed una stanchezza fisica che difficilmente si può immaginare, il nostro si mette a sostituire il motore della sua Ténéré. Roba complessa in una officina.

 

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Ma Beppe ha metodo, conoscenze, pazienza e una forza disumana. Sostituisce il motore e riparte. Certo, la moto riparte alleggerita di alcune inutili infrastrutture, come si può vedere in alcune foto. D’altronde non è che potesse mettersi a rifinire le virgole, l’importante era arrivare al bivacco con la moto accesa, poi avrebbe potuto rattoppare ulteriormente in vista dell’ultimo giorno di gara. E siamo al fatidico ultimo giorno, l’ultima tappa, quella in cui nella testa di ogni pilota riecheggia una sola frase “non fare cazzate”. Eppure, come abbiamo visto succedere per tanti, l’ultimo km è sempre il più insidioso.

Beppe corre con la sua Yamaha che ormai sembra uscita dal film Mad Max. Corre lungo il bagnasciuga, dove la sabbia è più compatta e più agevole da attraversare. Succede ovviamente un imprevisto, altrimenti non sarebbe la Dakar. Sta procedendo assieme ad altri due piloti, sono abbastanza ravvicinati. All’improvviso un’onda anomala o comunque spinta un po’ più in avanti sulla battigia ed ecco i tre che si ritrovano in terra. Beppe fa un bel tuffo. Si rialza biascicando qualcosa in bergamasco e prova a riavviare la moto scaricando sul pedale di avviamento rabbia e frustrazione. Nulla. Riprova e nulla. Riprova con sempre più rabbia fino a quando rompe il kicksarter.

É finita, la moto non parte più. Anche se ormai è fatta, potrebbe caricarsi la moto in spalla e arrivare al traguardo. Il destino però non ha finito con Beppe e gli mette sulla pista un altro partecipante. Legano la moto e la Yamaha si fa trascinare per qualche metro. Un centinaio ne serviranno prima che un borbottio ed uno scoppio annuncino la ripartenza. La manovra non rientra fra quelle vietate, farsi aiutare per avviare la moto è concesso. É fatta, la moto riparte e Beppe può portarla fino al traguardo, trattenendo il fiato. Ventitreesimo recita il documento nelle sue mani. Ed alla fine, fra mille siti, mille reportage, mille documenti ufficiali l’unico che contiene la verità, per noi, è quello di Gualini. Lui nel 1985 a Dakar ci arrivò, entro il tempo limite.

Dakar 1992 | Patrizio Fiorini: quando persino Peterhansel mi chiese chi fossi…

È vero, alla Dakar ci sono persone speciali. Ne ho conosciute tantissime e con grande stupore, anche tra i piloti ufficiali. Tanti, anzi, tutti quelli coi quali ho avuto a che fare, anche per uno scambio di battute, sono stati tutti gentili, disponibili e per nulla superiori. Franco Picco non ha esitato a smontarmi sella e serbatoi per trovare il motivo di un piccolo inconveniente. Anche quando mi investì l’ubriaco a Montpellier, lui e Edi Orioli si fermarono per aiutarmi a ripartire con una pacca sulla spalla “dai tieni botta che ce la fai” che fece più effetto di qualsiasi antidolorifico. Franco mi diede gli strumenti senza esitare… “me li paghi poi a casa”.

Danny La Porte alla Le Cap fece il mio tempo al prologo e ci scherzammo su in fila per la cena al primo bivacco in Africa. Meoni non avevi neanche bisogno di cercarlo, ti salutava prima lui e ti chiedeva come va. In Passato il “Bogio” Andrea Marinoni mi diceva “bravo, vai piano…” ed io “non c’è problema, più di così non vado!!”

Ma chi mi ha fatto persino sorridere è stato il grande Stèphan Peterhansel. Alla Le Cap mi accompagna sul suo furgone camperizzato “Tullio Provini”, con Chicco Piana e rispettive signore. La moto infilata metà in bagno e metà in corridoio. Una tirata fino a Rouen dove erano allestite le verifiche. Passo la parte amministrativa e entro in un capannone affollato di gente coi piloti in fila per marche. Io spingo la mia moto e mi accodo, tutte Yamaha, private e ufficiali, in testa Motor France e Byrd.

Arrivo e già mi guardano, unico coi meccanici al seguito e due signorine che mi aiutavano a tenere documenti, casco e tuta, mentre Tullio e Chicco si prodigavano a fissarmi le luci obbligatorie posteriori che avevo ignorato. Pochi istanti e nel capannone irrompono dieci (10!) miei amici con un urlo da stadio “FIOREEEE” partiti da Bologna senza dirmi nulla, tutti in un camper da sei. Una vergogna incredibile, pure i tifosi!

Poi finalmente si parte! Con i road book di metà gara infilati ovunque nella giacca, vestito come un palombaro dal freddo che c’era. Due giorni di statali e provinciali fino a Marsiglia, passando da Parigi e la Borgogna. In un tratto di montagna, nevicava e l’ansia di arrivare in ritardo mi fece saltare diversi punti di ristoro dove i locali avevano allestito delle vere e proprie feste di paese con rampe, archi, striscioni e interviste. In un paesino mi diedero un caffè ustionante e mi appoggiarono due croissant sulla cassa filtro, via al volo anche lì con la merenda in bilico sui serbatoi.

Così raggiunsi un gruppo e mi accodai, c’erano persino le due Yamaha ufficiali e il passo era buono per me, in terra c’era uno sottile strato di neve compatta. Arrivati ad una grossa area di servizio vedo che entrano tutti per una sosta e il pieno, mi accodo, ma prima di entrare Peterhansel, probabilmente ingannato dal mucchio di neve a lato strada, non vede il marciapiedi e scivola in terra. Lo sento smadonnare, il suo assistente (su moto stradale) lo aiuta a sollevare a fatica, allora scendo e gli afferro il codino e in tre tiriamo su al volo la moto.

Appena entrati, insieme al distributore, un’altro urlo da stadio “FIOREEEEE”, quattro amici ubriachi, in giro per cantine a festeggiare il capodanno! Appena hanno visto delle moto sono corsi urlando ad abbracciarmi. Sento una mano sulla spalla ed era lui, Peterhansel, che mi guarda dietro la schiena per leggere il nome e mi dice: “excuse moi Fiorini, ma tu chi sei in Italia con tutti si tifosi che ti porti dietro?” La mia risposta fu: “nessuno, non ho mai vinto niente, ma ho un sacco di amici”. E ancora risate!

Ve lo siete mai chiesti: perchè proprio Dakar?

Perchè Dakar? Vi siete mai fermati a pensare perchè Sabine abbia deciso di far terminare la sua avventura proprio nella capitale del Senegal? Diverse volte abbiamo provato a risalire all’origine della scelta, cercando informazioni certe. Le uniche cose che si trovano sono ipotesi.

Certo, Sabine avrà sicuramente cercato una città affacciata sul mare, con un porto che agevolasse la logistica del rientro, una città francofona. Però Dakar non è la sola. Avrebbe potuto scegliere Algeri e pensare al suo raid in modo differente, rendendo ancora più agevole il rientro in Europa.

Insomma, dopo anni di studio della corsa africana la risposta non saltava fuori. Solo ipotesi. Sensate, legittime, ma ipotesi.

Come spesso accade la soluzione del problema la si trova ponendo attenzione a come si formula la domanda, a dedicare tempo a capire cosa cercare e cosa chiedere, prima ancora di iniziare a cercare e chiedere.

Quindi dal chiederci “perchè Dakar” siamo arrivati a riformulare la domanda e a chiederci: chi potrebbe saperlo? Chi era in contatto con Sabine ed è ancora oggi raggiungibile. Con una risposta univoca che manco la Cavallina Storna il nome è saltato fuori subito: Jean-Claude Morellet, noto a tutti con il nome di Fenouil.

Fenouil è un giornalista, fotografo e motociclista francese, uno di quelli che ha partecipato sin dalla prima edizione alla pioneristica gara organizzata da Sabine e che in seguito ne è stato anche Direttore Corsa.

Gli abbiamo scritto e gli abbiamo chiesto se si ricordasse il perchè di Dakar, se ci fosse un motivo, se Sabine gliene avesse mai parlato.

I due si conobbero durante la seconda edizione della Abidjan-Nizza, quella in cui Sabine rischiò di perdersi e che gli fece venir voglia di creare una gara che avesse direzione opposta, dall’Europa all’Africa.

Fu lo stesso Fenouil, stando a quanto ci riporta lui, a suggerire a Thierry Sabine di andare a Dakar. Fenouil aveva già raggiunto la capitale del Senegal nel 1973 in sella ad una Kawasaki Big Horn (il viaggio è raccontato in “In moto a Dakar nell’inferno del Sahara” edizioni Mare Verticale).

Quindi il mistero circa la scelta della destinazione è questo. La volontà di un avventuriero irrequieto e temerario come Sabine di organizzare una gara che partisse in Europa ed arrivasse in Africa e l’esperienza di un amico fotografo, giornalista ed avventuriero che gli suggerì la capitale senegalese.

Probabilmente fra gli ingredienti che hanno reso mitico ed immortale questo raid c’è l’intuizione di partire dall’Europa, la visibilità della partenza da Parigi hanno contribuito a rendere leggendaria la gara.

Testo di Nicolò Bertaccini

 

Dakar 1987 – Belgarda, fiducia nel mono

Dopo il forfait di Marinoni è Picco il caposquadra

Dopo il successo di Franco Picco nel Rally dei Faraoni le credenziali della Yamaha – Belgarda sono altissime; il valore dei piloti è fuori discussione: scenderanno in gara Picco, Medardo e Grasso a sostituire Andrea Marinoni che non potrà DAKAR 87 Piccocorrere a causa dei postumi di un incidente.

Resta un solo neo: la moto a disposizione è sempre la 660 monocilindrica. Leggera, maneggevole ed affidabile, lamenta il problema della potenza, e di conseguenza della velocità massima, nel confronto con le bicilindriche BMW ed Honda e con la stessa Yamaha 900 quattro cilindri utilizzata dai francesi.

Ultimamente la Paris-Dakar è stata dominata dalle grosse pluricilindriche. moto che permettono d’andare a quasi 200 Kirih negli immensi rettilinei di sabbia del deserto e guadagnare tempo nei confronti delle più piccole monocilindriche. La scelta della Belgarda, invece, cerca di sfruttare le doti di maneggevolezza e di maggior semplicità ed accessibilità meccanica.

Un progetto legato anche alla commercializzazione dei mezzi: seppur modificate direttamente dal reparto corse Yamaha in Giappone, le Tenere 660 rispecchiano le caratteristiche del prodotto di serie. La potenza è stata aumentata ad oltre 50 CV, la capacità dei serbatoi è di 55 litri mentre il peso a secco supera di poco i 150 Kg.

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Caratteristiche che nei piani stessi della Yamaha dovrebbero consentirle di fronteggiare le varie pluricilindriche e recuperare nei sentieri della savana il tempo perso sui lunghi tratti rettilinei desertici.
Della stessa opinione è anche Picco: «Per riuscire a vincere la Dakar non basta poter disporre di tanta potenza. Gli altri Picco_Auriol_Neveu_1987potranno andare più forte, ma la guida di una moto più pesante richiede anche maggior impegno fisico. Dopo molte tappe, la fatica può giocare un ruolo determinante per non aumentare i rischi di cadute ed arrivare in fondo».

Hai un pò di rimpianti per non poter correre con la FZ 900 che useranno Bacou e Olivier?
«I francesi stanno portando avanti il progetto del motore derivato dalla FZ da alcuni anni, ma finora non sono riusciti a raccogliere dei risultati positivi. Mi auguro, poiché la marca da difendere è la stessa, che sia l’anno buono, ma io non l’ho mai provata e quindi non posso dire nulla. Aspettiamo che finisca la Dakar, ne riparleremo per quella dell’88».

DAKAR 1998 | YAMAHA domina, ma gli Austria Korps incalzano

peterhanselE’ stata la gara della vittoria – la numero 6 ed un record – annunciata e scontata di Stéphane Peterhansel e della sua Yamaha 850 bicilindrica. Se per il pilota francese c’è la soddisfazione di avere sorpassato Cyril Neveu, fermo a 5, per la Casa giapponese è l’affermazione numero 9. E probabilmente sarà l’ultima poiché la Yamaha ha annunciato il ritiro dalla “più dura gara al mondo”.

Lascia lo spazio alle monocilindriche, alla KTM e alla BMW e, probabilmente, al ritorno della Honda. Di fatto la supremazia di questo fantastico duo è stata evidentissima sin dall’inizio della gara. Lasciati sfogare gli animi in Europa, nelle tappe in Francia e in Spagna dove l’avvicinamento all’Africa è stato un fatto di routine più che una gara vera e propria, “Peter” ha accumulato subito un notevole vantaggio, un distacco che ha saputo amministrare con la consueta intelligenza nella seconda settimana.

Solo piccole incertezze in un percorso trionfale: qualche caduta, lievi problemi tecnici alla velocissima bicilindrica Yamaha XTZ 850 TRX; insomma, niente che davvero potesse preoccupare questo grande campione che potrebbe, però, non schierarsi più alla Dakar con una moto: «Se la Yamaha lascia – così ha detto all’arrivo – abbandono anch’io. Sono troppo legato a questa Casa per accettare un’altra offerta. Potrei tornare in Africa solo guidando un’auto».

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Ci ha provato a insidiare questo strapotere lo squadrone KTM: una specie di armata motorizzata diretta dall’ex pilota Heinz Kinigadner, composta da dieci piloti ufficiali e da una numerosa schiera di privati. Le KTM LC4 660 non hanno potuto reggere la stessa andatura della bicilindrica giapponese ma si sono difese benissimo vincendo la maggior parte delle prove speciali (12 su 19). Su 55 piloti arrivati sulle spiagge di Dakar ben 31 erano in sella a una KTM.

Nonostante Peterhansel fosse inavvicinabile – lo dicono gli stessi uomini della Casa austriaca – l’avere piazzato Fabrizio Meoni alle sue spalle, con un distacco non proprio impossibile su 18 giorni di gara, è stata un’ottima performance. Il pilota italiano è stato il vero avversario del francese: attento nella navigazione nonostante i continui malfunzionamenti del suo GPS, un vero duro nel sopportare prima di tutto i suoi 40 anni e poi l’infortunio alla spalla sinistra, capace di trovare la giusta via in una tempesta di sabbia e di riuscire da privatissimo ad arrivare al terzo e al quarto posto nelle Dakar del ’94 e del ’95.

E anche lui potrebbe non essere più al via il prossimo anno poiché, pur essendo un “ufficiale” a tutti gli effetti, non ha un contratto con la KTM che lo tuteli per il futuro. Rientrando in Italia ha ritrovato la vita di tutti i giorni e una concessionaria di moto da mandare avanti. Alle sue spalle, sempre con la KTM 660, Andy Haydon un pilota australiano sicuramente abituato ai grandi spazi e già a suo agio alla prima Parigi-Dakar. E poi un sudafricano, Alfie Cox, già pilota di valore nell’enduro. Questi due piloti, al di là della loro ottima classifica, dimostrano come anche dei novizi della maratona africana possano far valere le loro capacità nella guida fuoristrada.

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La mancanza di veri trabocchetti nella navigazione ha quindi fatto emergere chi va davvero forte al di fuori dell’asfalto, ovvero i piloti da enduro. Non dimentichiamo che lo stesso Peterhansel è un protagonista dell’enduro Mondiale. Anche il nostro “Giò” Sala, più volte iridato della categoria, è andato fortissimo, trasformando la gara in una lunghissima mulattiera. Si è piazzato al 17esimo posto per qualche errore di lettura del road-book e per qualche problema di accensione della sua KTM. Ha rischiato anche di non finire la gara a soli 2 km dall’arrivo a Dakar per una caduta che lo ha lasciato senza conoscenza per pochi attimi e con la moto quasi distrutta.

GLI ALTRI ITALIANI Onore anche agli altri italiani che hanno terminato la durissima gara: 24esimo Guido Maletti (ben 11 partecipazioni) con la Maletti 1998-1sua Kawasaki KLX 650R, ma poteva arrivare più in alto nella classifica se non avesse preso la penalità forfettaria di nove ore per il malfunzionamento dell’accensione elettronica. Non si è perso d’animo e ha continuato a risalire nelle posizioni. Gian Paolo Quaglino e la sua Honda XR400R si sono classificati al 29esimo posto. Quaglino è alla Dakar numero 5 ed è la terza che finisce. Subito dietro, Aldo Winkler con la KTM 660. E’ uno dei veterani con le sue otto partecipazioni. Il torinese vince il premio fair-play perché, come un gregario d’altri tempi, ha generosamente dato a Giò Sala, bloccato da guai elettrici e “ufficiale” KTM, la centralina elettronica di scorta della sua Kappa.

E poi viene Roberto Boano (38esimo ma con 47 anni alle spalle), una volta crossista di buona fama e ora conosciuto come il padre di Jarno e Ivan, molto più che giovani speranze dell’enduro. Ha fatto la Dakar con la fida Honda Africa Twin, che è pur sempre una bicilindrica ma è lontana anni luce dalle prestazioni della Yamaha che ha vinto; non fosse altro che per il maggiore peso, la minore potenza e le diverse, e meno sofisticate, sospensioni. Al cinquantesimo posto Lorenzo Lorenzelli con la sua Suzuki DR 350. Ha fatto tutto da solo, senza un meccani-co ad aiutarlo, arrivando qualche volta tardissimo ai bivacchi, ma sempre spin-to dalla solidarietà degli altri piloti.

AURIOL | TROPPO BELLO PER L’INFERNO

NOUAKCHOTT (Mauritania) – “L’Africa me la sono fatta praticamente da solo e questo più che un merito è un guaio, il più grosso guaio che possa capitare a chi corre una Parigi-Dakar. Non so ancora se sarò il vincitore, lo spero per la Cagiva, per il pubblico italiano che si aspetta di vedere per la prima volta una propria moto vincere questa corsa, ma è bene che tutti sappiano come stanno le cose”.

Hubert Auriol, un bel ragazzone francese, sempre allegro, elegante nei modi e nel parlare, sembra più un raffinato attore di teatro che una delle “bestie” che affrontano ogni anno questa follia ambulante che è la Parigi-Dakar. Auriol è un veterano di questa gara di velocità lungo deserti, savane e montagne, dell’Africa sahariana conosce ogni pietra, ogni duna, ogni miraggio e ogni arcano inganno. Eppure l’altro giorno anche lui è caduto in una delle mille e inaspettate trappole del deserto.

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Nel nord della Mauritania corre una vecchia ferrovia mineraria. Vi passa il treno più pesante del mondo: cinque locomotive da oltre 3mila cavalli ognuna e 10mila tonnellate di ferro sui vagoni. E ogni volta che passa, piccole schegge di binario, taglienti come spade, schizzano ai bordi della massicciata. Auriol, Vatanen e molti altri concorrenti per paura di perdersi nel deserto hanno voluto seguire la strada ferrata. Ma le forature sono arrivate a raffica una dopo l’altra.

Da quando viaggia in solitudine, a causa della discutibile squalifica degli altri due piloti della Cagiva, il povero Auriol vive con l’incubo delle forature. Perchè in questa gara l’ assistenza in corsa possono fornirla soltanto i compagni di squadra o altri concorrenti di buon cuore. Così chi è più avanti in classifica finisce col cannibalizzare piano piano le povere moto dei compagni. Oggi una ruota, domani una frizione, dopodomani un carburatore.

Ma Auriol è solo. Nei giorni precedenti aveva provato anche lui a montare le magiche gomme Michelin, che al posto della camera d’aria hanno una ciambella di gomma espansa. La Michelin, però, le aveva studiate per le moto giapponesi non avendo prestato molta attenzione alla casa motociclistica italiana. Così sulla moto di Auriol quella ciambella si scaldava troppo, fino a diventare una poltiglia. E allora il pilota francese non se l’ è sentita più di rischiare. Ha messo in spalla un po’ di camere d’ aria, come i vecchi ciclisti, ed è andato avanti da solo a combattere la battaglia con il suo rivale Neveu.

Aveva un’ ora di vantaggio su di lui e con cinque forature se l’ è mangiata quasi tutta. “Col senno del poi – ha detto – è facile scegliere, ma la sera prima non me la sentivo di rischiare”. Ieri, in un’ altra dura tappa tutta alla bussola, è riuscito ad arrivare incollato al rivale con un piccolo trucco. Ha caricato più benzina, deciso a non fermarsi mai per il rifornimento. E ce l’ ha fatta. Neveu si è invece fermato, è ripartito all’attacco ma al traguardo aveva solo una manciata di secondi.

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Una vittoria di Auriol per una casa come la Cagiva sarebbe una manna. “Quello che può rendere una Dakar – dice Roberto Azzalin, capo della squadra italiana – non lo saprei quantificare ma una cosa è certa: di una vittoria alla Dakar si parla in ogni angolo più sperduto del mondo e noi abbiamo contro tutta l’ industria giapponese. Poco più di cento persone contro migliaia di specialisti”. Adesso 9 minuti scarsi dividono Auriol e Neveu, la Dakar rischia di concludersi all’ ultimo momento.

Oggi c’ è una tappa difficilissima, ancora tutta da “navigare” alla bussola nella savana del Senegal. I due sono troppo esperti e troppo grandi per ricorrere a trucchi, ma quest’anno dinanzi alle centinaia di smarrimenti nel deserto, ci sono perfino dei concorrenti che per correre ai ripari hanno aperto la caccia al ragazzino. Piccolo, leggero, figlio di negri o di beduini non importa purchè conosca bene le piste. Se lo caricano in spalla dentro lo zaino e via a 180 all’ora.

Meglio avere un po’ di peso in più ma una guida sicura, così almeno dicono loro. Nelle auto un’ altra vittoria di Tambay, che tuttavia non infastidisce la Peugeot di Ari Vatanen leader della classifica. Le Peugeot sono imbattibili sul piano tecnico per la potenza che hanno, ma negli ultimi giorni hanno rischiato più volte di perdere questa corsa per l’ inesperienza africana del pilota finlandese e per i contrasti tra lui e il suo navigatore, il francese Bernard Giroux, telecronista di Tf1.

Prima del via al mattino Vatanen si siede al volante e in religioso silenzio si legge un passo della Bibbia. Fa tanti buoni propositi ma poi in gara non si fida del suo navigatore e fa di testa sua. Del resto anche il suo vecchio compagno di rallies ne aveva abbastanza di lui e del suo pessimo carattere. Domenica Vatanen si è perso nel deserto portandosi dietro altre 104 macchine che speravano di sfangarla seguendo il probabile vincitore su una strada sicura.

Risultato: tutti fermi fino a notte fonda, si sono beccati 10 ore di penalità. Lunedì per una foratura ha perso un’ora sul suo diretto avversario, il francese Zaniroli a bordo di una Range Rover. La classifica dice ancora Vatanen, ma basta poco per mandare al diavolo una vittoria che la casa francese ha costruito con mesi di duro e sapiente lavoro su una vettura che, dopo essere stata la regina dei rallies si avvia a diventare la regina dell’Africa, così come lo sono ancora oggi le vecchie 504 che in molti di questi paesi continuano ad arrancare stracariche su piste dove non esistono altri mezzi di trasporto.

Ma la Dakar non è soltanto l’ avventura di questi divi del manubrio o del volante. E’ anche, e più spesso, l’anticamera della morte per molti altri. Ieri è arrivato un povero disgraziato di francese che si era perduto 10 giorni fa nel deserto del Niger. Due giorni e due notti fermo, dormendo all’ addiaccio senza ormai più acqua tentando sotto il sole di riparare la sua moto. La morte era ormai lì ad un passo quando per sua fortuna è stato avvistato dal “camion-scopa” del deserto. Un mezzo che viaggia con giorni e giorni di ritardo e raccoglie i dannati di questa corsa. Al poveretto, senza bisogno di leggere la Bibbia, abbiamo offerto una doccia e un letto perchè non aveva in tasca neppure un franco. Gli abbiamo chiesto se rifarà mai una Parigi-Dakar ed ha risposto: “E come potrei vivere senza?”.

Fonte Repubblica

Dakar 1986 | Franco Picco, due ore per una stronzata

La tappa è Agadez-Dirkou. Si attraversa il deserto del Ténéré su un fondo abbastanza piatto e tutto di sabbia. É una fortuna, perché il giorno prima mi sono lussato la spalla ed ho una piccola frattura ad una mano. Potrò guidare anche con una mano sola, per alcuni tratti. Ho superato il momento di maggior sconforto, 150 chilometri sul “tole ondulée”, con una spalla fuori posto, che al campo un medico francese è riuscito a rimettere in movimento con un colpo da maestro, una bendatura stretta ed una “ingozzata” di pillole contro il dolore.

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Il fondo oggi è molto tenero, per via di una tempesta di sabbia che si è abbattuta sulla pista. Lo scorso anno era molto più duro e veloce. I nostri piani di rifornimento, fatti in base all’esperienza passata, prevedono di fare il pieno all’albero del Ténéré, dopo 200 chilometri, e poi di fare tutta una tirata fino al traguardo. Sono circa 400 chilometri. Ma per via della sabbia morbida la velocità è molto inferiore allo scorso anno, non si riescono a superare i 110, 115 Km/h, ed i consumi sono superiori al previsto.

Inizialmente penso che sia un problema al motore…

Viaggiamo insieme, io ed Andrea Marinoni, mio compagno di squadra. Quando siamo in vista dell’oasi di Bilma, ben distinguibile anche in lontananza per la presenza di un faro che, proprio come quelli dei porti, serve ad indicare la strada alle carovane che attraversano il deserto, la mia Yamaha si ferma. Diavolo, ho rotto – penso – ed invece sono solo rimasto a secco di benzina.

Per fortuna Marinoni ne ha ancora un litro, così cominciamo a travasare dal suo serbatoio al mio, con un imbuto che abbiamo portato con noi per fare il pieno. Pensiamo solo di arrivare all’oasi, dove possiamo fare rifornimento prima di ripartire. Da lì a Dirkou, fine della tappa e della prova speciale, ci sono altri venti, venticinque chilometri. Mentre armeggiamo con imbuto e serbatoio sopraggiungono i primi concorrenti con le auto.

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Le Porsche ci superano velocemente. Facciamo segno ad una Mitsubishi Pajero di fermarsi ed il pilota, stranamente, perché di solito non ci degnano di una occhiata, si arresta in una nuvola di polvere. È Zaniroli… che come me ha finito la benzina proprio in quel punto. Non ci resta che ultimare i nostri travasi.

Ripartiamo per fermarci, con la mia Yamaha nuovamente a secco, proprio a 100 metri dal faro. Ad attenderci troviamo solo dei militari con delle jeep, ma tutte a gasolio. lo sono fermo, tocca ad Andrea Marinoni infilarsi nel villaggio in cerca della sospirata benzina. Torna indietro in un attimo: in previsione del passaggio del rally i locali hanno preparato delle taniche; lui ne ha comperata una ed ha ripercorso la pista guidando con la latta sul serbatoio che gli scivolava da tutte le parti.

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Inizio a vuotare. È un liquido bello chiaro, trasparente, anche se un po’ oleoso. Mi tornano subito alla mente le parole del nostro direttore sportivo: “non fate benzina a Dirkou perchè non è buona”. Mentre Marinoni fa il pieno alla sua moto, che ha lasciato con il motore acceso, io cerco di avviare la mia, ma senza successo. Andrea prova ad aiutarmi, ma non serve, così fermiamo Gualini e lo spagnolo Mas che ci hanno raggiunto, per farci dare una mano.

Niente da fare. L’unico risultato è di perdere un bel po’ di tempo e Marinoni, che in classifica è messo meglio di me, decide di andare avanti per non accumulare ulteriore ritardo. Ma quando monta in sella si spegne anche la sua moto, e la storia si ripete. Gualini prova a tirarlo con una fune, ma una volta cade lui ed una volta Andrea, senza risultati. Così che mentre loro si allontanano a quel modo io comincio a smontare la candela ed il filtro, pensando che ci sia qualche problema con la pompa della benzina.

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Mi basta avvicinarmi al carburante per percepire un odore strano. Faccio annusare anche ad un militare che mi sta intorno ed ho la conferma ai miei dubbi : è gasolio! Non c’è niente altro da fare che cercare della benzina. Mi da una mano un soldato e con la sua jeep andiamo a cercarla. Naturalmente Marinoni è fermo poco più avanti : gli dico di smontare il serbatoio e di aspettarmi.

Vago a vuoto fino a quando proprio in fondo al paese trovo un vecchio che fuori dalla casa ha un bidone con dentro la benzina. Il prezzo è d’amico: per darmene una tanica vuole 500 franchi. Da quel momento è una corsa nella corsa. Puliamo il serbatoio, cambiamo la candela, buttiamo un po’ di benzina nel carburatore e una volta rimontato tutto con tre pedalate le Yamaha vanno in moto. Sono in un bagno di sudore, e dopo essermi asciugato in tutta fretta riparto. Due ore di ritardo per una stronzata! Anche questa, però, è la Dakar.

Tratto da Dakar Dakar 2
Testo Paolo Scalera
Foto Dune Motor

Dakar | La sopravvivenza in un valigetta

Nei due briefing che istituzionalmente aprivano la Dakar, quello di Parigi e quello sulla nave che portava ad Algeri, Thierry Sabine non si stancava di ripeterlo qualora vi perdeste non abbandonate mai il vostro mezzo. Mai. L’istinto dell’uomo, infatti, in questi casi inusuali tradisce : spinge a cercare aiuto, ma il primo aiuto un corridore della Parigi-Dakar sa, invece, che deve dado ai propri soccorritori.

Deve cioè facilitargli il ritrovamento. Il primo comandamento, dunque, é non abbandonare l’auto. Il corollario di Balise_2questo non dipingerla preferibilmente di giallo, colore che la rende invisibile nel deserto da un elicottero. La seconda regola prepararsi ad attendere. Una attesa, é chiaro, di un soccorso che non sarà immediato. Solo dopo 12 ore, e comunque mai di notte, si potrà iniziare con la prima operazione, la più semplice, ma anche la più importante. L’accensione della radio-balise.

Nell’equipaggiamento di ogni corridore, infatti, c’e una valigetta Samsonite che contiene il necessario per facilitare l’avvistamento. Il cuore dell’equipaggiamento é una radio che opera su di una sola banda di frequenza. La sua carica dura 48 ore ed il segnale, continuo, é un filo di Arianna per i soccorritori. Ma di notte il deserto è una immensa coltre senza riferimenti e confini. È il momento di sparare i razzi colorati che con la vivida luce del giorno sarebbero invisibili, mentre un fumogeno potrà essere lanciato quando un velivolo, magari, incrocia fuori dalla nostra portata.

Un filo di fumo, infatti, è visibile da molto lontano, e proprio grazie all’accorgimento di aver bruciato i pneumatici della sua auto uno ad uno, Simonin, in Mauritania nel 1984 fu trovato dopo tre giorni di ricerche. La gomma infatti fa molto fumo e brucia lentamente. Quindi l’ultima risorsa, come fu all’alba dell’uomo, é il fuoco. Per questo fra le tante raccomandazioni per i neo iscritti c’e quella di avere sempre con se almeno i fiammiferi, un coltello ed il telo di sopravvivenza.

Cos’é quest’ultimo? semplicemente un leggerissimo foglio di alluminio che da una parte riflette i raggi del sole, riparando dal calore, mentre avvolgendoselo addosso isola dal freddo. Ripiegato, sta in una tasca. Ma é molto semplice perdersi? Sembra una domanda scontata, invece con piccoli accorgimenti é possibile ridurre questo rischio al minimo. Il primo, naturalmente, é che appena ci si rende conto di aver sbagliato strada é più prudente ripercorrere le proprie tracce. Anche se ciò porta via del tempo.

Schott HardenNel deserto, qualunque CAP, cioè rotta di bussola, si stia seguendo, si farà una marcia indietro di 180°. Imperativo é riprendere la pista principale. Ed uno dei trucchi, semplice ma vitale, è che quando le circostanze richiedono continue deviazioni per evitare, magari, tratti di pista troppo rovinata, si sappia sempre da che parte la si lascia. Se a destra o a sinistra. Non é difficile, intatti, che a forza di intersecarla alla ricerca del terreno più solido non ci si ricordi più da che parte si trovava n’ultima volta. La “pista” africana non è una strada asfaltata, è solo la rotta della consuetudine da villaggio a villaggio.

Può rovinarsi e divenire impraticabile, in un punto. Una nuova consuetudine traccerà, allora, una nuova pista, parallela, che tornerà a quella principale. E così decine, centinaia di volte. Tanto che nella savana più che nel deserto il terreno apparirà a volte come un dedalo inestricabile di sentieri. Si parla sempre, alla Dakar, di concorrenti che hanno sbagliato strada prendendo, per questo, ore di penalità. Bene, cioè accade quasi sempre quando il rally abbandona il deserto per le savane.

Nelle sconfinate distese del Ténéré infatti ad aiutarci c’è la bussola, e poi la posizione del sole. Servono principalmente nervi saldi. Quando la vegetazione invece forma schermi impraticabili, non c’è bussola o sole che tenga. Al massimo possono tornare utili le carte, possibilmente quelle militari, dettagliatissime, per rendersi conto della propria posizione. Tuoi i migliori equipaggi le hanno, e non sono solo utili nei momenti d’emergenza, anzi, non é raro vedere i piloti studiarsele prima del via. Prendere nota dei bivi, dei villaggi. Come sempre, anche in Africa, la migliore sicurezza viene dalla prevenzione.

Fonte Dakar Dakar2

Testo Paolo Scalera

Dakar 1992 | La prima di Patrizio Fiorini

Fu la mia prima Dakar, la mia migliore. Abbandonai in fondo al Ténéré, e lì, fui caricato sul camion balai, abbandonando e perdendo la mia moto per sempre. La tappa dopo fu neutralizzata in un trasferimento che passò alla storia come più pericoloso della speciale, da N’Giugmi a N’Djamena.

Dopo quella tappa, più nessun ritirato (tra le moto). Ero talmente incazzato che non volli sentire ne leggere più nulla della Le Cap. Riuscii a raggiungere un aeroporto tra passaggi in taxi e mezzi di fortuna, e prendere un volo verso casa da Niamey.

Arrivai in Italia che la gara era già finita, ancora vestito da moto con stivali, tuta e casco in mano. Appresi della morte di Lalay dall’amico che mi venne a prendere di notte a Malpensa. Ho un ricordo talmente bello ma devastante di quella edizione che mi fa dire oggi “io c’ero”.

Ma in quei giorni mi sono maledetto. Mai edizione tanto sgangherata e sfortunata. Pochissimi iscritti. Nella sua approssimazione, l’organizzazione di Gilbert Sabine mi regalò dei bivacchi a contatto coi campioni, dove loro stessi avevano poca assistenza. Un’edizione dove privati e ufficiali mangiavano assieme. Bella gente. Bei ricordi.

Dakar 1996 | Edi mette la quarta!

E’ stato il rally degli avventurieri, lo sfogo degli ammalati di “mal d’Africa”, la costosa vetrina del jet-set internazionale, la gara impossibile per veri professionisti e ha finito per creare una vera e propria moda sulla quale la nostra industria ha vissuto per diverso tempo. Seguendo il suo esempio le competizioni nel deserto hanno iniziato a farsi conoscere e a crescere d’importanza.

Poi la moda è un po’ cambiata; il costo di partecipazione a queste gare è divenuto in-sostenibile per i privati e sembrava che dovessero sparire definitivamente dalla scena internazionale. Ma il rally africano per eccellenza ha avuto la forza di “rifarsi il trucco” e riproporsi come esempio trainante per altri raid. Abbandonati i fronzoli e l’inutile, è ritornato ad essere concreto, avvincente e spettacolare e soprattutto a portata di mano per tutti.

La nuova edizione della maratona africana ha salutato il quarto successo di Edi Orioli, su Yamaha. La nuova formula riscuote ampi consensi e riporta questa gara a discreti livelli d’interesse. Continua il duello tra monocilindriche e bicilindriche.

Ma purtroppo anche tragico. Il tributo di vite umane sacrificate dalla Dakar, anche per quest’anno, è sta-to pesante: due morti. Laurent Gueguen, 27 anni, sposato e padre di due figli, al volante del camion di assistenza Citroen è saltato su una mina (con tutta probabilità), durante la quinta tappa. Marcel Pilet, in sella alla sua KTM, nell’attraversamento del villaggio di Terambeli, a 30 chilometri da Labé, ha investito una bimba, uccidendola.

Velocissimo, 3 tappe vinte e secondo assoluto: Jordi Arcarons

Velocissimo, 3 tappe vinte e secondo assoluto: Jordi Arcarons

Prosegue così, purtroppo, il lungo elenco di giorni nefasti che marchia indelebilmente questa competizione, quasi fosse costretta a pagare un vero e proprio tributo per aver violato terre incontaminate. Da sempre fatalità o sfortuna sono le compagne della Dakar e in qualche modo hanno spesso avuto il sopravvento su spettacolo e spirito d’avventura, costanti positive del rally.

Nel corso degli anni gli organizzatori hanno ricercato formule più adeguate alle esigenze dei piloti e del-l’intera carovana che per quindici giorni e oltre 10 mila chilometri di piste, affrontava questa esperienza. Purtroppo non sempre le scelte sono state azzeccate e spesso hanno fini-to per tradire le aspettative, senza garantire quello spettacolo legato al-l’avventura che rimane il motivo trainante di questa gara.

Oggi, di quella carovana miliardaria che attraversava il deserto sino a qualche anno fa non è rimasta più traccia. Chi l’avrebbe mai detto. Dopo aver toccato il fondo negli anni ’93/94, quasi dimenticata, la Dakar, l’avventura per pochi inarrestabili amanti del confronto con “l’impossibile”, è ritornata a destare un certo interesse tra gli appassionati. E soprattutto la moto e la competizione motociclistica sono il nuovo elemento trainante di questa gara.

Lo spagnolo Sotelo, terzo nell'assoluta

Lo spagnolo Sotelo, terzo nell’assoluta

Il merito? Certamente di Hubert Auriol, ex-dakariano della prima ora, vincitore di due edizioni in sella ad una due ruote e dell’ultima seduto al volante di una 4×4. Il solo pilota capace di imporsi in queste due categorie. Il francese, attuale direttore della TSO, pare aver indovinato la formula giusta, riportando al ruolo che spettava di diritto la regina delle competizioni africane. Ha preso in mano lo scettro della Dakar nel 1994, dopo la fallimentare esperienza di Gilbert Sabine.

E presto è riuscito a dare una nuova identità a questo rally, seguendo il principio del ritorno alle origini. La gara ha sempre vissuto sulla presenza dei privati e di chi fondamentalmente fosse attratto dal-l’avventura e dall’Africa. La formula attuale, infatti, ha consentito con una spesa “modesta” rispetto al recente passato di iscriversi un po’ a tutti. L’esperienza maturata da Auriol in questi anni e la sua stessa grande passione per l’Africa, hanno consentito alla Dakar di ritornare ad essere spettacolare, affascinante e, per quanto possibile, sicura.

Soprattutto il nuovo direttore e il suo staff sono stati in grado di individuare e risolvere i problemi e gli errori che in passato hanno condizionato questa gara. Serviva un uomo dal pugno di ferro, che fosse in grado di decidere per tutti, con la responsabilità delle vite di centinaia di persone. Un impegno non da poco, quello assunto da Auriol, il ritrovato condottiero di questa gara. Quest’anno il numero delle iscrizioni è aumentato del 25% rispetto all’edizione 1995, giungendo alla cifra record di quasi 300 piloti, 140 motociclisti.

I concorrenti, inoltre, hanno potuto scoprire un percorso inedito nel 70%, adatto sia alle bicilindriche sia alla nuova “moda” delle monocilindriche. Pochi i trasferimenti, che secondo Auriol deconcentrano i piloti e sono spesso causa di incidenti e soprattutto un percorso particolarmente vario, con 15 tappe una diversa dall’altra. Particolare attenzione ha rivestito anche la parte della copertura televisiva e stampa. con oltre 80 paesi interessati ai collegamenti in diretta con le tappe del raid.

Nonostante tutto, l’ineffabile organizzazione messa in piedi dal francese ha finito per scontrarsi contro la fatalità, l’imprevisto e l’evento ineluttabile. Ma i rally, come del resto tutte le competizioni motoristiche, sono purtroppo anche questo. Di certo è che questa Dakar sembra avviata verso un nuovo ciclo, così come tutti i rally di questo genere. La Desert Cannonball, il Rally di Tunisia e l’Atlas Rally ne sono la dimostrazione; hanno rinnovato la loro formula, tenendo in particolare considerazione le esigenze (anche economiche) dei “privati” e riscuotendo un discreto successo.

Le Case si sono organizzate per vendere a cifre abbordabili moto preparate, garantendo anche un’adeguata assistenza in gara. Potrebbe trattarsi della “pista” giusta per ritornare a dare definitivamente interesse ad una disciplina motoristica spettacolare.

QUARTO SUCCESSO: EDI INDOMABILE
Il Lago Rosa ha salutato il “poker” di Edi Orioli. Il trentatreenne pilota di Ceresetto di Martignacco ha centrato la sua quarta Dakar. Un successo giunto un po’ a sorpresa, ma spiegabile con la sua lunga esperienza nei rally. Edi da queste gare ha ereditato tutto, successo, soldi, riconoscimenti professionali, tanto quanto neppure le vittorie nell’enduro internazionale gli avevano assicurato.

Orioli 1996-4

Quest’ultima è stata un’edizione della Dakar tra le più dure che si ricordano. Il nuovo percorso era particolarmente difficile e anche se il GPS ha dato una grandissima mano ai concorrenti, la navigazione e soprattutto l’intelligenza tattica e di gara hanno avuto il loro peso determinante. Il ritorno del percorso lungo le piste della Mauritania, il passo di Iguekkateme, sempre in quella zona, e il duro tracciato della Guinea, sono stati determinanti.

Solo 50 i piloti all’arrivo su 140 motociclisti che hanno preso il via. I 6.000 chilometri di prove speciali hanno lasciato il segno. Per arrivare alla meta era necessario risparmiare il mezzo e le energie. E poi ai concorrenti si è presentato un insolito scenario, l’“herbe à chameaux” ovvero dei cespugli infernali tra la sabbia e le dune che spezzavano il ritmo, ma soprattutto le braccia. Nella prima e nell’ultima parte del percorso, in particolar modo, l’abbondante pioggia ha consentito a questo tipo di vegetazione, tradotta letteralmente in “erba per cammelli”, di crescere rigogliosa, creando un ulteriore ostacolo.

Molti i copli di scena, s’inizia con Heinz Kinigadner, il primo favorito ad abbandonare il palcoscenico con la sua KTM, ritiratosi a cinquanta chilometri dal traguardo della sesta tappa. L’austriaco ha dovuto ritornare a casa con

Sfortunato Heinz Kinigadner, costretto al ritiro

Sfortunato Heinz Kinigadner, costretto al ritiro

all’attivo un successo e due secondi posti. Diversa sorte per Jordi Arcarons, del team KTM Lucky Strike, il solo in grado di inseguire lo scatenato Orioli, anche se ha terminato secondo a oltre un’ora dal pilota Yamaha. Sfortunata la prestazione del team italiano Cagiva CH Racing di Roberto Azzalin. Schierava al via tre moto ufficiali Cagiva Elefant con il marchio Kremlyovskaya, affidate a Davide Trolli, Alexander Nifontov e Cyril Esquirol.

Scatenato l'italiano Trolli, due speciali vinte, ma purtroppo costretto al ritiro

Scatenato l’italiano Trolli, due speciali vinte, ma purtroppo costretto al ritiro

L’italiano sino al terzultima tappa è stato in gara, cogliendo due successi parziali, due secondi posti e due terzi. Purtroppo si è dovuto arrendere per problemi al motore quando in rimonta tallonava il capoclassifica. La svolta della gara si è avuta nel corso della tappa che portava a Zouerat, quando il favorito Stephane Peterhansel ha avuto grossi problemi alla sua bicilindrica. Il reclamo

presentato dalla Yamaha Motor France parlava di gasolio nel serbatoio al posto della benzina; i rilevamenti non hanno potuto accertare sino in fondo la causa e quindi l’organizzazione ha respinto il reclamo. Peterhansel, con quasi tre ore di ritardo sul primo, aveva chiesto l’annullamento della prova; non soddisfatto decideva di abbandonare la gara in forma di protesta.

A questo punto iniziava la galoppata solitaria di Edi Orioli, divenuto nuovo leader della classifica generale. Controllava Trolli e successivamente Arcarons, con un margine di vantaggio sufficiente per guidare in scioltezza. Un piccolo problema di alimentazione, probabilmente benzina sporca anche per lui, gli ha fatto perdere preziosi minuti, come un problema all’ammortizzatore posteriore lo ha costretto a rallentare notevolmente nell’ultima tappa.

Una vittoria a testa anche per Kari Tiainen con l’Husqvarna e Thierry Magnaldi di con la Yamaha. Per quanto riguarda gli italiani, oltre a Trolli si è ben comportato Fabrizio Meoni in sella alla KTM con due successi personali e un trentanovesimo posto finale. Buone anche le prove di Guido Maletti con la Kawasaki, sesto nella assoluta, Massimo Chiesa ottavo, Emanuele Cristianelli tredicesimo, Aldo Winkler diciannovesimo, Angelo Fumagalli ventesimo e Alberto Morelli giunto quarantanovesimo.

 

Tratto da Motociclismo
Testo: Biagio Maglienti
Foto: Gigi Soldano DPPI