DAKAR 1994 | CIRO DICE BASTA

Foto Gigi Soldano
Testo di Biagio Maglienti tratto da Motociclismo

Ciro ha detto stop; basta con la Dakar e le gare. «A trentotto anni — dice Alessandro De Petri, in arte “Ciro” — bisogna anche saper smettere». Conoscendolo sappiamo quanto gli possa essere costata questa decisione. Tanto è che ha voluto concludere un’importante parentesi della propria vita in modo poco traumatico, schierandosi al via della 16a Dakar da semplice partecipante, quasi un turista. «Ma non pensiate sia stato comunque facile — continua il bergamasco — reprimere il mio istinto. Mi sono dovuto imporre una forma di autocontrollo. Nelle prime tappe ha prevalso il De Petri pilota. Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un 10458928_10203400208157276_1120159053910473021_n - Copiamatto. Assurdo! Al termine della seconda speciale ero 35esimo; sono partito e ho iniziato a tirare. Ho sorpassato quasi tutti, arrivando a un minuto dai primi. Li superavo nei posti più impensati, difficili, rischiando il tutto per tutto. Poi ho riflettuto; ho capito che non era questo il motivo per il quale avevo deciso di prendere parte a questa gara ancora per una volta. Nella tappa successiva ho preso il via e, percorsi dieci chilometri, mi sono fermato. Ho messo la moto sul cavalletto e ho aspettato un quarto d’ora. È stata una vera e propria sofferenza vedere gli altri passare e io lì fermo; ma alla fine ce l’ho fatta. Frenato l’istinto agonistico ho iniziato la mia vera Dakar; una Dakar da “esploratore”, per apprezzare tutto quanto in questi undici anni mi ero perso. Nuove emozioni, luoghi e persone; ho fotografato tutto nella mia mente e presto, anzi prestissimo lo racconterò in un libro. Beninteso, non per protagonismo o a scopo di lucro (il ricavato andrà in beneficenza). Unicamente per dare una volta per tutte il reale volto ad una gara troppo spesso non capìta».

 

Alessandro De Petri ha detto basta a trentotto anni, dopo aver vinto per tre volte il Rally dei Faraoni, due il Tunisia, raccogliendo un totale di 67 successi parziali di tappa. È stato per anni l’italiano simbolo di questo genere di competizioni. Gli è mancata, forse più per sfortuna che per altri motivi, la vittoria importante. Quella Dakar sognata ad occhi aperti in diverse occasioni, della quale ha sentito più volte il profumo e che il destino avverso gli ha sempre negato. Ma De Petri non sembra curarsi di questo “piccolo” particolare.

«È chiaro, mi pesa non aver mai vinto una Dakar, perché da pilota professionista quale ero, non vincere questa competizione è un po’ veder 11140119_10204842355488178_6697427028410064163_nsfumare il sogno per il quale hai impegnato tutte le forze e parte della tua vita. Però analizzando obiettivamente il problema, senza farmi illusioni, sono ugualmente soddisfatto. Se avessi corso questa gara con un’altra testa probabilmente il successo non mi sarebbe sfuggito. Il mio carattere esuberante me lo ha impedito. Con questo non rinnego nulla di ciò che ho fatto in questi anni. Sono così in gara e nella vita, non avrei potuto comportarmi diversamente. Se dovessi tornare indietro rifarei tutto quanto, non cambierei nulla e soprattutto non cambierei mai i miei successi parziali con una vittoria finale».

La Dakar è una gara dura, invivibile, ma proprio per questo affascinante. «È unica al mondo — continua Ciro — e solo chi vi ha partecipato può realmente capire le motivazioni che spingono i piloti ad affrontare fatiche sovrumane, mettendo a dura prova e a volte superando il limite di sopportazione per qualsiasi essere vivente». E dieci anni di Dakar non si dimenticano tanto facilmente. Soprattutto se, come nel caso di De Petri, sono stati parte integrante della sua vita di pilota e inevitabilmente di uomo.

Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un matto, assurdo!

Così Ciro inizia: «Che avventura incredibile. Il mio passato è indissolubilmente legato alla motocicletta. Ho iniziato a gareggiare prestissimo e con buoni risultati, nel cross e nell’enduro. Terzo in un mondiale cross 125 e campione europeo di enduro. Poi ho deciso di abbandonare le corse per dedicarmi alla mia attività principale, quella di odontoiatra. Ma il futuro stava per riservarmi ancora un qualcosa di straordinario. A ventott’anni sentii parlare di una gara con un “matto” che attraversava l’intero deserto sino a Dakar, partendo da Parigi. Gareggiava contro le auto e vinceva».

Per la cronaca il “matto” era Neveu e la gara la Parigi-Dakar «Non ho avuto dubbi e mi imbarcai in quella che poi sarebbe divenuta, a breve, la mia vera professione. Andai da Farioli e chiesi una moto; poi comprai una Range-Rover usata e ingaggiai Felicino Agostini (fratello di Giacomo e cognato di De Petri) e Giacomo Vismara. L’avventura era iniziata».

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Lo guardi e il suo volto tradisce l’enfasi. La prima esperienza e l’ultima sono indubbiamente quelle che lo coinvolgono di più a livello emotivo. I ricordi lo riempono e si accavallano. Si ricorda di Claudio Torri, un illustre sconosciuto, ma… «La Dakar, non vorrei cadere nella retorica, è una vera scuola di vita. Ti insegna a lottare, a cavartela da solo e ti aiuta a capire la gente. Un personaggio in particolare mi è rimasto nel cuore. Un “privato”, l’architetto milanese Claudio Torri. Si è presentato al via con noi nel 1983. Era per tutti la prima esperienza, ma per lui lo fu ancora di più. Si era già mezzo distrutto (fisicamente) nel prologo e continuò questa sua opera di annientamento nel prosieguo della competizione. All’imbarco per l’Africa rischiò di non espatriare; aveva posato i documenti e il portafogli sulla sella della moto. Quando l’elicottero si alzò in volo lo spostamento d’aria sollevò i documenti e i soldi che finirono in acqua. Poi, qualche giorno più tardi, al limite tra il comico e il grottesco, nel tentativo di raddrizzare il manubrio della mia moto, aiutando Agostini, prese in mano il martello e distrattamente si diede una martellata in testa. Per quasi tutta la gara Torri fu il protagonista di un continuo succedersi di eventi di questo genere. Mai un lamento. Ore e ore consecutive in sella senza dire una parola: fantastico e incredibile!».

Tra i ricordi spunta anche il mito, quello di Sabine. La Dakar è legata a questo nome nel bene e nel male. De Petri lo ricorda così: «Non DePetri_1994_1sbagliava mai, era capace di prendere decisioni importanti, dalle quali dipendeva l’incolumità di tutta la carovana della Dakar Ha sempre avuto ragione e i piloti, i meccanici e tutto l’entourage al seguito della gara hanno iniziato a fidarsi ciecamente di questo francese spuntato dal nulla, sino a quando la sua figura è divenuta un punto di riferimento costante per tutti noi, un faro da seguire. E quando è mancato, quando è giunta la notizia che l’elicottero si era schiantato al suolo, tutta la carovana in silenzio è ritornata sui propri passi andando sul luogo del tragico evento. Era notte; quando arrivammo ci si presentò una scena apocalittica: lamiere sparse ovunque, non c’era il minimo segno di vita. Non potrò mai dimenticare».

Questa è la Dakar, nei suoi accenti più forti, ricordata da Ciro De Petri. Il terribile incidente al Faraoni nel 1992 lo ha convinto ad abbandonare. «Sì probabilmente la molla che ha fatto scattare in me la decisione di smettere è venuta anche a seguito dell’incidente. Due mesi di coma non sono uno scherzo. Ma, sembrerà strano, un controsenso, l’incidente è stata l’occasione per risalire nuovamente in sella, per l’ultima volta. Uscito dal corna mi sono lentamente ripreso, ma mi rimaneva una sorta di intorpidimento e di stanchezza; un vero e proprio tormento. Una mattina, tre mesi fa, ho deciso che sarei ritornato a correre. Ho ripreso ad allenarmi e immediatamente mi sono passati tutti i disturbi; avevo già vinto, ancor prima di iniziare la gara».

Dakar 1985 | La Cagiva si regala Hubert Auriol

Se c’è qualcuno che può giudicare BMW e Ligier-Cagiva costui è senz’altro Hubert Auriol, il trentenne francese vincitore con la BMW di due Parigi-Dakar, passato quest’anno alla Cagiva per sviluppare la 750 Elefant. Naturalmente Auriol ammette la superiorità della sua moto attuale.

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«Non posso sbilanciarmi più di tanto – dice – perché ho provato la Ligier-Cagiva solo nel Rally di Algeria il cui percorso è assai diverso da quello della Parigi-Dakar; l’impressione iniziale è che la potenza tra le due moto sia più o meno equivalente; la sospensione posteriore della Cagiva è assai più efficiente, quanto al peso credo che la Ligier-Cagiva sia inferiore di una quindicina di chilogrammi rispetto alla BMW, quindi…»

Per l’ex pilota BMW e «re» delle gare africane è meglio la Cagiva

I maligni dicono che hai lasciato la BMW per via della rivalità con Rahier, l’ex crossista belga che era stato assunto per farti da spalla due anni fa e nell’ultima edizione ti ha soffiato la vittoria…

«E una spiegazione semplicistica questa: ho cambiato squadra per diverse ragioni. Dopo tanti anni passati con la BMW cercavo nuovi stimoli, e collaborare con un team entusiasta come quello della Cagiva per realizzare dal nulla una moto vincente è uno stimolo enorme».

Rahier?

«No, non è stato lui la causa».

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La squadra Ligier-Cagiva è in realtà italiana o francese?

«Marinoni. uno dei piloti, è italiano; due meccanici al seguito sono italiani, tutti gli altri sono francesi. Ci siamo divisi i compiti: la Cagiva ha costruito la moto, l’ha modificata seguendo le nostre indicazioni dopo le prime prove; io che ho più esperienza di loro di corse africane ho organizzato il team».

Al Rally di Algeria le Ligier-Cagiva hanno sofferto di un guasto corrente: la rottura dei cuscinetti del cambio e la bruciatura dei dischi frizione. Per la Dakar il problema verrà risolto con nuovi cuscinetti e con l’adozione di un circuito di raffreddamento integrale dell’olio che lubrifica cambio e frizione.

Tratto da Rombo

DAKAR 2003 | Il bilancio del giorno dopo di Gio Sala e Arnaldo Nicoli

intervista di Danilo Sechi

I frenetici ritmi imposti dal Rally Dakar sono alle spalle, i campioni dell’enduro Giovanni Sala e Arnaldo Nicoli – tra i protagonisti della gara in terra africana quest’anno conclusasi sulle spiagge di Sharm El Sheikh, in Egitto – hanno ripreso le attività abituali, i loro pensieri sono già rivolti ai prossimi appuntamenti previsti dalla loro disciplina d’elezione ma prima corre l’obbligo di fare un bilancio sull’ultima esperienza vissuta.

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“Non posso proprio dire di essere soddisfatto di come sia andata” racconta Sala, 39 anni, di Gorle “questa era una edizione della Dakar piuttosto vicina alle mie caratteristiche, dove potevo fare proprio bene, invece mi ritrovo solo con un 14° posto finale. Stavolta però le mie colpe sono davvero limitate, devo prendermela con altri fattori. Innanzitutto la gara non era adatta al mio bicilindrico, troppo pesante e quindi poco maneggevole tra le tante pietraie e piste sinuose che abbiamo incontrato, e questo mi ha rallentato molto soprattutto in Tunisia, poi sono stato frenato dapprima da una gomma che mi si è letteralmente squagliata, poi da problemi al motore proprio nella tappa più adatta ai bicilindrici e infine anche da un tubicino di alimentazione che non faceva arrivare il carburante al motore. Insomma un continuo tribolare che mi ha

Paris-Dakar 2003 Gigi Soldano

Paris-Dakar 2003 foto Gigi Soldano

demoralizzato.”

2003-giovanni-sala 2– Comunque un paio di acuti non sono mancati. “Si, due vittorie di tappe sono arrivate. E volendo vedere il bicchiere mezzo pieno non sono neanche incappato in brutte cadute, da questo punto di vista è andata bene. Va però anche detto che mi sono preso una brutta influenza e per qualche giorno ho corso con la febbre e imbottito di medicinali… non mi era mai capitato, sarà stata l’incredibile escursione termica della Libia. Vorrà dire che la prossima volta farò anche il vaccino antinfluenzale!”

– Per la stagione enduro 2003 quali sono i programmi e gli obiettivi? “Dovrei correre nella classe 250 4 tempi ma al momento non ne sono ancora del tutto sicuro perchè la nuova Ktm non è ancora pronta. Parto per vincere i titoli mondiale e italiano e per meritarmi un posto nella nazionale che correrà in novembre la Sei Giorni in Brasile, naturalmente me la vedrò con avversari fortissimi e nessuna sarà un’impresa facile. In questi giorni mi concederò qualche giorno di sci in montagna, ospite del mio meccanico della Dakar, che abita a Innsbruck, poi la prima gara sarà ad Arcore il 9 febbraio”.

Ancora più romanzata la Dakar di Arnaldo Nicoli che, su un camion di assistenza veloce del team Ktm, ha rischiato la vita quando una mina, all’ingresso in territorio egiziano, ha distrutto la ruota posteriore del loro mezzo costringendolo alla resa. “Ho quindi proseguito la mia avventura sull’auto del meccanico di Fabrizio Meoni” spiega il pilota di Ardesio “e siamo arrivati sino al traguardo finale, seppur seguendo tracciati alternativi più agevoli. Fra l’altro la mia presenza è risultata anche assai utile alla fine della 14a tappa, tra Dakhla e Luxor, dopo che Meoni era caduto malamente ed aveva semidistrutto la moto nel tentativo di recuperare terreno sul leader Sainct. Ci abbiamo lavorato fino alle tre di notte, per riconsegnarla al meglio al campione toscano e consentirgli almeno di tentare la difficile rimonta. Lui ci ha provato ma non ce l’ha fatta, peccato”.

– Poi cosa è successo? “Sono rientrato a Bergamo e ho ripreso il mio lavoro alla Ktm Italia, a Gorle, ma adesso mi prendo una settimana di vacanza, penso proprio di essermela meritata!” – Nel settore enduro cosa l’attende? “Quest’anno correrò con la Husaberg partecipando al campionato italiano nella classe oltre 4 tempi”.

DAKAR 1998 | L’ultima fatica di Aldo Winkler

La Dakar è come una malattia ti entra nel sangue e non te ne liberi più. Il lavoro era diventato molto impegnativo e il tempo a disposizione scarseggiava. Però la Dakar stava cambiando, potevi comprare una moto KTM già pronta per I’Africa, quasi uguale a quelle ufficiali, un sogno! Bellissima! Potevi fare il kit assistenza dove prendere quello che ti serviva (a pagamento). Potevi anche comprare e farti montare i copertoni con mousse!!! (Esagerato! Questo, prima, era un dramma). Tutte queste facilitazioni non potevano non farmi cadere in tentazione. Con Alberto Morelli, ormai diventati super amici, prendiamo la decisione. Ci iscriviamo e portiamo il meccanico aviotrasportato Adriano Micozzi in comune. L’esperienza Dakar è unica nel suo genere, ti devi concentrare e pensare solo ad una cosa, con una intensità fortissima, Winkler_1998_1 vivendo intensamente la natura e la competitività! Questa immersione totale nella corsa ti fa sentire pieno di vita e scompaiono tutte le ansie esistenziali che ci affliggono nel quotidiano. Per questo ci sono ricaduto! Sapendo che ci sarebbero molti momenti in cui avrei maledetto il momento in cui avevo deciso di tornarci.

Partenza da Parigi, sempre una grande emozione, il tempo è brutto, molto brutto, nebbia, freddo. A metà della Francia ci fanno fare una speciale. Siamo attrezzati per fare 1.000 km invernali .cado nella speciale. Che caldo così vestito e con il casco che traballava! E dopo aver lavato la moto via, si riparte completamente sudato. A Narbonne ci sono doccia e albergo, ma poche ore di sonno. Micozzi arriva col furgone con tutte le nostre cose.

Winkler_1998_2Colazione e trasferimento al parco chiuso. Prima della speciale ci devono dare la tabella di gara ma siamo in tanti ed è difficile dar retta a tutti. Sono in ritardo sulla tabella a causa della coda, che pensavo fosse veloce e scorrevole così ho lasciato la moto accesa, ma quando riparto la frizione non stacca. Preoccupato, faccio la speciale molto piano, e subito dopo ci sono i lavaggi. Per fortuna ci lasciano imbarcare le moto sul furgone e dormo dietro sotto le moto. Arriviamo a Granada alle 2 del mattino.

GRANADA ALMERIA
Sveglia all’alba, in programma due speciali: la prima su un fettucciato fangoso, la seconda molto bella con bellissimi paesaggi ad allietare i concorrenti. Poi ci imbarchiamo. Nel porto il primo spavento. La moto, che era bellissima e super guidabile e stabile, aveva solo un difetto: la messa in moto era a sinistra, e non solo non ero abituato, ma avendo la caviglia sinistra bloccata e dolorante, era davvero difficile metterla in moto. A causa di questo del mio problema fisico e dal fatto che in Austria avessero, non so per quale motivo deciso di rendermi la vita così difficile, fatto sta che la moto non ne voleva più saperne di partire. Ho impiegato ben 20 minuti per rimetterla in moto.

ER RACHIDA – OUARZAZADE
Speciale difficile con molta navigazione. Diversi concorrenti in ricerca del “cp”, navigo senza tracce per GPS, capisco però che sono Winkler_1998_3indietro, probabilmente ho fatto meno chilometri ma più lenti. La moto è fantastica, essendo così stabile puoi andare fortissimo. Si fa rifornimento. Che bello, danno 15 minuti a disposizione, mentre prima si faceva la coda in speciale e tutti si azzuffavano per passare davanti. Probabilmente, in un rettilineo molto veloce a onde, trovo una sequenza che mi rimbalza facendomi cappottare in avanti. Mi ricordo che vedevo tutto crepato come avessi davanti un parabrezza rotto. Sono totalmente “sbaccalito”, per fortuna arriva Alberto che prende in mano la situazione. Prima cosa mi ripara la visiera del casco perchè chi batte la testa con segni sul casco viene fatto ritirare d’ ufficio. Infatti, passa auto dell’organizzazione, ci guarda, vede che è tutto ok e va via. La moto è distrutta, non avevo più il cupolino e il telaietto posteriore era tutto piegato, il manubrio storto, e quando la accendo esce l’olio dal tubo del radiatore dell’olio che tranciato di netto. Alberto fa il miracolo: fa un “by pass” e così mi fa ripartire. Sono stato dietro di lui per un po’, ma non ero in me, in evidente stato di shock. Vedo la polvere di un’ auto e parto a manetta per raggiungerla, Alberto non riesce a starmi dietro, così lo perdo. L’auto purtroppo si era persa, insieme cerchiamo la strada giusta e solo in quel momento mi accorgo che Alberto non c’era più dietro di me! Nell’urto perdo la “balise”, la recupero e la tengo tra le gambe. Mi accorgo che mi sanguina il naso. Lascio perdere l’auto e proseguo con il GPS, così arrivo alla fine della speciale. Trovo chi mi dà un po’ di olio motore per rabboccare la perdita. Faccio il trasferimento e comincio a sentire dolori dappertutto, il ginocchio e il pollice destro in particolar modo. All’arrivo vado direttamente in infermeria. Adriano vede la moto e si mette le mani nei capelli, va da KTM e comincia una lunga notte. Spenderò 6.000.000 di lire di ricambi.

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OUARZAZADE – SMARA
Un po’ titubante riparto al mattino, non mi sarei osato a non partire per rispetto verso Adriano che ha lavorato tutta la notte facendomi trovare una moto meglio che nuova, perfetta come l’avevo comprata! Si parte prestissimo, ancora al buio per il trasferimento, con un freddo pazzesco per poi farci attendere un sacco alla partenza in attesa dell’alba, perché si parte solo con la luce. Parto cauto quasi un tipo di guida turistica, sia per il dolore che provavo, che per “la strizza” presa. Mi si rompe la mousse, monto la camera d’aria e arrivo a Smara col buio. Mannaggia, avevo bisogno di riposo. Faccio fatica a piegare il ginocchio, è molto gonfio. Il pollice mi fa male e faccio fatica ad impugnare la manopola, e ancor più fastidioso, mi fa male il coccige, dolore che mi condiziona nella guida. Anche la mascella è tutta anchilosata, soffro tanto.

 

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ZOUERAT – EL MREITI
Tappa difficilissima, molto lenta con passaggi degni di una gara di trial. Tantissime dune di sabbia difficili. Una tappa veramente estenuante. Le botte prese nei giorni precedenti le sento tutte. Mi insabbio molte volte. Arrivo al rifornimento, raggiungo Quaglino fermo poche centinaia di metri prima senza benzina. Sto per tornare ad aiutarlo ma mi accorgo che mi si era aperto un serbatoio posteriore che perdeva copiosamente, e nel frattempo qualcuno si era fermato ad aiutarlo. Riparto, ora però vado a manetta senza consumare benzina. Sono Winkler_1998_6stanchissimo. Arriva il terribile buio e devo fare ancora 60 km. Andare al buio è veramente difficile e rischioso. Arrivo sfinito, ma a El Mreiti non ci sono nè assistenza, nè aviotrasportati. Smonto il serbatoio, dei signori gentili di un auto olandese mi aiutano, con un coltello rovente sciolgo la plastica del serbatoio e saldo la crepa che si era aperta. Dormo poco e sono tutto rotto, ora il dolore è davvero forte. Mi sono maledetto più volte di essere tornato a correre.

EL MREITI – TAOUDENNI
Un’altra tappa difficile, tante dune e molto ripide, per fortuna la sabbia è relativamente dura. Anche se ormai sono in “cruise-mode”, cerco di essere regolare senza correre rischi e soprattutto non farmi ulteriormente male. Ho fatto una gran parte della tappa senza nessun tentennamento, ho superato molti piloti, ma ad un certo punto mi infilo in un buco di sabbia e mi insabbio. Mannaggia! Per uscire di lì ho speso tutte le mie residue energie mettendoci parecchio tempo, più di 30 minuti per tornare in sella. Riparto ma non più lucido, non riuscivo ad andare come prima. Mi accorgo che perde di nuovo il serbatoio, e si rompe la guarnizione dell’olio. Benzina e olio mi finiscono addosso, sono tutto macchiato e sporco. Arrivo alla fine, controllo l’olio e il misurino è inesorabilmente asciutto! Combinazione, quando succede qualcosa di storto, è sempre quando non c’è l’assistenza di Adriano, sono proprio un pò sfortunato. Lavoro molte ore sul serbatoio e lo riparo definitivamente. Nel frattempo dei briganti rapinano un camion vicino a me e sparano ad alcuni concorrenti, ho visto personalmente auto con i fori dei proiettili.

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TAOUDENNI – GAO
Parto con la guarnizione dell’olio rotta. Trovo chi mi da 2 kg. di olio e li porto con me. Per fortuna annullano la tappa per l’episodio della tappa (di solito la tappa prima del giorno di riposo è bella tosta) partiamo senza orario, tutti insieme. Aiuto Salvador che si era capottato lo trovo svenuto, ma si riprende, si rialza e riparte. Al “pc”, controllo l’olio e rabbocco, ma lo finisco troppo presto. Mancano ancora 400 km!! Il GPS ti da fiducia anche se odio mettere tutti quei numeri per programmarlo, lo seguo, incurante di seguire le tracce. Ad un certo punto perde il segnale, lo spengo, lo riaccendo, nulla!! Decido di andare nella stessa direzione, mi viene I’ansia e dopo un bel po’ ormai disperato per essermi perso, ritrovo le tracce e faccio un gran respiro di sollievo.
Al punto di rifornimento benzina mi faccio dare altro olio e rinfrancato, riparto facendo gli ultimi 100 km.al buio. Sono stanchissimo, tutto Winkler_1998_9 sporco di olio e faccio gli ultimi 112 km di trasferimento. Gao mi sembra un posto di briganti, le persone hanno atteggiamenti aggressivi. Dormiamo in un albergo fetido e fa paura solo uscire. Mi rubano la balise e i ferri della moto (per i ferri quasi piango, li avevo scelti con grande cura e sono fondamentali per restare in corsa). In infermeria mi guardano il ginocchio e il pollice, mi bendano, fortunatamente non avevo nulla ai legamenti ma avevo del versamento di liquido, soffrivo molto a freddo le prime due ora al mattino prima che si scaldassero. Il male alla mandibola era passato quasi del tutto (a casa dal dentista mi toglieranno 2 denti che si erano crepati, mentre la cosa più fastidiosa era il dolore al coccige. In ogni caso mai come in questa Dakar ho apprezzato il giorno di riposo. Adriano ha fatto molta fatica, visto che il camion KTM dei ricambi non era arrivato, ma grazie a Roberto Boasso, meccanico ufficiale KTM, hanno risolto il problema della guarnizione.

GAO – TOMBOUCTU
Tappa bellissima, la prima che mi godo veramente a guidarla. Corro solo un rischio prendendo una pampa perché stavo andando veramente forte. Arrivo presto, tutto ok. Con sorpresa vedo che arrivano anche i camion KTM dell’assistenza.

TOMBOUCTU – NEMA
Ci avevano detto che la tappa era facile, invece sono tutti molto lenti, incontro tanta erba di cammello, l’andatura è molto lenta, avrò messo al massimo la terza. Arrivo con la luce, ma al tramonto.

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NEMA – TIDJIKJA
Dicono che è la tappa più difficile della corsa, ed è vero! L’ho già fatta in edizioni precedenti, ma in due giorni. E’ lentissima, con il tipico paesaggio della Mauritania (sabbia molle con molte pietre). Sono sempre solo. Al famoso passaggio degli elefanti bisogna scendere da un altipiano tra rocce enormi, sembra di essere in una mulattiera ligure. Cado parecchie volte. Al secondo punto di rifornimento benzina sono già le cinque e mancano ancora 250 km. Ero andato troppo piano per risparmiare le forze. Preso dalla paura del buio, vado a manetta per fare meno strada al buio. Penso che sia stato il momento in cui sono andato più forte in tutto il rally. Alle 18,30 è buio e mancano 150km!! E’ terribile andare al buio, non vedi I’altezza delle dune e senza riferimento non è facile passarle. Cadute e insabbiamenti a non finire. Arrivo a fine speciale alle 23,30 giusto in tempo per non prendere la forfettaria. Sono esausto. Dall’arrivo della speciale aI bivacco ci metto ancora un’ ora. Finita la tensione della speciale, cado ogni 100 metri in più mi perdo e in più non trovo il bivacco. Ennesima giornata senza assistenza, controllo da solo tutta la moto, il filtro aria, rabbocco l’olio e ne metto troppo. Mi fa di nuovo molto male il ginocchio e dormo male.

TIDJIKJA – ATAR
Winkler_1998_11Sono pochi chilometri, ma tutti di pietraie da superare in prima marcia. A volte devo persino spingere la moto a piedi. Trovo Sala disperato, mi dice che si deve ritirare, sa che il camion KTM non passa, ha già controllato tutta la moto ed è sicuro che è il rotore/volano ad averlo abbandonato. Gli dico: “che problema c è?” Cerco tra le mie cose e gli do il mio rotore di ricambio. E mi chiede come cavolo mai mi porto un rotore/volano con me? A dire la verità avevo un pò di tutto, memore delle vecchie Dakar. Verso la fine tappa, mi perdo, il GPS non funziona, non prende, seguo delle tracce che poi finiscono. Traffico sul GPS e finalmente ricomincia a prendere il segnale, faccio gli ultimi 80 km in mezzo ai camion, tutto a GPS. Arrivo e sono stanchissimo, ovviamente non c’è l’assistenza. Devo cambiare gomme. Sul duro si sono finite. Vedo il “camion balai” e rubo la mousse anteriore ad una moto ritirata. Rimedio anche una ruota posteriore completa, usata ma con mousse buona, che mi prestano facendomi promettere di ridarla il giorno dopo. Anche perchè non avrei avuto la forza di cambiare la gomma posteriore dopo aver smontato e montato la mousse anteriore.

ATAR – BOUTILIMIT
Probabilmente questa sarà I’ultima speciale difficile di questa Dakar 1998, almeno me lo auspicavo. Partiamo da Atar, ci sono dei camion bellissimi, è una zona molto pietrosa. Si capisce che I’orientamento sarà molto importante. Sicuramente sarà la speciale più bella dal punto di vista paesaggistico. Dune e scenari pazzeschi!! Viaggio tutta la tappa con Quaglino. Ci si insabbia, sbagliamo strada, torniamo indietro e troviamo la pista giusta, era un sentierino, anzi una mulattiera in salita molto brutta, penso che fosse impossibile che le auto e ancor peggio i camion potessero passare di lì. Saliti sull’altopiano, ci troviamo in una tempesta di sabbia, non si vede nulla, e il road book dice di seguire montagne diverse, con disegni di picchi da aggirare come riferimento. L’unica è affidarsi al GPS. Siamo un gruppo di 6/ 7 moto e ci infiliamo in un bruttissimo erg di dune con sabbia molle. Mi sembra impossibile che dovessimo fare ancora 80 km in quelle condizioni. Vediamo delle auto da lontano e le inseguiamo. Sala non ci segue e si perderà. Fermano la speciale al rifornimento causa le condizioni metereologiche. Ci resta ancora da fare un lungo trasferimento di cui 100 km difficili. Arriviamo col buio. Metto a posto la moto (altra giornata senza assistenza) e facendo il pieno per il giorno dopo, vedo che il serbatoio perde ancora! Per fortuna trovo il camion KTM e di nascosto (era vietato fornire assistenza perchè era una tappa “marathon”, do il mio serbatoio in cambio di uno nuovo. Cerco di montarlo ma non quadra con il telaietto. Non so come fare, alla fine mi stufo e lo lego con cinghie e fascette. Trovo alloggio in una tenda tuareg ma quando mi accorgo che come compagni di notte ho degli scorpioni, riesco a dormire pochissimo.

BOUTILIMIT -SAINT LOUIS
La prima speciale della giornata è bellissima e sinuosa. Avevo Quaglino davanti a me in classifica di 10 minuti, I’obiettivo era di riprenderglieli. Lo prendo, lo supero e tiro come un matto, tutto va bene ma alla fine sbaglio e perdo 2/3 minuti ma gli arrivo sempre davanti. Seconda speciale, devo partire con il mio orario ma la moto non parte, sono in affanno, perdo 3/4 minuti, finalemente parto e dopoWinkler_1998_13 pochi km mi insabbio in una salitina tra la vegetazione quasi raggiunto il mare. La moto non riparte più perdo altri 5 minuti, sento che sono in affanno e poco lucido. Per fortuna la speciale è facile lungo la spiaggia. Riprendo Quaglino, lo passo e gli do 2 minuti. Peccato senza tutti questi problemi probabilmente lo avrei superato in classifica.

SAINT LOUIS – DAKAR
Speciale del Lago Rosa: ormai la mano sinistra è inutilizzabile, ho il tunnel carpale che mi fa malissimo. Anche nelle Dakar precedenti ho sofferto di questo problema, soprattutto alla mano destra.. Nelle prime ore dovevo andare piano e poi piano piano mi passava, ma quelli che mi avevano superato non volevano più farsi superare per non prendere la polvere di nuovo. Mi ero fatto operare alla destra ma alla sinistra mi è rimasto il problema. In ogni caso sto davanti a Quaglino nel PS. anche se non basta per superarlo nella generale. Questa è stata la Dakar più sofferta che abbia mai corso. Che soddisfazione portarla alla fine! Invece di essere euforico mi sento malinconico, probabilmente perchè sento che questa felicità che provo, cosi intensa, non la proverò più perchè capisco che questa sarà la mia ultima Dakar.

NDR: Aldo Winkler concluderà la Dakar 1998 al 30° posto su 55 piloti al traguardo, quinto italiano al traguardo.

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DAKAR 1986 | Scintille in casa BMW!

CAO – Il legame fra il belga Gaston Rahier e la BMW. che ha fruttato due vittorie (moto) nelle ultime due edizioni della Paris-Dakar, si sta

La moto di Rahier doveva essere necessariamente avviata da un compagno

La moto di Rahier doveva essere necessariamente avviata da un compagno

per sciogliere. E non senza polemiche. La scintilla é scoccata mercoledi 15 gennaio. mentre il rally stava trasferendosi da Niamey a Gao.

Nel corso di una prova speciale lunga e tormentata. Rahier ha forato la ruota anteriore. Ha atteso il compagno di squadra Hau e gli ha fatto cenno di fermarsi affinché lui secondo pilota del team cedesse la ruota al suo caposquadra. Ma Hau, che in classifica generale era in quel momento ben piazzato. si è ben guardato dall’obbedire.

Giunto alla fine della p.s. l’inferocito Rahier ha sparato a zero su Hau e sul direttore sportivo della BMW. Beinhauer Sono due incompetenti – ha detto Rahier – e Hau non vincerà mai una Paris-Dakar perché è ingenuo come un bambino, tutto quel che sa fare è seguire chi è più esperto di lui nella navigazione, approfittare cioè della fatica altrui. Questa è la mia ultima gara con la BMW.

La vicenda ha un sapore un po’ ironico perché le accuse rivolte da Rahier ad Hau sono quasi le stesse che l’ex pilota BMW. Hubert Auriol ormai in forza alla Cagiva ha espresso proprio nei confronti di Rahier. Chi la fa l’aspetti, insomma. Ma Rahier ha anche trovato un modo più sottile per vendicarsi: il giorno successivo durante la speciale ha rallentato fino a farsi raggiungere dal compagno di squadra, poi ad un bivio ha portato deliberatamente fuori strada il tedesco per una settantina di chilometri facendo perdere a se stesso e ad Hau una quarantina di minuti.

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Quindi si è fermato, ha poggiato la mano destra sull’avambraccio sinistro e con questo gesto tipicamente napoletano (gesto dell’ombrello ndr.) rivolto al compagno ha aperto ufficialmente la guerra all’interno della squadra. Poi ha subito preso contatti con la Suzuki interessata a entrare in forze nella Paris- Dakar nel 1987.

DAKAR 1996 | La dedica di Edi

Una gran bella impresa – dice Edi Orioli – ho convinto tutti, anche quelli che sul sottoscritto non avrebbero puntato un centesimo. Ma purtroppo questo successo ha un sapore un po’ diverso da quelli precedenti. Mi manca una persona che è sempre stato in grado di dividere questa gioia con me, il mio primo tifoso.

Tre mesi fa è morto Bruno, mio padre e durante tutta questa gara non ho potuto fare a meno di pensare che al mio ritorno a casa non ci sarebbe stato più lui ad accogliermi. E’ la mia quarta Dakar vinta, con tre moto di marca diversa, e la mia dedica va assolutamente a mio padre: sarebbe stato contento di vedermi lottare contro tutti e tutto per ritornare sul gradino più alto del fatidico podio sulle rive del Lago Rosa.

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Per quanto riguarda riguarda il resto, forse non ho più gli stimoli giusti per ritornare a gareggiare con questa formula. Ho vinto la Dakar dell’era moderna, ma sono irrimediabilmente legato a quella che si correva all’inizio, con road-book alla mano consegnato solo qualche ora prima del via della tappa.

Oggi ci sono il satellitare, gli strumenti per l’orientamento e poi il mezzo ti consente prestazioni pazzesche. Un tempo si doveva studiare in quale modo superare una duna, adesso la moto va ovunque e su qualsiasi tipo di terreno, basta tenere il gas aperto. Pensate che ho percorso, con i crampi alla mano, 350 chilometri a 174 chilometri orari: allucinante!

E’ stata comunque un’esperienza irripetibile. Mi ha gasato, sono ritornato ad essere il numero uno, ma non ha avuto il sapore delle prece-denti. Un grande ringraziamento lo devo a Nicola Poggio. Senza il suo prezioso aiuto tutto ciò non sarebbe stato possibile, senza tenere in considerazione che l’iniziativa della Belgarda alla Dakar, con la Yamaha France è una sua idea, proposta ai vertici della Casa di sua spontanea volontà. Un team manager come lui è veramente insostituibile.

 

 

Dakar 1995 | Sarron, dalla pista alla sabbia

Quattro ore di mattina, Goulimine nel centro del Marocco. È ancora buio. Il termometro combatte per visualizzare una temperatura positiva. 17408123_10208936903844215_848560979_oChristian Sarron suona giù e si dirige verso la colazione. Guardando preoccupato, il campione del mondo della 250 (nel ‘84) afferra il piccolo vassoio di alluminio che contiene un uovo.

Non ha il cucchiaio. Con un rapido sguardo circolare, misura il suo entourage e con un sorriso, inghiottì direttamente l’uovo. La notte prima, entrando nella sua tenda, Christian sospirò guardando il suo abbigliamento trasandato: “Dall’inizio un sacco di miei principi è andato in polvere.

Forse non lo sapete ma il mio soprannome era – Mr. Clean -, sono fortemente dipendente dalla pulizia e questo stile di vita si deve forzatamente piegarsi alla dura vita della Dakar: “non si dispone di attrezzature pulite ogni mattina. Non ci si può cambiare nemmeno durante la notte. Le borse con i nostri beni personali sono nei camion e questi arrivano mentre stiamo già dormendo.”

“E poi non c’è sempre acqua. E senza acqua, non facciamo doccia. Non c’è letto, quindi dormiamo sul pavimento. E noi mangiamo ogni volta che possiamo. Tutto questo riduce notevolmente la nostra visione della vita nel ventesimo secolo in cui le questioni di comfort sono date per scontate.”

“Tutta questa storia è iniziata il 17 settembre, Philippe Alliot venne da me durante il Bol d’Or e mi confessò che avrebbe voluto partecipare alla Dakar su una moto… e che vorrebbe che lo accompagnassi. La mia risposta è stata negativa in maniera categorica. Mi ero ripromesso di venire a Dakar in macchina… ma mai in moto.”

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Philippe, con cui spesso esco in enduro, aveva già pensato a tutto, obiettivo Dakar con un gruppo di amici, Raphael Montrémy, Philippe Bermuda, Pierre Landereau, Thierry Magnaldi e Jacques Laffite. Amici che si aiutano a vicenda per andare il più lontano possibile. Senza preoccuparsi del cronometro.

Due ore dopo avevo già cambiato idea, ma non immaginavo dove mi sarei infilato. “Fin dall’inizio, la dimensione della moto mi ha sorpreso. Non pensavo che potessimo cavalcare le dune con queste moto. Poi ho trovato difficile abituarmi ai vari strumenti di navigazione. Non sapevo nemmeno dove era il pulsante per mandare avanti o indietro il roadbook. Guidare nel deserto è una cosa estremamente difficile da fare: guidare controllando la pista, il GPS, il master e il roadbook è una ginnastica difficile da apprendere.”

“Trovo che la necessità di concentrazione nel deserto sia ancora maggiore rispetto ai Grand Prix. Io sono sempre stato molto concentrato ed è anche questo che probabilmente mi ha permesso di non cadere duro e non perdermi.”

“All’inizio, con Philippe, prendevo le dune al massimo a 30 km/h per il forte timore che mi trasmettevano.”

“Ma il mio primo grande shock rimane la mia prima vera duna, prima di Zouerate. Non l’avevo mai visto nulla di simile nella mia vita. E’ stato davvero impressionante: si sale lentamente per decine di metri, poi improvvisamente la moto davanti a te scompare e prima di rendertene conto si scende a capofitto.

La mia prima grande paura in gara è stata quando sono caduto in una discesa, proprio di fronte ad un gigantesco camion Kamaz che mi Sarron-1995-1seguiva. Sono rimasto bloccato sotto la moto, pensavo davvero che mi sarebbe passato sopra! Fortunatamente si fermò in cima prima di scendere, evitando di stirarmi.”

Christian è un fiume in piena nel raccontare la sua Dakar: “tutto prende un’altra dimensione. Abbiamo un sapone da divedere per sei… a fine tappa condividiamo anche le nostre esperienze. Ad esempio i colori del deserto, quando è grigio è difficile, ma quando è più chiaro è morbido”.

“Da Zouerate, la strada è ancora lunga fino a Dakar, la capitale del Senegal è più che mai l’obiettivo dei piloti del team Gauloises Blondes. Se arriveremo poi decideremo se mai farlo di nuovo su una moto o in auto”.

Christian Sarron sta scoprendo una nuova passione con l’Africa. Al giorno di riposo a metà corsa era ancora in gara al 34° posto in classifica provvisoria.

Ndr. L’esperto Montremy arriverà 24°, Landereau 22° mentre Bermudes, Magnaldi, Alliot, Laffite e lo stesso Sarron si ritirarono.

Tratto e tradotto da Moto Revue

Marc Joineau Dakar 1982 | Le insidie si nascondono ovunque

Dopo una serie infinita di forature, a Gao sono tornato nei primi dieci. Nel difficile anello di Gao/Mopti/Gao ai piedi del monte Humbori, che ricordo per le terribili rocce aguzze, mi accodo a Patrick Drobecq per decollare nelle grandi curve veloci e avviarmi alla mia seconda vittoria di tappa.

Provate ad immaginare: 540 km corsi in 10h 06 min, sono arrivato proprio al calar della notte. Finalmente eccomi di nuovo tra i primi 5, comincio a credere di poter vincere questo rally. Nel frattempo perdo mio fratello Philippe che cadendo si rompe il piede, e mi ritrovo da solo da solo in pista, non ho più nessuno che mi possa aiutatare nella lotta contro i piloti ufficiali.

E poi arriva la maledetta prova speciale di Timbuktu Niono dine 560 km. All’inizio mi illudo che tutto vada bene. Risalgo sui miei diretti concorrenti e arrivo al camion della benzina in mezzo al nulla, e dalla dubbia provenienza.

Faccio il pieno di una dubbia miscela di benzina, cherosene e qualche altro componente combustibile e riparto. Dopo solo 10 km dopo il mio motore rallenta, borbotta, rantola e mi abbandona inchiodato. Aspetto 6 ore il camion su cui avevo un motore di riserva, lo monto ma arrivo 50 minuti fuori tempo massimo e mi affliggono una penalità di 15 ore. Che beffa. Non me lo meritavo. Sono crollato in fondo alla classifica. Cyril Neveu vince la Dakar 1982 anche se al momento del mio guaio con la benzina ero di mezz’ora davanti a lui in classifica generale.

Riesco ad avere ancora la forza di vincere una tappa speciale prima del traguardo.
Ripenso spesso a quel rifornimento e mi perseguiterà ancora per molto tempo.

N.d.r. Marc Joineau vinse 2 tappe nella Dakar 1982, e concluse al 17mo posto nell’assoluta.

Franco Picco sul sui mono alla Dakar 1989

2016-04-08 19.03.41Con Franco Picco è d’obbligo parlare della 750 Yamaha.
“Ho provato tempo fa in Giappone un bicilindrico; certo ha molta più potenza, dalla parte del mono giocano però l’affidabilità e la sicurezza. La nostra monocilindrica in ogni caso è molto evoluta; ha il raffreddamento a liquido, cinque valvole, è ormai super affidabile. Le modifiche di quest’anno (una sola candela, circuito di lubrificazione potenziato ecc.) hanno portato a una potenza di 58-60 cv con un peso di 165 cv con un peso di 165 kg; la velocità di punta non è tanto diversa, invece il tiro ai bassi, che di serve e guidare meglio, è notevolmente migliorato”.

Motosprint – Gabriele Gobbi

Edi Orioli, lo stratega

La curiosità dell’ignoto deve scorrergli nel sangue, viste le scelte fatte nella sua lunga carriera agonistica. Ma Orioli-1998-1ciò che emerge prepotentemente dall’elenco, lungo, delle competizioni cui ha partecipato e dei risultati che ha ottenuto, è la capacità strategica. Senza cui il talento può anche non trionfare. Di esperienza ne ha da vendere: in totale ha percorso in Africa, in gara, duecentoventimila chilometri. Ed è forse l’unico ad aver partecipato alle prime undici edizioni della Dakar senza mai ritirarsi e chiudendo quasi sempre tra i primi dieci. Inevitabile quindi parlare del rally più conosciuto al mondo, soprattutto pensando a quel periodo buio del 1998, quando si presentò alla partenza coi colori del team Schalber con una monocilindrica del marchio tedesco. Ma la storia di Edi Orioli è fatta di scelte controcorrente, di razionalità e di passione. Perché nel suo DNA è scritta anche una predilezione per le auto, per la perfezione. Come trent’anni fa preparava minuziosamente ogni singolo dettaglio della sua moto, controllando che anche lo stile, oggi vuole bellezza intorno a sé.

Edi Orioli, da pilota a imprenditore. Come è avvenuto questo passaggio?
“Nella mia storia non è che ci siano passaggi. La mia storia è fatta di tante cose. Sin da bambino avevo la passione delle bici e poi della moto. Andavo in bici per i campi e l’evoluzione è stata prendere il Ciao di mio zio e usarlo in fuoristrada. Tornavo ogni sera con qualche pezzo rotto. Allora mio papà mi prese una Gori 50, la prima e unica moto che mi regalò. Da qui in poi ho iniziato a correre in gare regionali e la mia escalation motociclistica è avvenuta così: ho imparato da solo senza seguire corsi e tecniche particolari. Si vede che ce l’avevo nel sangue. Oltre alle corse, negli anni sono sempre rimasto all’interno dell’azienda di famiglia, la Pratic, una realtà che negli ultimi anni è diventata leader nel suo settore. Vedi, nel 1995 morì mio papà, il capo dell’azienda. lo riuscii a finire comunque la Dakar, era l’edizione del 1996, vincendola, e poi mi riavvicinai all’azienda in cui comunque sono sempre stato. Nel 2007 poi ho smesso tutte le competizioni, anche se le moto fanno sempre parte della mia vita. Ma in modo diverso. Il mondo di eventi e riflettori non mi interessa più molto. Preferisco vivere le mie passioni e i miei momenti privati e usare le moto per lo svago”.

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Quali sono gli highlights della tua vita?
“Certamente la scelta di partecipare ai raid africani. Quello è stato il cambio di rotta nella mia carriera da endurista. Decisi di andare in Africa anche se avevo un ingaggio e avrei dovuto correre con una Honda del team Puch al Rally di Sardegna. Lasciai l’ingaggio e andai a fare una gara in Africa: mi innamorai immediatamente di quel modo di affrontare il fuoristrada. Ebbi un ingaggio con la Honda e da lì partì la mia carriera. Poi ti direi il passaggio alle auto: l’altra mia passione nascosta erano le macchine da rally. Con cui ho corso e anche vinto. Quando correvo la Dakar, la sera mettevo giù la moto e andavo nei tendoni dei team auto. Mi ha sempre affascinato l’auto. E quindi le ultime edizioni della Dakar le ho fatte in auto”.

In Africa ho percorso 220.000 km di gara!

Affrontare e vincere la Dakar ti ha segnato?
“lo non sono uno che se la tira. Ho sempre corso per il piacere di correre. Per farti capire cosa penso delle vittorie della Dakar ti dico cosa mi ha confidato un amico tanto tempo fa: “Edi, tu hai capito come si fa a vincere”. In queste poche parole in effetti mi è sembrata chiara la mia situazione. Capire come si fa a vincere è una cosa sottile, che non puoi raccontare. Sono attimi che seguono una preparazione lunga. Sono attimi di decisione. È strategia. E una volta che la provi sai come riproporla. Solo così ottieni dei risultati. E devo dire che mi manca l’adrenalina di un evento come la Dakar e oggi vado spesso alla ricerca di emozioni del genere. Ad esempio sono appena stato all’Isola di Man per il Tourist Trophy dove ho finalmente respirato l’adrenalina vera. Lì tutto ha un senso: non è un evento, è un rito”.

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Qual è la sfida più dura che tu abbia affrontato?
“Per me il momento impegnativo è stato il passaggio dalla Honda alla Cagiva. Mi ero schiacciato tre vertebre al Rally dei Faraoni e i medici mi avevano dato sei mesi di prognosi. Ma io dovevo correre la Dakar! Il dottor Costa venne da me e iniziai terapie e allenamento. Ho passato tre mesi duri, in cui non mi sono mai rassegnato a non poter partecipare. Ogni giorno facevo magnetoterapia e poi mi allenavo sdraiato su una panca per non caricare la schiena. Alla fine riuscii a partire, non proprio a posto. Non potevo davvero pensare di non esserci alla Dakar, che avevo vinto l’anno prima. Partii e finii la gara tra i primi dieci. Ma fu davvero un momento duro”.

Auto o moto?
“Guarda, ho appena comprato la macchina: una Audi RS6, e godo ogni volta che l’accendo. Come faccio a risponderti “moto”? Nonostante tutto quello che fatto sulle due ruote io amo le auto. E poi mi piace il bello: come nella mia tecnica di preparazione. Quando dovevo partire ero preciso: tutto doveva essere in ordine, dall’estetica alla meccanica. Per me questa era la base per una buona gara. E anche adesso mi piace essere a posto. Ho la mia bella moto e la mia bella auto. E vado in cerca di adrenalina: la RS ti regala adrenalina. Se non la usi ti manca e se la usi non riesci ad assuefarti. Non amo mostrarmi ma mi piacciono le cose belle e sportive”.

Beh, hai detto qual è la tua auto, ora dimmi qual è il tuo parco moto attuale.
“In box ho una BMW R 1200 GS Adventure, una BMW HP2, una Husqvama 300 da enduro, una trial Honda Montesa e la Honda RC30- VFR750R. E la Gori 50 con cui ho iniziato”.

E cosa pensi delle moto special, quelle customizzate che impazzano da un po’?
“In prima battuta potrei dirti che sono felice di questa moda perché così moto che erano abbandonate nei sottoscala tornano a vivere. Anche se customizzate. E poi apprezzo chi le personalizza perché è un po’ un artista a prescindere che uno se la faccia da solo o la faccia fare ad altri. Per contro forse a volte il risultato non significa proprio usare la moto, ma solo creare un’immagine. Comunque non mi dispiace questa moda, mi sta simpatica. In fondo ognuno cerca l’unicità del pezzo, a volte con cura maniacale”.

Oggi in quali rapporti sei con i marchi con cui hai corso?
“lo sono uno dei pochi che si è fatto benvolere da tutti i miei sponsor. Avevo la mia filosofia: se qualcuno mi dava io dovevo ritornare almeno altrettanto. Ho mantenuto anche ottimi rapporti con i giornalisti”.

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E la tua storia con BMW?
“Con BMW ho un rapporto strano. lo sono stato più hondista, per l’inizio della mia carriera. Ma avevo una forte simpatia per BMW. Feci lo sviluppo del loro monocilindrico per un anno, oltre a correre alla Dakar. Dopo questo però arrivò un pilota più giovane, Richard Sainct e da Monaco mi offrirono condizioni di contratto inaccettabili. Andai via allora. Oggi però io continuo ad amare e apprezzare questo brand. Del resto non potrei mai fare a meno di una moto BMW in box. E la mia filosofia mi pare in linea con quella di BMW: mi piacciono le cose minima, ma ben fatte, solide. lo credo in questo motto: il deserto esalta le cose più solide. Me lo disse un tuareg quando mi fermai dopo una lunga tappa. Vedendomi in moto mi chiese da dove e quando fossi partito: gli descrissi il percorso, quel giorno avevo percorso seicento chilometri. Mi chiese: “Com’è possibile? Io ci metto due settimane e mezzo, col cammello!” Quel tuareg mi ha fatto molto pensare. Però come ex-pilota BMW non ho mai avuto un rapporto come invece ho avuto con gli altri marchi. Ad esempio con Cagiva e Honda Italia ho avuto rapporti diretti e coinvolgenti: parlavo direttamente con chi aveva potere decisionale. Con BMW il rapporto era freddo, ho avuto a che fare solo con dirigenti che spesso cambiavano e quindi non si è mai creato un rapporto, tutto molto impersonale. Devo ammettere che l’organizzazione era impeccabile: da pilota avevo tutto quello che mi poteva servire ed ero trattato dawero bene. Il rapporto umano era un po’ meno soddisfacente. A pensarci mi dispiace di non aver potuto provare a far parte del mito di Gaston Rahier e Hubert Auriol, e poter scrivere anche il mio nome negli albi d’oro di Monaco. Mi sarebbe piaciuto provare col boxer”.

Com’era la monocilindrica che guidavi?
“Quando ho corso con BMW ero ufficiale ma non ufficiale: il mio contratto era con Monaco ma mi schierai Orioli 1998alla partenza della Dakar con il team Schalber. BMW non voleva comparire perché era la prima edizione e non voleva rischiare figuracce. Mi ritirai per una rottura proprio incredibile: si era infilato un sasso tra il paracoppa e il paramo-tore. E me ne sono accorto che il motore era già fuso. Tutte le monocilindriche erano comunque moto più fragili rispetto alle bicilindriche. Meno veloci anche se aveva-no comunque raggiunto un buon livello. Ma eravamo costretti ad usare la monocilindrica per regolamento, per-ché in quegli anni era stata vietata la bicilindrica. E con le mono eri sempre impicca-to invece con la bicilindrica avevi margine di potenza e velocità”.

Bicilindrica, allora?
“Bicilindrica tutta la vita. Anche se pesa di più la goduria di un bicilindrico in qualsiasi configurazione ha un’erogazione inarrivabile. Le monocilindriche le definisco “i vibratori”. Parlando di GS in fuoristrada, devo dire che il limite principale è il cardano”.

E quali erano le difficoltà più grandi per un pilota di moto a cavallo tra gli anni 80 e 90? E oggi quali credi che siano le difficoltà più grandi?
“Allora potessero il fatto di non conoscere l’Africa. Si andava organizzati ,a allo sbaraglio per quanto concerneva il territorio: si mettevano le ruote su terreni ignori e in continuo mutamento. Dune, fesh fesh, rocce, l’Africa è imprevedibile. E allora si affrontava la fatica meno preparati: ad esempio non sapevamo di dover bere molto di più di quanto non facessimo. C’era la difficoltà di risparmiare la testa e il mezzo: chi non lo faceva tornava con l’aereo ambulanza. E bisognava conoscere la navigazione e la strategia. Per i piloti di oggi le difficoltà non sono queste. Non c’è la navigazione, non c’è il risparmio del mezzo: la sera l moto viene rifatta da capo se necessita e con le tappe più brevi diventa difficile perdersi. Oggi la difficoltà è percorrere tutto il tratto a fuoco; la gara è più serrata. Ecco, potrei dire che oggi è una vera gara, allora invece era un’avventura: si era soli con il proprio mezzo. Oggi ci sono tantissime persone che ti supportano”.

Hai tracciato rotte, attraversato terre inesplorate, organizzato raid in giro per il mondo. Oggi cos’è il viaggio per Edi Orioli?
“Il viaggio per me deve essere interattivo. Quando parto devo vivere il territorio da viaggiatore e non da turista. Io affronto un viaggio l’anno. Di più non riesco mi manca il tempo. Pensa che se fosse per me, finita questa intervista, metterei una maglietta e un pacchetto di Toscanelli in una borsa e partirei in moto. Però mi piace anche andare sul sicuro: avendo poco tempo voglio che le mie uscite siano certe per divertirmi. Quando parto quindi pianifico bene il viaggio perché voglio anche divertirmi. Un viaggio con una moto completamente carica sulle dune non lo farei: questo cancellerebbe il divertimento di guida”.

Della Dakar di ieri e delle evoluzioni di oggi abbiamo approfondito parecchio nell’intervista apparsa sul volume di febbraio 2018 di Motocross. Mi domando: se la potessi organizzare a modo tuo quali sarebbero i punti chiave della competizione?
“Sicuramente tornerei alle origini. Ovviamente non si può tornare in Africa, oggi per diversi motivi non si riuscirebbe a organizzare la gara lì. Ma parlando di regolamento io mi ispirerei all’avventura e alla navigazione, alla natura del luogo e alla sicurezza. Per la sicurezza oggi si è arrivati a livelli molto avanzati. Terrei quindi i sistemi di geolocalizzazione. Ma tornerei per quanto possibile alle origini, con bivacchi lontani dai villaggi, allungando, e quindi diminuendo, le tappe. Ridurrei il comfort, lasciando più spazio all’avventura. Certo occorre fare i conti con il budget, con gli sponsor e la visibilità. Dovrei ragionare su questo. In fondo la gara è nata così, quindi penso potrebbe essere apprezzabile da molti. Sarebbe una vera sfida, penso. Perché chi ci ha provato, basti guardare l’Africa Race, fatica a decollare perché i team ufficiali vanno a fare la nuova Dakar. Rispetto all’Africa Race bisognerebbe riuscire a richiamare più team che differenzino un po’ l’insieme dei piloti, dei risultati e delle soluzioni. Anche per i giornalisti oggi credo sia difficile raccontare la Dakar. La tecnologia poi ha un po’ snaturato questa competizione”.

Difficile però immaginare una gara fuori dal tempo: bandire la tecnologia si può?
“Difficile sì, ma magari potrebbe funzionare. Chissà se i piloti accetterebbero di lasciare a casa il cellulare?”

Tratto da: About BMW
intervista di Maria Vittoria Bernasconi
Foto di Orazio Truglio & web