Heinz Kinigadner, che manetta da paura! Dakar 1995

 

E’ un video di soli 37 secondi, ma che manetta da paura!!

Claudio Terruzzi, per gli amici “il Teruz”

Claudio Terruzzi meglio conosciuto come “’Il Teruz”; ha vissuto la Dakar da pilota ufficiale sempre a gas spalancato in sella a Honda e Cagiva, vincendo diverse tappe e rischiando addirittura di vincere l’edizione del 1988.

Cos’è stata per te la Dakar?

“Il ricordo più forte? Le dune alte 200 metri che arrivano a Djado al confine con il Niger, le ninfee che galleggiano nei piccoli fiumi e soprattutto le tappe in cui, leader provvisorio di classifica, partivo primo; davanti a me nessuna traccia di mezzo a motore, alle spalle 600 equipaggi e la voglia di andare ancora più veloce per vincere: 1500 e più sensazioni miste di paura e adrenalina.”

La prima Dakar e perché.

“Colpa di un paio di amici: Ciro De Petri e Arnaldo Farioli! Nel 1980 avevo partecipato alla 6 giorni in Francia, ma era stato un massacro e avevo smesso i panni del pilota. Però è bastata la telefonata giusta per stuzzicarmi, poi il rally di Tunisia andato molto bene… e la voglia di correre mi è tornata. Alla 6 giorni di San Pellegrino, per nulla allenato, Massimo Ormeni di Honda Italia si è accorto dei miei tempi nella linea e mi ha proposto di correre: ho fatto un provino con Orioli e Balestrieri a Montecatini e mi sono ritrovato pilota ufficiale, tra le mani il manubrio di una Honda XR 650 R pronta per la Dakar, potevo dire di no?”

Avventura o competizione?

“Ovviamente ho corso la Dakar per vincerla; a manetta dall’alba al tramonto ed ero ben preparato per correre e andare forte. Il primo anno ho vinto il premio rookie of the year – migliore esordiente – ma non immaginavo fosse così dura. Quando sono arrivato a Dakar avevo la sensazione di aver vissuto 15 anni in 15 giorni, per l’esperienza, per la tensione, l’emozione. Ti giuro che al traguardo sono arrivato cambiato, non so se mi spiego! Ho vissuto l’esperienza più estrema della mia vita: spesso da solo, senza civiltà attorno per ore; centinaia di chilometri senza assistenza tecnica, con tappe maratahon da 900/1000km. In quell’edizione, alla 5 tappa, Michele Rinaldi ha dato forfait perché l’ha ritenuta troppo dura. Ricordo gente piangere al campo, tappe finite a notte fonda, piloti che arrivavano alle 5 del mattino. Fai conto che per sei mesi a Milano ho avuto gli incubi, mi svegliavo all’improvviso, vedevo la spia rossa del televisore e pensavo fosse l’accampamento.”

Un aneddoto da ricordare?

“I consigli di quel pazzo di Ciro De Petri. In una tappa mista di dossi dove non vedevi oltre, sterratoni pietrosi e 600 km di speciali mi ha consigliato di non dare retta all’istinto che ti porta a chiudere il gas, ma, anzi, nel dubbio accelerare sempre. Affermava di conoscere a memoria quei mille dossi e che a fine tappa avrei guadagnato almeno 10 minuti in classifica. A metà percorso bandiere sventolate ed elicotteri: Ciro ha saltato una curva a destra segnata sul roadbook… non dico altro”

Quante ne hai fatte e qual è stata la Dakar più dura di tutte?

“3 in totale, la più bella è indubbiamente stata la seconda perché ero pilota ufficiale con la Honda HRC NXR750R, quinto assoluto e 6 vittorie di tappa. La prima è stata più emozionante ma troppo dura; la seconda forse avrei potuto vincerla se non avessi avuto grane meccaniche che mi hanno fatto prendere più di due ore dai primi.”

Qual è stata la tua prima moto?

“Honda XR 650 R ufficiale Honda Italia”

Quanto costava partecipare?

“Ho avuto la fortuna di essere pilota ufficiale e quindi pagato per correre: un bel privilegio”

Le moto bicilindriche hanno reso più pericolosa la Dakar?

“Falso, le bicilindriche hanno solo cambiato il modo di correre la Dakar, ok andavi a 200 all’ora ma in diverse occasioni ti tiravano fuori dalle difficoltà senza fatica, cosa che con le mono non era possibile. Il problema è che la bicilindrica è una moto da professionista, per guidarla servono preparazione e una concentrazione che deve rimanere massima per 15.000 km: e non è facile,ricordo tappe la cui partenza era dalle 4 del mattino e l’arrivo ben oltre il tramonto. Ricordo che la decima Dakar – versione anniversario – è stata quella con il maggior numero di iscritti e già alla prima tappa si erano ritirati il 40% dei piloti, era stata concepita come una vera gara di sopravvivenza: tappe durissime e navigazione impossibile: avevi poche informazioni e poi sul road-book c’era indicato di seguire le tracce degli animali per arrivare al pozzo… in mezzo al deserto, segui le tracce? Ma che c@##o, sono un privilegiato che posso raccontare di quell’edizione.”

Il pilota migliore in assoluto con cui hai corso?

“Edi Orioli, perché ha sempre saputo gestire la gara sapeva chiudere il gas e quindi risparmiare le gomme. L’esatto contrario di me, quando sono stato in testa con la Cagiva ho iniziato a sbranare lo pneumatico posteriore a ogni tappa e invece lui no. In questo modo, andando meno veloce di me e De Petri, ha azzeccato tappe perfette rifilandoci legnate da quaranta minuti o un’ora. Lui mi ha davvero stupito, nemmeno Peterhansel secondo me ha fatto altrettanto: Edi era sempre freddo e lucido.”

Cosa pensi della Dakar in Sudamerica?

“No dai, domanda di riserva? Stiamo parlando di due sport diversi, della Dakar non c’è più nulla. Era avventura e sport estremo, coraggio, sopravvivenza e tanto gas. All’epoca i piloti si perdevano e non si trovavano più, di molti non si è più saputo nulla: smarriti nel deserto per sempre. Oggi con il navigatore è tutto più facile, tutto più sicuro, quasi noioso: meglio fare una gara d’enduro. “

Chi vince oggi la Dakar? Il pilota, la squadra o la moto affidabile?

“Vince il miglior compromesso non necessariamente il pilota migliore.”

La Dakar ipoteticamente torna in Africa, ci torni?

“No, perché la Dakar, quella Dakar, non tornerà più. Ho ancora un VHS del TG1 condotto da Fraiese, la prima notizia parlava di Ronald Reagan, la seconda di Claudio Terruzzi che aveva vinto la tappa della Dakar. Ricordo gli striscioni in via Padova a Milano con scritto ben tornato Claudio… sai cosa vuol dire? Siccome ho fatto 87mila chilometri in Africa, perché dovrei tornare? Sono certo che non troverei più lo spirito e l’adrenalina, anche se l’idea mi alletta ancora, però sappi che la Dakar era vita o morte; c’erano personaggi di fantasia con zaino sulle spalle e taniche appese alla moto… era pionierismo puro. Partivamo con lo spirito dell’avventura. Oggi sarebbe un surrogato. E poi… c’ho un’età.”

Intervista red-live.it

Foto archivio privato Claudio Terruzzi

Danny Laporte e Cagiva alla Dakar 1992

Nonostante non sia arrivata la vittoria nell’assoluta, quella del 1992 rappresenta un’eccellente prestazione dello squadrone Cagiva, che piazza al secondo posto l’americano Danny Laporte, al terzo posto Jordi Arcarons, Marc Morales al 4°, Edi Orioli al 7° e Trolli al 10° posto!

La Cagiva Elefant di Giampaolo Marinoni

La storia della tragedia conclusasi con la scomparsa di Giampaolo Marinoni è una brutta storia. Una di quelle che non avremmo mai voluto raccontare. Una serie di terribili coincidenze, tutte deprecabili, tutte ineluttabili. Il pilota della Cagiva aveva fino a quel momento corso una Dakar 1986 decisamente soddisfacente, tredicesimo nell’assoluta e vincitore di una tappa, la Dirkou-Agadem. Ma lui non era soddisfatto. Dentro di se era convinto di poter conseguire un risultato migliore, se solo avesse potuto attaccare prima. Sentiva che quella ultima maledetta speciale l’avrebbe potuta vincere per dare una soddisfazione ai Castiglioni. L’ultima giornata di gara era composta da due prove speciali fatte apposta per le bicilindriche, una striscia di sabbia velocissima che avrebbe visto vincitore uno fra i favoriti: Rahier, Neveu, Olivier o Giampaolo Marinoni. Nella prima si era imposto Gaston Rahier e Giampaolo era arrivato secondo. La seconda tappa lo vedeva al via determinato a conquistare la vittoria.

Ma fra questo desiderio di gloria e la dura realtà si frappone il destino, sotto forma di una caduta rovinosa a 20 km dalla partenza della speciale. Venne soccorso dai compagni, e stoicamente nonostante i forti dolori, e quando suo malgrado un uomo si trasforma in eroe, decise che poteva continuare. Aiutato da Balestrieri a salire in sella e scortato da Picard fino all’arrivo, Giampaolo raggiunse comunque la spiaggia di Dakar. Purtroppo tutti sappiamo cosa successe dopo poche ore.

Molte volte ci siamo chiesti in che modo ricordare degnamente e con un sorriso amichevole questo sfortunato pilota che ha lasciato un bellissimo ricordo nel cuore di tutti gli appassionati di enduro, e quando il nipote di Giampaolo, Fabio e suo figlio Michele ci hanno contattato per comunicarci l’intenzione di inviarci le foto della sua Cagiva Elefant Dakar 1986, che custodiscono gelosamente a casa, non ci sembrava vero. Quale modo migliore di ricordarlo, pubblicando le foto della sua moto, per ricordare le gesta di un pilota che a distanza di trent’anni resta ancora vivo e immortale.

Grazie a Fabio e Michele.

La mia Dakar 1998 by Lorenzo Lorenzelli

L’unico “vero” privato italiano che è giunto al traguardo alla Dakar 1998 è Lorenzo Lorenzelli. Gli altri, infatti, avevano almeno un meccanico ad attenderli al bivacco, mentre Lorenzo ha fatto tutto da solo. Ma la sua Suzuki DR 350, una moto di terza mano prestatagli per l’occasione dal cugino, non l’ha tradito.

«Subito il primo giorno ho preso la forfettaria per un problema elettrico, e non speravo proprio di finire la gara. Qui a Dakar è veramente magico e dimentichi tutti i problemi di 18 giorni terribili. Ce l’ho fatta sol-tanto perché un po’ tutti mi hanno dato una mano: gli altri piloti, ma anche i meccanici al bivacco. È fantastico».

Gilles Lalay e la cronaca di una morte assurda

Gilles Lalay, vincitore della Dakar 1989, è morto il 7 gennaio 1992 a mezzogiorno e mezzo sulla polverosa pista tra Franceville e Pointe Noire, in Congo.

Il motociclista della Yamaha Italia era in un tratto di trasferimento, 130 chilometri dopo la “speciale”. Una macchina dell’ organizzazione della Paris-Le Cap, una vettura del pronto soccorso medico che andava in senso opposto, ha travolto Lalay. Un impatto violentissimo, il ventinovenne corridore francese è morto sul colpo.

Maestri e abituati ad assorbire ogni cosa, gli organizzatori della corsa prima hanno fatto notare che Lalay, in quel momento, andava troppo forte e aveva tagliato una curva, poi si sono abbandonati alle solite considerazioni: “Un tragico colpo di coda del destino”.
Considerati i precedenti, una ricostruzione dell’incidente non verrà mai fatta con precisione. L’autista della macchina, al momento, per gli organizzatori non ha un nome e non può dire nulla.

A ben vedere, detta fuori dai denti, si tratta di una morte assurda in un raid che non ha più alcun significato tecnico e sportivo.

Lo ha fatto intendere con commozione e grande signorilità Daniele Papi, il team manager della Yamaha Italia: “Noi torniamo a casa. Senza alcuna polemica precisa. E morto uno dei nostri e riteniamo sbagliato restare qui. Certo, tutto quello che e’ avvenuto in questa corsa non ci è piaciuto molto”.
Sulla dinamica del tragico incidente restano solo brandelli di testimonianze. Angelo Cavandoli, un compagno di squadra del centauro francese, ha visto Gilles Lalay a terra, immobile, senza tracce di sangue sul volto.

Sul perchè la macchina del SOS andasse in senso opposto alla corsa ci sono state spiegazioni vaghe: dapprima si è detto che la vettura stava soccorrendo Jean Cristophe Wagner (anche lui seriamente ferito ieri), poi che la macchina faceva una normale opera di soccorso. In una breve conferenza stampa, Gilbert Sabine non ha aggiunto nulla ai dubbi che ci sono e rimarranno. E naturalmente: “La corsa continua”, con un’ottusa e ostinata tenacia, malgrado sia tutto già deciso.

La classifica delle moto e’ chiarissima e non può cambiare, perchè la piste da N’Djamena a Cape Town sono strette, polverose e alberate: nessuno si azzarda più a fare un sorpasso, chi parte per primo non può più perdere.

Chi ci prova rischia grosso, come hanno fatto ieri La Porte e Arcarons, che sono inevitabilmente caduti. Lo stesso discorso (forse anche di più) vale per le macchine.

Gilles Lalay aveva capito benissimo che la corsa era finita. Lunedì sera a Franceville si è mangiato l’ultimo piatto di “spaghetti italiens” della sua vita: glieli avevano cucinati Matilde Tomagnini e Federico Forchini. Faceva caldo e Lalay era stato al tavolino del piccolo accampamento di tende vicino all’ aereo della Yamaha, fino alle dieci di sera. Aveva commentato la cottura degli spaghetti: “Troppo al dente per me che vivo vicino a Limoges”. Poi si era quasi indirettamente tolto di dosso una serie di critiche che gli arrivavano: “Sta sempre li’ nel gruppo, non rischia nulla”. Gilles aveva capito e spiegava: “E del tutto inutile rischiare in queste condizioni. Non si può più sorpassare. Non puoi mai dire che una corsa sia finita, ma in questo caso non riesco a trovare altre definizioni”.

Non era la prima volta che Lalay diceva queste cose. Con il suo direttore sportivo, Aldo Betti, il corridore francese si era già confidato prima della partenza della Paris.Le Cap: “O si arriva in testa a Pointe Noire oppure è finita”. Ma l’assurdità della morte di Gilles Lalay non sta in queste piste strette, nella pericolosità dei sorpassi. Questa corsa, che costa ad ognuno ben 27 milioni e mezzo di lire soltanto di iscrizione, non sembra in grado di offrire la necessaria sicurezza. O perchè si vuole attraversare un territorio in guerra o perchè le macchine dell’organizzazione non conoscono bene le piste (come e’ avvenuto quest’anno a N’ Gougmi) oppure perchè una vettura del soccorso sanitario va nel senso contrario alla corsa.

Quindi capita, inevitabilmente, che, nel rally più famoso del mondo, un serio professionista come Lalay possa essere investito dagli organizzatori. Qualcuno commentava che si “è trattato di un incidente di strada”. E c’è da allargare le braccia pensando che al rally, contrabbandato per il più bello del mondo, si possa morire come il sabato sera vicino a una discoteca di Riccione.

Fonte: Gianluigi Da Rold – corriere.it

La Dakar 1995 e “il martello proibito”

La Dakar del 1995 passa alla storia come quella del “martello preso in prestito” da Stèphane Peterhansel dall’organizzazione per raddrizzare una pedana durante la neutralizzazione di un rifornimento. All’atto pratico non c’è nessuna intenzione di violare il regolamento, ma l’atmosfera all’arrivo di tappa è, come sempre impregnata di fatica e di animazione.

I piloti cercano di recuperare, in quel quarto d’ora di “stop”, il massimo delle energie, e di riparare ai piccoli danni eventualmente sofferti durante la prima parte della Speciale. “Peter” ha una pedana storta, testimonianza di una caduta pesante. Come è arrivato fin lì potrebbe continuare, non certo nel massimo confort, ma per un “duro “ come il francese il problema non è grave. La moto è accanto al camion del rifornimento, e Stèphane si fa prestare un mazzuolo per raddrizzare la pedana e riportarla nella posizione originaria.

Cinque colpi di martello. Alle conseguenze, al momento, non pensa nessuno.

Poi qualcuno suggerisce la “stortura” e, alla sera, Jordi Arcarons accusa l’avversario di aver usufruito di una forma di assistenza irregolare. Al termine di una lunga discussione, il giudice iberico infligge a Peterhansel una penalità di 15 minuti, tre minuti per ogni colpo. La situazione è rovesciata, Stephane passa da inseguito a inseguitore. Gli animi sono caldi, “Peter” sorride ironico inchinandosi alla decisione che lo penalizza. Non poco.

La 17ma Granada-Dakar si decide tra Bakel e Labé, con una tappa da far accapponare la pelle. Peterhansel parte a testa bassa, frusta la sua Yamaha bicilindrica, un “bestione” potentissimo ma anche pesantissimo, e usa la motocicletta costruita espressamente per la Dakar come una agile moto da enduro, sfruttando al massimo tutto il proprio potenziale agonistico e di talento, ma anche della meccanica.

Vola letteralmente sugli ostacoli incurante, per una volta, dei rischi cui va incontro, e mantiene la prestazione sempre, costantemente al massimo. Peterhansel arriva solo al traguardo, si volta, non c’è nessuno.

Orologio alla mano inizia il conto che stabilisce l’efficacia di quell’attacco fuori dall’ordinario, insolito per il “temperato” campione francese. “Ogni minuto che passa è buono, posso aspettare!” Finalmente arriva anche Arcarons, e a quel punto si può stabilire che Peterhansel ha vinto con venti minuti di vantaggio. Ha massacrato, avvilito l’avversario, e ristabilito l’ordine naturale delle cose. Sulle rive del Lago Rosa, Peterhansel vincerà la sua quarta Dakar.

Nella memoria di Peterhansel non c’è traccia di sete di vendetta, ma il ricordo semplice ed esaltante di una tappa nella quale ha attaccato come mai nella sua carriera. Nella nostra memoria il ricordo di un’indimenticabile, esaltante impresa agonistica.

Fonte moto.it

Beppe Gualini, il professore nel deserto

Beppe Gualini detto “Gualo”, sognava l’Africa e l’ha conquistata con il ritmo costante e la tenacia necessarie per correre nella categoria marathon. Ha trovato la sua dimensione nella competizione in solitaria e in ogni incredibile sfumatura di colore del Continente nero.

Cos’è stata per te la Dakar?

“La mia Dakar è stata avventura, rischio e soprattutto incognite sul percorso, credo di poterla paragonare alle avventure dei pionieri che attraversavano l’America in sella a un cavallo senza sapere del domani. Noi avevamo mezzi meccanici, ma la sostanza non cambiava, partivi assieme a una banda di matti alla guida di mezzi improbabili e assolutamente inaffidabili.”

La prima Dakar e perché.

“E’ una storia strana, quella che mi lega alla Dakar, coincidenza ha voluto che abbia incrociato il convoglio della prima edizione in Africa; ero nel centro del deserto del Ténéré e ho visto una banda di matti alla guida di Citroen 2CV, Piaggio Vespa e Renault4 e ho capito che quella sarebbe stata la mia prossima impresa, senza sapere esattamente cosa fosse. Così l’anno dopo, nel 1983, ho partecipato alla mia prima Parigi-Dakar.”

Avventura o competizione?

“Più che altro sfida personale. Le gare all’epoca erano molto diverse; sono partito con uno zaino da 25 kg con dentro di tutto: corona, pignone, catena e sacco a pelo e l’immaginetta di papa Giovanni. Non avevo fame di vittoria, ma avevo un obbiettivo chiaro: partire per arrivare in fondo, senza ricambi e, soprattutto, senza assistenza. E così mi sono trovato ogni santissimo giorno a risolvere un problema con il materiale che avevo a disposizione usando fil di ferro, scotch e rovistando nelle immondizie del campo alla ricerca dei ricambi meno rovinati. Paragono la Dakar alla sfida degli ottomila. La strada è lunga, la natura ostile, il tempo tiranno, e, soprattutto, c’è l’incognita del guasto tecnico, perché una volta la gara era solo uno dei componenti dell’avventura. Ricordo alcune tappe in cui partivo la mattina conscio di dover percorrere 1.000 km di dune e sabbia, sapendo che potevo incontrare una tempesta o avere mille imprevisti.”

Un aneddoto da raccontarci?

“Quando ho deciso di partecipare alla Dakar ho chiesto aiuto a conoscenti e potenziali sponsor i quali non solo non avevano mai sentito parlare di questa gara e rimanevano senza parole quando gli parlavo dei 20mila chilometri di gara, ma soprattutto mi hanno mandato a quel paese pensando che mi fossi bevuto il cervello.”

Quante ne hai fatte e qual è la più Dakar di tutte?

“Ho partecipato a 10 Dakar e quasi certamente detengo il record di rally africani: 65 con una media di 5/6 all’anno. Per farlo ho dovuto fare delle scelte e ho lasciato il mio lavoro di insegnante di educazione fisica. Comunque la Dakar più emozionante è stata la prima, il viaggio sotto la neve fino a Parigi rischiando di cadere ogni singolo chilometro e, dopo il freddo polare, il deserto, la giungla. Ricordo che alla partenza eravamo in 360 moto e 250 auto, quasi 600 equipaggi. Ogni giorno di gara perdevamo un pezzo, un team, un pilota. Al traguardo in moto siamo arrivati in 50, è li che capisci il senso della parola “selezione”. E’ come se fossi sopravvissuto a una guerra, portando a casa la pelle… Era diverso da quello che oggi chiamano Dakar, è come se avessi scalato con successo dieci vette da 8mila metri. Nessuno avrebbe scommesso sul mio arrivo e invece siamo qui a raccontarla.”

La tua prima moto?

“Una Honda XL 600 che mi ha prestato la concessionaria Honda di Milano Sibimotor, ho montato un portapacchi, le gomme tassellate, sono partito e ho vinto la categoria marathon. La marathon aveva regole ferree, non si poteva sostituire nulla pena il passaggio nella categoria prototipi, quindi l’unica soluzione era riparare quello che si rompeva perché ogni particolare della moto era punzonato. Più di una volta ho dovuto aggiustare lo scarico usando lattine di Coca Cola tagliate al campo.”

Quanto costava partecipare?

Una follia, anche se il costo totale non saprei quantificarlo. L’iscrizione non era un problema quanto la benzina che nel deserto del Ténéré ho pagato addirittura 20mila lire al litro. Poi il rimpatrio della moto via nave e biglietto aereo di ritorno. In più varie cauzioni per il kit bussole, razzi d’emergenza e la Balise – strumento che attivato in caso d’emergenza rileva la posizione del pilota – che costava già all’epoca un milione. Comunque la spesa maggiore era la benzina: alla Dakar ti fumavi circa 5 milioni di lire solo di carburante.”

Ritieni che le moto bicilindriche hanno reso più pericolosa la Dakar?

“Si sbaglia a pensare che le grosse bicilindriche abbiano portato un maggiore pericolo per il pilota, di fatto le monocilindriche con il passare delle stagioni non ce la facevano più, si “sbudellavano” letteralmente, già all’epoca i piloti ufficiali avevano sei motori a disposizione. A rendere più pericolosa la Dakar sono stati l’arrivo del GPS e la riduzione della navigazione. Non a caso le classifiche si sono accorciate in modo mostruoso: ora si parla di distacchi di minuti, all’epoca tra il primo e il secondo potevano esserci addirittura ore.”

Il pilota migliore in assoluto che hai incontrato?

“Lo dicono i risultati ma non solo: Edi Orioli. Oltre ad essere una grande manetta sapeva gestire il gas e interpretare la navigazione. Usava la testa e ragionava facendo pochi errori. Lo ricordo perché alla sua prima gara, la Djerba 500 a cui ha partecipato con una Honda 500 4 tempi, mi si è attaccato al culo e ha avuto l’approccio da professionista non da campione d’enduro quale è stato: ha voluto imparare. Il più veloce in assoluto è stato indubbiamente Ciro de Petri: aveva una velocità stratosferica e la sua teoria era “l’importante è rischiare”: o cadeva o si perdeva o si demoliva lui e la moto.”

Cosa ne pensi della Dakar che si corre in Sudamerica?

“Non mi interessa più come allora, considera che riprendono percorsi che ho già vissuto con Camel Trophy e il rally dagli Incas. E poi condanno l’uso improprio di un nome che è legato all’Africa. Non mi sta bene!”

Chi vince oggi la Dakar? Il pilota, la squadra o la moto affidabile?

“Oggi sono tutti ottimi piloti ma la differenza è tutto quello che gira intorno, chi corre per vincere ha un’assistenza efficace.”

La Dakar ipoteticamente torna in Africa, ci torni?

Si, se tornasse la Dakar alla Thierry Sabine con le regole di una volta, dove il pilota aveva un peso e un valore. Ma oggi non c’è più navigazione e vince chi ha più soldi e più motori. Con i mezzi di cui dispongo non ho chance per fare il risultato, del resto sono nato e ho finito la mia carriera da pilota privato come ha sempre voluto Sabine.”

Fonte: red-live.it

Foto: Motociclismo.it

Boano e la sua Africa Twin fino a Dakar nel 1998

Chi ha compiuto un’impresa fuori del normale è Roberto Boano, quarantasette anni e cinque Dakar alle spalle. Boano, infatti, ha portato al traguardo un’Africa Twin, un bisonte da guidare su strada, figurarsi tra le dune del deserto.

«lo ho un feeling particolare con questa moto, perché anche se pesante è magica, perlomeno in certe occasioni.
Certo, con una Honda XR 400 posso anche tornare alla Dakar, ma maí più con l’Africa Twin. Anche perché la gara è molto cambiata e non ti diverti più ad andare in moto. Però quando arrivi al Lago Rosa dimentichi tutto e, improvvisamente, i 18 giorni d’inferno diventano un ricordo bellissimo».
Roberto Boano si classificò 38°!

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In seguito trovammo un’intervista in cui parlava di questa moto:

Oggi usi ancora l’Africa Twin per dei giri?
“Quella rossa da gara, non la Marathon, la uso sempre, perché mi invitano per vedere il vecchio dinosauro fare l’asino in giro e io mi presto volentieri, vado a fare delle corse a destra e sinistra e devo dire che mi diverto ancora come un matto. Ma le Marathon ho rinunciato a utilizzarle perché mi dispiace demolirle. Poi questa Marathon 004 me l’ha usata mio figlio piccolo, Ivan, e praticamente me l’ha demolita. Sai, Ivan è il più pericoloso, Jarno un po’ di testa ce l’ha, Ivan no”.

Quali erano i punti deboli della moto, quelli sui quali intervenivi per andare a correre una Dakar?
“Pompa della benzina a depressione e regolatore da tenere d’occhio. Per il resto era un mulo, pensa che abbiamo portato giù sempre i dischi della frizione e non ne abbiamo cambiato uno…”.

Di regolatori te ne portavi dietro due o tre?
“No, no, io non ho mai bruciato né una pompa né un regolatore, ma la paura era talmente tanta che uno te lo portavi comunque dietro”. Rinforzi al telaio se ne facevano? “No, niente. Guarda che con quella moto, se avevi il coraggio di tenere aperto, lei rompeva te, ma lei non si rompeva mai. Poi io non cadevo mai, perché alzare ‘sta moto con 50 litri di benzina, era quasi impossibile per una sega come me…”.

Tratto da intervista a Roberto Boano su Motosprint
Grazie a Roberto Panaccione

Giovanni Sala alla Dakar 1998

Molto contento Giovanni Sala, al debutto alla Dakar del 1998 e alla prima vera esperienza con road-book e GPS.

«Dopo la prima settimana – racconta il campione di enduro – credevo di aver imparato tutti í trucchi della navigazione; poi mi sono perso un paio di volte e ho capito di… non aver capito nulla. Ma come fanno a leggere le note?».

Giovanni considera comunque l’esperienza positiva e la Dakar una gara interessante. Ecco le differenze con l’enduro.

«La cosa più incredibile è che mi alleno tutti i giorni, vado in moto almeno due volte alla settimana, poi arrivo qui e prendo una gran paga da uno con la pancia e la sigaretta in bocca! Nell’enduro devi sempre guidare al 100% mentre qui bisogna trovare un giusto compromesso tra velocità e navigazione.

Sicuramente è un’esperienza da ripetere, anche se è la disciplina più pericolosa che io abbia mai fatto. Appena ti distrai, ed è normale quando stai magari dieci ore in sella, cadi. Ci sono degli sterrati in mezzo alle pietre dove viaggi a 130 km/h e se non sei abituato alla velocità, se non hai i riflessi pronti, finisci per farti male».
Fonte Motosprint