La Dakar dei privati – Honda Africa Twin Marathon

In molti ci hanno chiesto di parlare di quegli eroici privati che alla fine degli anni ’80 parteciparono alla Dakar su delle Honda Africa Twin poco più che di serie. Abbiamo chiesto a Gianpaolo Banelli di www.nightwings.org di raccontarci qualcosa di più.

Alla fine degli anni ’80 era possibile correre la Dakar nella categoria « Marathon » con moto derivate dalla serie e adattate alla gara. Per questa ragione, e anche per sopperire in qualche modo al prossimo ritiro delle Honda ufficiali dai Rally (dopo 4 vittorie alla Dakar), in occasione della edizione ’89 Honda France, tramite il direttore Jean Louis Guillot, lanciò nell’autunno ’88 l’operazione “50 Africa Twin a Dakar”. Venne fatta una prima selezione tra 150 candidati e ne vennero scelti 50 a cui furono affidati altrettanti esemplari di Africa Twin 650 particolarmente curate per poter correre nella categoria « Marathon ».

Nel frattempo venne preparata la moto, una Honda RD03 650 già quasi definitiva fece un’ottima figura al Pharaons Rallye 1988 nelle mani di Joel Daures (che aveva corso l’ultima Dakar con la NXR ufficiale). 49 moto partirono quindi per la 11a Dakar; l’alsaziano Heintz vide infatti la sua partecipazione annullata qualche giorno prima della partenza, quando moto ed equipaggiamento Honda France erano gia stati acquistati, perché le autorità libiche non accettarono il suo ingresso nel paese in quanto appartenente all’esercito francese.Tra i partenti anche una giovanissima francesina, Maryline Lacombe, ma anche un Italiano (Roberto Boano) e alcuni piloti di altre nazionalità (Spagna, Inghilterra, Senegal).

I numeri di serie di queste 50 moto cominciavano per 5 come sulle RD03 standard (da qui la necessità di essere dei veri conoscitori del mezzo per riconoscere le vere Marathon dai falsi e tarocchi).Normalmente per la Dakar un certo numero di parti della moto venivano punzonate e numerate con lo stesso numero di gara del pilota, per evitare che venissero impiegati ricambi non autorizzati, questo dovrebbe aiutare.L’operazione ebbe un certo successo: 18 AT conclusero la gara e Patrice Toussaint (16° assoluto) e Patrick Sireyjol (appena dietro di lui) finirono ai primi due posti della classe Marathon, con il nostro Roberto Boano 4° di categoria.

L’anno seguente, per la 12a edizione della Dakar, furono quindi allestite altre 50 moto, leggermente diverse dalla serie precedente, contrassegnate da un numero di telaio differente che inizia infatti per 6 (da 600001 a 600050). Una ventina di esemplari vennero consegnati in Francia mentre gli altri vennero destinati ad altri paesi, almeno 3 in Spagna. Solo una quindicina di queste moto raggiunse l’Italia, a metà novembre ’89 e quindi per molti troppo tardi per iscriversi al rally.Almeno una venne comunque portata in gara all’ultimo momento da Ermanno Bonacini (49° assoluto alla Dakar 89 con una Yamaha) che però corse poche tappe per poi incappare in una grave caduta, che lo costrinse a un ricovero immediato in ospedale e a lasciare il mezzo in Libia (dove è stato visto anni fa da alcuni turisti!).

Lo Spagnolo Antonio “Toni” Boluda, si comportò benissimo, risultando 18° assoluto nella Dakar ’90 e vincitore della categoria Marathon. Andrea Mazzali corse il Faraoni del ’90 con una di queste moto, affidatagli direttamente da Carlo Fiorani, allora responsabile della HRC (a cui è ritornato per un po’ dopo l’esperienza Ferrari). Nel ’90 furono costruiti anche pochissimi esemplari (sembra solo 8) di « Marathon » 750 che però durante la Dakar ’91 furono “risistemate” nella classe Silhouette, perché avevano un unico disco freno anteriore anziché 2! Ottima però la prestazione di Boluda e Boano, rispettivamente 10° e 11° nell’assoluta e alle spalle del nostro Luigino Medardo tra le Silhouette! Nella 13a Dakar corsero però ancora alcune RD03 Marathon, tra cui quella affidata sempre da Fiorani a Bonacini, ripresosi dal brutto incidente dell’anno prima grazie anche alle cure del Dott. Costa, quelle dei nostri Paladini e Nassi, e un’altra dozzina, di cui purtroppo solo quella di Sireyjol arrivò fino alla fine.

(foto in alto: Sylvain Richet e Gerard Filiat e le loro Africa Twin)
Foto e testi forniti da Gianpaolo Banelli
www.nightwings.org/Marathon/Marathon-home.html
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Patrizia Wolf e Franco Zotti: obiettivo Dakar centrato con successo!

Amici dakariani, abbiamo scovato fra le pile polverose di riviste, un’intervista di Motosprint a Franco Zotti e la compianta Patrizia Wolf. Ci sembrava doveroso e rispettoso tributarle uno spazio su questo sito.

La Parigi-Dakar è una gara sufficientemente dura di per sé, ma c’è sempre qualcuno che decide di complicarla ulteriormente con qualche idea strampalata come quella di lasciare la capitale francese su tre ruote, in sidecar o in trike, oppure affidandosi alla ridotta potenza di una 125 o una 250, trovandosi poi ad annaspare a passo d’uomo nella sabbia.

Solitamente si tratta di iniziative nelle quali credono poco anche gli stessi protagonisti, che riprendono la strada di casa dopo un paio di giorni d’Africa. Fanno sicuramente eccezione alla categoria Franco Zotti e Patrizia Wolf, partiti dall’Italia per raggiungere Dakar edizione 1989 in sella ad due Honda XR 250 a quattro tempi.

«L’ho fatto perché se arrivi al traguardo per ultimo con una 600 non sei nessuno spiega Zotti — mentre finire la gara con una quarto di litro vale qualcosa di più».

Goriziano, ventinove anni, Zotti è alla seconda Dakar dopo una breve partecipazione nell’88, della quale si parlò perché per cercare di incrementare il budget si tuffò in acqua da un ponte alto ventidue metri. Quest’anno invece per autofinanziarsi ha lasciato il lavoro…

«Rischiare la vita buttandosi in un fiume per racimolare pochi spiccioli è una follia, per questo ho rinunciato. Mi sono licenziato e con la liquidazione per i dieci anni che ho lavorato come ma-gazziniere ho pagato l’iscrizione. Per la moto, il meccanico e le spese ho fatto dei debiti. Una volta a casa troverò un altro lavoro e li pagherò. Non è una follia. Ognuno ha i suoi sogni e se arriverò a Dakar io avrò realizzato il mio».

Per Patrizia Wolf invece, quella di correre con una 250 non è stata esattamente una scelta. «In realtà, dopo avere corso il Rally dei Faraoni non pensavo neppure di venire alla Dakar L’idea è nata quando sono stata alla concessionaria di Ormeni per ordinare la moto con cui correrò nell’89 Massimo Orme-ni mi ha offerto di partecipare con una moto identica a quella di Zotti che era già pronta. Non potevo rifiutare».

Ventisettenne tedesca di Darmstadt, Patrizia è venuta in Italia tre anni fa per disputare una delle sue prime gare e non se n’è più andata.

«Avevo cominciato a correre nell’enduro in Germania, ma è Bergamo la capitale di questa specialità, così mi ci sono ferma-ta trovando uno sponsor nella IPA (un’azienda che produce prefabbricati) che oggi è anche l’azienda per cui lavoro. Finirà che dovrò lasciare la Dakar ma in fondo è l’enduro la specialità che preferisco. Per correre basta una moto e via, senza tanti problemi di assistenza».

Laureata in architettura all’università di Francoforte, ipersportiva (per allenarsi pratica footing e ciclismo), Patrizia ha scoperto proprio in Africa l’amore per la moto. Era in Algeria, a Tamanrasset, per praticare free climbing, un’altra delle sue specialità preferite, e vedeva ogni giorno qualche motociclista in partenza o di ritorno dalle piste. Fino a quando qualcuno non l’ha fatta provare. «Mi sono divertita moltissimo e così ho finito per cambiare sport, anche perché dall’Africa sono tornata tutta scorticata per una caduta mentre scalavo una parete e perché non ho più amici con la stessa passione».

Alla sua seconda Parigi-Dakar è rimasta l’unica donna in gara. Viaggiando ad una velocità che nella sabbia non supera i 60 km/h Franco e Patrizia viaggiano uno a fianco all’altro, aiutandosi a vicenda ad uscire dai guai quando necessario. Sulle spalle hanno un fardello di sette-otto chili tra attrezzi e pezzi di ricambio. Tutto l’indispensabile per un intervento di fortuna. L’imperativo è fermarsi soltanto a Dakar.

Ndr. Franco e Patrizia arrivarono regolarmente a Dakar sulle loro piccole Honda, in 31° e 32° posizione, su 60 moto al traguardo!

Una storia di deserto e paura a lieto fine, firmata Aldo Winkler

Mario e Giorgio hanno fatto per me la fila al telefono, chiamandomi una volta arrivato il mio turno. C’è voluto un po’ di tempo per parlare con Paola perché l’operatrice faticava a prendere la linea internazionale ed ha dovuto ripetere più volte il numero. Da tre giorni mia moglie riceveva mie notizie in maniera frammentaria, ma tutto sommato rassicuranti. Abbiamo parlato poco, disturbati dalla presenza della gente in coda. Mi offrono un’altra sigaretta e la fumo volentieri mentre rispondo alle domande ed ai saluti di chi non si aspettava di vedermi varcare la soglia del Sofitel Gaweye Hotel di Niamey. Quando finalmente andiamo a mangiare è passata la mezzanotte. Il ristorante dell’albergo sta chiudendo, ma accetta di fare uno strappo alla regola. E’ elegante e pulito: io invece ho ancora addosso la tenuta da gara, stivali compresi.

Tocco il gri gri de la bonne route, il portafortuna che da cinque anni, da quando partecipo ad una gara in Africa, ho sempre legato in vita, e non posso non ammettere che il suo ruolo di «guida» lo ha svolto anche questa volta. Non mangio da quattro giorni, ma non ho fame e me ne meraviglio un po’ Sento piuttosto di avere lo stomaco bloccato. Però quando arriva il salmone affumicato lo divoro in un battibaleno e faccio altrettanto con il filetto ai ferri e le patatine fritte. L’ultimo pasto, se così si può chiamare, l’ho fatto la sera del 2 gennaio a Termit dividendo un pezzo di pane e un po’ d’acqua con Roberto Boano. Al campo non c’era il camion dell’Africatours e quindi eravamo rimasti senza cena. Non hanno portato neppure l’acqua e l’unica razione che sono riuscito a trovare è stata il mezzo litro datomi dal camion di assistenza del-l’Aprilia. Con quella sono partito verso Agadez la mattina del 3 gennaio.

Intanto intorno a me cresce il numero delle persone che vuole ascoltare la mia storia di «sopravvissuto» e comincio a raccontare ritornando con la mente a poche decine di chilometri dalla partenza… La mia Honda inizia a scoppiare, poi si spegne. Penso siano i getti intasati, oppure il filtro della benzina sporco. Pulisco gli uni e l’altro, e riparto per una pista con molte tracce. Perlomeno di qui passerà qualcuno. Mi dirigo verso la Falaise di Termit fino a quando, in prossimità di una grande duna, le tracce tagliano verso est. Le indicazioni del road book però sono diverse e decido di seguirle. Non sono il solo, sulla sabbia vedo i segni del passaggio di altre tre moto.

Il motore si spegne di nuovo poco più avanti e di nuovo riparte una volta puliti i getti ed il filtro della benzina. Raggiungo un erg pieno di dune e il motore si spegne ancora. Il vento soffia forte, e quando ho ultimato l’ormai rituale operazione di pulizia del carburatore, ha cancellato completamente le tracce. Decido di tornare indietro, di riprendere la pista più battuta. Quando raggiungo l’oued di Egadò è ormai buio, così decido di fermarmi lì per passare la notte. Sono solo e mi metto a lavorare sulla moto con tutta calma, sparpagliando i pezzi un po’ dappertutto. Smonto la sella, pulisco il filtro dell’aria, il carburatore. Non ho ancora finito di rimontare quando mi si avvicinano silenziosi tre ragazzi, vestiti con abiti chiari. Mi sono ostili, ma me ne rendo conto soltanto una volta che se ne sono andati portando con loro i miei guanti, altre cose che avevo sparso in qua e in là e soprattutto la borraccia con il suo prezioso contenuto d’acqua. Ci mancava anche questa. Mi consolo pensando che ho ancora con me il sacco a pelo.

Alle prime luci del giorno sono già in piedi. Riavvolgo in fretta il sacco a pelo, do un’ultima controllata e metto in moto. Percorro l’oued fino a quando non incrocio le tracce lasciate dal passaggio della gara. Sono sulla pista giusta. Altri quindici chilometri e la moto si ferma di nuovo. Questa volta definitivamente. Si è rotto l’alloggiamento in ottone del getto del massimo. Con il carburatore in queste condizioni è un’utopia pensare di ripartire. Continuo sconsolato a lambiccarmi il cervello sul carburatore, poi mi decido ad accendere la balise. È una cosa che non vorresti mai fare. Come scatta l’interruttore sei ufficialmente fuori gara. La tua Dakar è finita. Ma considerato che mentre la corsa è ferma ad Agadez per la giornata di riposo io sono bloccato qui non vedo alternative possibili. Azioni il fatidico interruttore e mi meraviglio un po’ perché la spia rossa rimane spenta. Mi convinco che si accenderà soltanto per segnalare le ultime sei ore di autonomia della batteria che ne comanda il funzionamento, e che la TSO è già a conoscenza della mia posizione. Non saprò mai durante i giorni passati nel deserto che la balise è rotta e non manda alcun segnale.

Dopo un paio d’ore ho piuttosto la prova del contrario quando vedo passare sopra la mia testa un aereo dell’organizzazione che si accorge di me e mi invia un messaggio. Devo scrivere il mio numero di gara sulla sabbia, e restare vicino alla moto. Sono sulla pista giusta e il camion scopa verrà a prendermi. L’aereo se ne va senza lasciarmi provviste. Niente da mangiare e soprattutto niente da bere. La sete comincia a farsi sentire e la poca acqua che avevo se la sono portata via i tuareg. Però mi hanno localizzato e manderanno i soccorsi. Comincio a fare congetture sul camion balai, su quanto tempo passerà prima del suo arrivo. Cavolo, mi dico, ho perso la gara, ma pazienza. Anche Gualini è ritirato e sarà ad aspettarmi ad Agadez. Una volta insieme potremmo ritornare sulla pista, con il camion della assistenza, potremmo recuperare la moto, aggiustarla, ed attraversare il Ténéré da turisti. Non l’ho mai fatto e l’idea mi affascina. Dopo possiamo proseguire fino a Dakar, imbarcare le moto e tornare in Italia.

È solo uno dei miei tanti pensieri. Nella testa ne frullano a migliaia ed il tempo non passa mai. Ripenso ad un libro sulla vita dei tuareg e di come questi passino intere giornate nel deserto immobili come pietre. Cerco di imitarli, ma con misero effetto.

Mi scopro a contare i minuti, i secondi e con il lento scorrere delle ore la mia fiducia di vedere apparire il camion della salvezza comincia ad affievolirsi. Col buio la sensazione di isolamento è anche maggiore, e diminuisce la speranza. Comincia anzi a prendere corpo la consapevolezza di poter morire. Non paura, rassegnazione.

Prego, piango, mi dico che non ho dato alla gente cui voglio bene tutto quello che meritava. Penso molto, troppo. Soffro pensando che mia moglie resterà da sola. Faccio testamento, dettando le mie ultime volontà sulle pagine dell’agendina che ho dentro il portafoglio. Non è un vero testamento. È una lettera per Paola. Una lettera d’amore. Riesco anche a prendere sonno e quando dormo sogno cascate, vasche da bagno, acqua minerale. Soltanto sogni acquatici, ma si può capire. Patisco la sete ancor più della solitudine. Al levar del sole inizia la mia terza giornata da disperso. Sono sempre più pessimista sulle possibilità di venire ritrovato. Comincio a pensare che il camion balai potrebbe essere già passato due giorni prima nel punto in cui mi trovo ora. Passato di qui mentre mi trovavo accampato sull’oued a una quindi-cina di chilometri di distanza. Potrebbe anche essere finito fuori rotta, come in effetti è stato, e non passare mai più a riprendermi.

Passo la mattinata a scervellarmi, poi decido di muovermi. Domani potrei essere troppo debole per farlo, oggi invece tornando indietro per una quindicina di chilometri ritroverò l’oued dove ho incontrato i tuareg e forse troverò da bere.

Sono ormai tre giorni che non bevo, le labbra sono secche e mi brucia la gola. Riordino tutte le mie cose, e prima di partire traccio una grossa freccia, con la punta rivolta nella direzione in cui mi incammino. Quindi mi carico sulle spalle il sacco a pelo. Da quello proprio non voglio separarmi. In moto mi era sembrato un tragitto molto breve. A piedi è una marcia tremenda. Cammino piano per ri-sparmiare energie. Quello che mi interessa è arrivare prima del buio.

Sono più fortunato di quanto mi aspettassi. Dopo sei ore di marcia raggiungo l’oued ed anziché i tuareg truffaldini trovo una famiglia molto gentile e ospitale. L’uomo è vecchio, molto più vecchio della donna che vive insieme a lui ed a cinque bambini, tre maschi e due femmine. Non parlano francese, ma ci intendiamo a gesti. Capiscono che ho molta sete e mi danno da bere. Non acqua, come sto sognando da tre giorni, ma latte di cammello. E munto dalla mattina e si è rappreso nel suo contenitore metallico. Ha un sapore acido, forte, quasi disgustoso, ma è la mia salvezza. La bambina più piccola è malata, ha la febbre. Mi offro di darle un’aspirina ed il padre accetta. Mi rendo conto di come questo incontro abbia allentato la tensione, di come abbia riacceso la speranza. Non sono più solo. Sono soltanto abbandonato. Ora devo trovare un modo per togliermi dai guai. Da un difficile dialogo con il tuareg emergono indicazioni precise. Si può raggiungere Agadez viaggiando per dodici giorni a dorso di cammello oppure incrociare la strada asfaltata a Tanak e in questo caso il tragitto è molto più breve: solo cinque giorni.

Decido di accordarmi per partire l’indomani mattina verso Tanak e mentre cerchiamo di capirci appaiono i tre tuareg che mi avevano rapinato. Spiego al vecchio la mia disavventura ma me ne pento perché subito pretende che mi venga restituito il maltolto. Ne nasce un violento ed incomprensibile diverbio seguito da un inizio di rissa, ma fortunatamene ci si ferma alle minacce. Mi viene restituito tutto, tranne la borraccia che hanno lasciato al loro accampamento, distante una decina di chilometri. I miei tentativi di spiegare che non è la borraccia ad interessarmi ma soltanto tornarmene a casa il più presto possibile cadono nel vuoto.

Il tuareg ne fa una questione di principio e domani partiremo a dorso di cammello soltanto dopo averla recuperata.

Una operazione che comporte-rà un’inutile camminata supplementare, ma la mia guida non vuole sentire ragioni. Intanto passo il tempo rendendomi utile. Riparo una borraccia realizzata con una camera d’aria da camion utilizzando le pezze che avevo con me per rimediare ad eventuali forature. Un’operazione che accresce la mia popolarità in famiglia. Vivere da tuareg mi affascina e mi sorprende.

Non mangiano niente. Si nutrono di latte di cammello, tè, che bevono più volte al giorno seguendo un complesso cerimoniale. A preparare la bevanda è l’uomo. Fa scaldare un contenitore d’acqua nella cenere. Una volta calda, la travasa in un altro recipiente con le foglie di tè e da quello ad un altro ancora. I travasi si susseguono all’infinito prima di arrivare finalmente ai bicchieri. Il padre realizza delle corde utilizzando fasci d’erba. La mia prima notte da tuareg non è così dura come le due da disperso. Ci vorrà tempo e pazienza, ma riuscirò a raggiungere l’asfalto e la salvezza. A dorso di cammello. L’indomani vorrei partire all’alba, ma c’è la borraccia da recuperare e nel portare a termine la missione se ne va quasi l’intera mattinata. I tuareg,non hanno fretta e sono lenti, lentissimi. E inutile che mi agiti. Ormai sono uno di loro e mi devo adeguare ai loro ritmi. Piuttosto cerco di imparare a cavalcare il cammello, ma non è facile. Sarei pronto per la prima tappa, ma ancora non si parte.

Passa mezzogiorno e continuo a guardare l’orologio. Sono le 12.35 quando mi passa sopra la testa un aereo della Dakair. Non ci speravo più. Lo guardo, ma non cerco di attirarne l’attenzione. Lo guardo fisso e non penso neppure per un attimo all’eventualità di non essere visto. Passa su di me una seconda volta e capisco che devo segnalare la mia presenza. Comincio ad agitarmi, e scrivo il mio numero sulla sabbia. Segnalo anche che ho bisogno di viveri. Mi viene buttato un messaggio ed una razione energetica. Nel foglietto, raggiunto dopo mille peripe-zie, c’è una promessa rassicurante: «tra un’ora e mezza verrà a prenderti l’elicottero». Sono certo che questa volta manterranno la parola. Il mio amico tuareg potrà fare a meno di scortarmi a Tanak ed io rientrerò ad Agadez a tutta velocità. L’elicottero è puntuale e prima di salirvi abbandono al vento il testamento.

Quando atterriamo ad Agadez i responsabili della Dakair, che hanno coordinato le ricerche, sono felici quanto me che questa brutta avventura sia finita. Anche loro hanno dormito pochissimo e sono stanchi. Stappano una bottiglia di champagne e basta un bicchiere a farmi girare un po’ la testa. Poi partiamo tutti alla volta di Niamey. Insieme a me c’è Beppe Gualini che ha collaborato con Dakaír alle operazioni di soccorso seguendo soprattutto le mie ricerche. In poche ore sono davanti al filetto ai ferri con le patatine ormai al sicuro. Cerco di rispondere a tutte le domande e penso che sarei molto più felice se si interessassero a me perché sono riuscito a vincere una tappa, magari solo per un colpo di fortuna.

Penso che non avrei voluto lasciare la moto nel deserto, perché Mario, il mio meccanico, aveva lavorato tanto per prepararla alla gara. Era una bella moto, ma vecchia. È solo per questo che si è rotta. Perché era vecchia.

Penso anche che questa esperienza mi abbia dato molto, più che se avessi finito la gara, che le foto scattate con l’automatica insieme ai tuareg saranno tra le più preziose del mio album. Penso che questa esperienza abbia lasciato il segno, che qualcosa in me sia cambiato. Se tornerò alla Parigi-Dakar? Lasciatemi un po’ di tempo per pensarci.

ALDO WINKLER – PARIS DAKAR 1989

fonte motosprint
foto motosprint e archivio fb Aldo Winkler

Pilet su Honda XR 250 R

M. Pilet su Honda XR 250 R, 21º nella generale della Dakar 1989 a solo 20’00”30 da Lalay!

motogruptortugas.blogspot.it

Suzuki DR 800 Z BIG 1989

Anche la gialla Suzuki di Gaston Rahier è praticamente uguale alla moto già vista nell’edizione della Dakar 1988. I più sostanziosi interventi riguardano il motore, maggiorato fino a 810 cc aumentato di potenza ed addolcito contemporaneamente nell’erogazione per migliorarne il comportamento sin dalle minime aperture dell’acceleratore.

Carter in magnesio, nuovi carburatori e nuovo sistema di filtro d’aria incrementano la respirazione del propulsore. Inalterato l’esclusivo sistema di raffreddamento SACS ad aria più olio, con grande circolazione del lubrificante nella testa e nel cilindro.
La distribuzione è monoalbero con quattro valvole e doppia accensione per accelerare la propagazione del fronte di fiamma. Cambio cinque marce e frizione in bagno d’olio. La potenza supera i 65 cavalli con una coppia sostanziosa di ben 8,7 Kgm sin dai bassi regimi.

Il serbatoio principale è realizzato in alluminio come quelli posteriori, per contere il più possibile il peso, ora ridotto a 151 Kg a secco secondo le dichiarazioni ufficiali.

La linea simile alla DR Big normalmente in vendita, è caratterizzata dal pronunciato “becco”, carenato per migliorare l’efficienza aerodinamica.

Il telaio è monotrave in acciaio al cromo-molibdeno con culla sdoppiata sotto il motore con una nuova geometria e disposizione dei pesi per migliorare la guidabilità, per altro già molto buona.

La geometria della sospensione posteriore è stata rivista per variare la progressione dell’ammortizzatore e la forcella è stata sostituita con un’altra maggiormente dimensionata, di più ampia escursione e ricavata dal “pieno”. Il serbatoio supplementare di destra è stato ridotto nelle dimensioni per alloggiare il lungo terminale di scarico realizzato completamente in titanio.

Gaston Rahier concluderà la Dakar 1989 all’undicesimo posto, Charbonnier 14°.

Honda NXR 750 1989

In Giappone quando decidono di fare una moto vincente non scherzano e sanno decisamente come fare. La Honda NXR 750 è un vero e proprio prototipo creato per vincere la gara più dura del mondo.
La Honda si presentò al via con la NXR 750, una bicilindrica 8 valvole di 780 cm³ capace di sviluppare oltre 75 cavalli, con un peso a secco intorno ai 160 kg: il risultato fu che Neveu e Lalay conclusero al primo e secondo posto.
L’anno successivo Neveu fece il bis, davanti a Edi Orioli. Il friulano vinse nel 1988 la sua prima Dakar in sella alla stessa moto usata da Neveu l’anno precedente, mentre nel 1989, Lalay portò al quarto successo consecutivo l’ultima evoluzione della NXR. Nel 1990 Honda decise di non proseguire con questa esperienza.

Aprilia Tuareg Wind 600 1989

Per la prima volta l’Aprilia partecipa alla Dakar 1989 in forma ufficiale: i piloti sono Andrea Balestrieri e Alessandro Zanichelli, due affermati specialisti delle maratone africane, e le moto derivano dalla Tuareg Wind 600 di serie.

Sono modificate per l’impiego specifico nella Dakar con un grande serbatoio principale che funge anche da carenatura mentre il cupolino col doppio faro rimane quello di serie. Il motore è il classico Rotax monocilindrico a quattro valvole ampiamente riveduto dai tecnici Apri-lia per accrescerne l’affidabilità.

Il raffreddamento rimane ad aria ma è stato aggiunto un radiatore dell’olio a quello già esistente, per diminuire la temperatura del lubrificante. Potenza dichiarata 46 cavalli, uguale a quella di serie nonostante sia diminuito il rapporto di compressione per utilizzare benzine povere d’ottani. Il carburante viene inviato al carburatore Dellorto da una pompa a depressione collegata al motore.

Oltre ai serbatoi della benzina ce ne sono altri due posti in basso davanti al motore, che conten-gono la scorta obbligatoria di acqua di 5 litri e del liquido energetico che il pilota può bere direttamente in gara tramite una piccola pompa elettrica azionata da un interruttore sul manubrio.

Il cruscotto dispone di una abbondante numero di strumenti con termometro dell’olio, contagiri, trip master ed una piccola bussola tradizionale. Anche la parte ciclistica deriva dalle moto normalmente in vendita ed è basata su un telaio monotrave in acciaio speciale con tubi a sezione qua-dra.

Le sospensioni vedono aumentata considerevolmente l’escursione ed il forcellone po-steriore è ora in alluminio. Per i freni all’anteriore c’è un doppio disco con pinze Brembo flottanti a singolo pistoncino premente, mentre dietro l’unico disco misura 220 mm.

Per l’articolo e le foto si ringrazia Andrea Torresani

Ecureuil BMW Dakar 1989

Utilizzando i motori ufficiali BMW bicilindrici boxer di 1020 cc, il team Ecureuil si ripresenta alla Dakar 1989 con la stessa rivoluzionaria moto utilizzata l’anno precedente. Prerogativa della moto francese è l’avvenieristica monoscocca realizzata in materiale composito di fibre di carbonio e kevlar, che sostituisce l’usuale telaio in tubi.

L’intera scocca pesa solo 6 kg ed è scomponibile in tre pezzi: quello anteriore sostiene la forcella, quello superiore funge anche da serbatoio principale e quello inferiore racchiude motore, cambio e attacco del forcellone. In caso di rottura durante la gara, lo stesso pilota può smontare il motore. Il cannotto di sterzo è regolabile nell’inclinazione per adeguarlo alle caratteristiche del percorso.

Le principali modifiche rispetto al modello precedente riguardano l’attacco superiore degli ammortizzatori debitamente rinforzato, ed il fissaggio del forcellone, ora più robusto e meglio dimensionato. La forcella è di tipo “rovesciato” con escursione di 300 mm, il forcellone è in lega leggera ed agisce su due ammortizzatori posti molto in avanti per accre-scere l’escursione della ruota posteriore che è ora di 280 mm.

Il peso a secco dichiarato è inferiore a 170 kg; un risultato davvero notevole dovuto al massiccio uti-lizzo di leggero materiale compo-sito. Il motore tedesco è accredi-tato di una ottantina di cavalli a 6500 giri; distribuzione ad aste e bilancieri con due sole valvole per cilindro, accensione elettro-nica ad anticipo automatico anch’esso elettronico e carburatori Bing a depressione da 40 mm. La frizione è a secco, il cambio è a cinque rapporti e la trasmissione finale ad albero.

Moto di Francesco Fermani
Foto di Alessio Corradini