Ténéré 4 cilindri per la Dakar

Una fredda mattina alla periferia di Parigi, un piccolo campo cross fuorimano, un pilota con gli sgargianti colori Sonauto, che si scalda i muscoli in vista della Dakar, caracollando in sella alla sua Yamaha “XT 600 Ténéré”: tutta normale, direte voi. Così sembra: ma sotto il gigantesco serbatoio della “Ténéré” batte un cuore che in comune con il propulsore monocilindrico della regina del deserto non ha proprio nulla. Si tratta infatti di un quattro cilindri raffreddato ad acqua, derivato dal motore venti valvole della “FZ 750”.

È presto per dire se questa fantastica “750” sarà il primo gennaio ’86 al via delta leggendaria maratona africana, anche se la cura meticolosa dei particolari (ravvisabile pure nelle foto del nostro top secret) dimostrano chiaramente che non si tratta di

un semplice esperimento dell’importatore francese, ma di qualche cosa di più che non può non avere avuto il placet della Casa madre. Non dimentichiamo che la stessa “Ténéré” è nata proprio da una “idea” di Jean Claude Olivier, generai manager della Sonauto e testa di serie dei piloti Yamaha per la Parigi-Dakar.

Dunque, la nuova belva franco-nipponica, che TUTTOMOTO vi presenta qui in esclusiva, potrebbe essere l’arma vincente della Casa giapponese, ben decisa quest’anno a strappare alla BMW la corona di regina d’Africa. Quanto a potenza non si discute, da verificare però l’affidabilità nel deserto.

ll motore della “FZ 750” è stato notevolmente alleggerito e si è lavorato sugli alberi a camme per ridurre la potenza, aumentando nel contempo l’elasticità ai bassi e ai medi. La sospensione posteriore è monocross.

Senza segreto: realizzata per la Parigi Dakar, la “Tènéré” 4 cilindri offre numerose interessanti soluzioni, alcune intuibili osservando le foto del nostro “scoop”. Il telaio, per esempio, è quello della FZ, ridotto però in lunghezza.
I carburatori, in posizione elevata e ben protetta, ricevono la benzina tramite una pompa meccanica. Il gigantesco serbatoio è in pratica doppio e funge pure da protezione laterale per il radiatore del raffreddamento a liquido. L’insieme appare estremamente compatto e funzionale, adatto al fuoristrada.

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Testo TuttoMoto Enzo Caniatti

Dakar 1986, nel deserto ogni promessa è debito

Nel deserto, ogni promessa è debito e Gilles Picard è la vittima sfortunata e disciplinata. Ecco come sono andati i fatti: la forcella anteriore di Gianpaolo Marinoni è scoppiata e con lei tutto l’olio. Quindi la sua Cagiva si comprime sulle sospensioni quando tocca terra dopo i salti e va a “pacco” così tanto che il filtro dell’olio che si trova sotto il carter arriva a terra e si rompe a sua volta. Marinoni si deve fermare, e quindi anche Picard, che rispetta il suo ruolo di gregario.

Beppe Gaulini in gara con una Elefant privata

Beppe Gaulini in gara con una Elefant privata

Ma Gilles non ha olio e Gianpaolo deve aspettare la Land Rover di assistenza rapida del team Lucky Explorer per poi ripartire con il coltello tra i denti. Un po’ più avanti rompe una ruota e il suo amico Beppe Gualini, in sella a una Cagiva privata, si ferma per cedergli la sua, rimanendo in attesa dell’assistenza Cagiva che provvederà a fornirgli il ricambio, permettendo a Gilles di ripartire e continuare la sua gara con velleità di classifica. È un regalo molto costoso perché il mezzo di assistenza rapida passa senza vedere Gualini che è fermo a bordo pista. Beppe riesce a ripartire molto più tardi ma verrà sanzionato con dieci ore di penalità per essere arrivato dopo la chiusura del controllo orario di arrivo.

Per niente contento va a lamentarsi dal manager del team ufficiale Cagiva che gli promette che in caso di necessità avrà un’assistenza identica a quella dei piloti ufficiali. E infatti il destino prontamente lo mette alla prova, il 6 gennaio Gualini rompe una ruota e fa fermare Picard che è piazzato bene in classifica generale, ventitreesimo. Il patto va rispettato e il gregario deve cedere la sua ruota a Gualini, che si trova in fondo alla classifica. Il volto del povero Gilles, che perde un’ora nella manovra, esprime perfettamente i tormenti del portatore d’acqua.

Tratto da: L’albero perduto della Parigi Dakar di Jean Lui Roy – Edizione Mare Verticale

Dakar 1986, la gara è dura ancor prima di iniziare!

Dopo l’euforia alla partenza parigina, la tregua è di breve durata, e il risveglio ancora più pesante, sulla strada nazionale numero 20. I motociclisti si comportano da pesci pilota e si rannicchiano nelle scie delle auto e dei camion, incollati ai fanali posteriori. Così racconta Pierre-Marie Poli, il leader della classifica delle moto dopo il prologo di Cergy: «L’esterno della visiera è ghiacciato e l’interno appannato. Allora apro la visiera, e, siccome sono miope, si forma subito del ghiaccio all’esterno delle lenti de-gli occhiali che si appannano all’interno… Allora abbasso la visiera, anche perché ho freddo, e mi ritrovo con quattro strati opachi davanti agli occhi. L’unica soluzione è incollarsi dietro a un camion dell’assistenza, così faccio per 150 chilometri; quando vedo solo un fanale vuol dire che sono troppo vicino, quando li vedo tutti e due vuol dire che sono troppo lontano. Certo che se fosse entrato in un parcheggio l’avrei seguito senza esitazioni. Il solo inconveniente è che in salita arranca un po’.»

Il risultato è che Poli è arrivato con soli cinque minuti di anticipo sulle diciotto ore consentite per correre i 1.100 chilometri della tappa. Come di consueto Thierry segue la carovana per piacere personale, per immergersi nell’atmosfera sempre più calda e per raccogliere delle impressioni forti. Per le auto e per i camion la situazione è molto più confortevole, se il sistema di riscaldamento non è stato smontato, come invece succede di norma nel caso dei prototipi. I copiloti rivaleggiano in astuzia per combattere l’appannamento che invade i parabrezza, alitare a turno non è certo una soluzione da adottare.

Fenouil ha portato con sé un asciugacapelli che attaccato alla presa accendisigari fa meraviglie, ma il primo premio per il racconto di Capodanno va a Jean-Christophe Pelletier (ndr. forse ricorderete la sua partecipazione all’edizione 1981 a bordo di una Rolls Royce), con una di quelle storie che tanto piacciono a Thierry: con sei Dakar all’attivo e quattro arrivi sulla spiaggia, due in auto e due in moto, Jean-Christophe è uno dei più esperti del gruppo. Prime difficoltà già al parco chiuso di Versailles, il giorno del prologo, con la sua Yamaha che rifiuta di avviarsi.

Per di più è arrivata la neve, pur non essendo stata richiesta da Thierry. In qualche modo riesce a raggiungere Cergy e a tornare indietro a fatica, afflitto da un insieme di problemi di accensione e di carburazione. Il primo gennaio il motore si spegne sotto la passerella del via. Parte in ritardo e 7 chilometri a sud di Limoges il motore si ferma definitivamente. Sono le sette di sera, è notte, fa freddo, piove. Il suo mezzo di assistenza è più avanti, perché i camion sono partiti per primi, alle sette del mattino. A un tratto due ragazzini di sedici anni sbucano dal bosco e gli dicono: «Ma lei è uno della Parigi – Dakar! La spingiamo fino alla nostra fattoria, abbiamo degli attrezzi.»

Siccome la fortuna non arriva mai da sola, una vettura si ferma dall’altra parte della strada e scende un signore con una cassetta degli attrezzi: «Sono un meccanico della Motobécane a Limoges, le riparo la moto.» Non aveva la barba bianca e la giubba rossa… Spingono la moto per un chilometro nei campi e la portano nella stalla. A sinistra ci sono delle pecore, una delle quali sta anche partorendo, a destra dei carretti, e in mezzo questa bestia gialla e nera, sotto gli occhi brillanti dei due ragazzini con le guance rosse, che hanno passato la giornata sul ciglio della strada a guardare sfilare tutti quei mostri ricoperti di adesivi. Il meccanico si mette al lavoro, smonta il carburatore e dopo un’ora e mezza trova una scaglia di vernice del serbatoio nella vaschetta.

Sono le otto e mezza di sera e Jean-Christophe ha ancora otto ore per arrivare a Sète, sotto 700 chilometri di pioggia. Rimontaggio lampo e atmosfera tesa nella stalla, sotto una luce fioca. Nonostante decine e decine di colpi di pedivella non c’è niente da fare, la moto non si accende. C’è un filo elettrico di massa che genera un corto circuito ma il meccanico, rappresentante della Motul della regione ed ex crossista, non riesce a trovarlo. Alle dieci è la resa, non c’è più alcuna possibilità di arrivare in tempo. La fiaba di Capodanno potrebbe finire così, tristemente, e invece i due ragazzi invitano Jean-Christophe a entrare in casa. I suoi vestiti si stanno asciugando attorno alla cucina economica e sulla tavola ricoperta di tela cerata fanno bella mostra dei piatti uno più invitante dell’altro: salmone affumicato, tacchino e altre delizie. Sono gli avanzi della vigilia e il motociclista deluso e sfinito si può abbuffare senza ritegno, raccontando storie della Parigi – Dakar ai ragazzini che lo ascoltano incantati.

Tratto da L’albero perduto della Parigi Dakar di Jean Lui Roy edito da Edizioni Mare Verticale

1986 – Una Dakar sfortunata per Serge Bacou

Una volta di più la malasorte ha colpito Serge Bacou, e senza aspettare il Ténéré, questa volta. Tamanrasset e Iférouane, il road book indica la presenza di un solco profondo. L’anno precedente la corsa di Marinoni era terminata proprio in quel punto. Hubert Auriol l’ha vista sul suo rullo ma…

Prologo innevato per la carovana Dakar 1986

Prologo innevato per la carovana Dakar 1986

«Sono arrivato molto veloce, a 120 o 130 chilometri all’ora, l’ho visto troppo tardi. Sono volato per almeno due metri, per un attimo ho anche creduto di riuscire a recuperare, invece la ruota anteriore si è piantata ed ho fatto una caduta da judoka temendo che la moto mi cadesse addosso.»

7 titoli di campione di Francia di motocross (1971 classe 250, 1971, 1972, 1973, 1974, 1976 e 1977 classe 500 e 13 tappe vinte nelle 8 Dakar a cui ha partecipato.

7 titoli di campione di Francia di motocross (1971 classe 250, 1971, 1972, 1973, 1974, 1976 e 1977 classe 500 e 13 tappe vinte nelle 8 Dakar a cui ha partecipato.

Appena rimessosi in piedi, Hubert gesticola per avvertire Cyril Neveu che lo seguiva da vicino. Recupera la moto e riparte. Poco dopo anche Gaston Rahier è vittima della doppia cunetta. Rimane a terra intontito e intanto compare il grande Serge che spinge al massimo tentando in tal modo di colmare l’handicap di potenza della sua Yamaha monocilindrica in questa tappa veloce. Come quelli che lo hanno preceduto de-colla e cade malamente, rimanendo a terra con la gamba a squadra. Rahier si riprende e si precipita a soccorrerlo e Serge lo informa:
«Ho il femore rotto.»
Non sarà Bacou a vincere l’ottava Dakar…

La reputazione del Ténéré, uno dei deserti più impressionanti del mondo, è giustificata. «La sabbia è molle, assai poco compatta, molto più difficile dell’anno scorso. Alcuni ostacoli sono nascosti dalle dune che si spostano in continuazione per effetto del vento. Non perdete la pista, mi raccomando non allontanatevi; non perdetevi d’occhio.»
Thierry Sabine chiarisce le insidie di tappa pur non volendo drammatizzare eccessivamente la situazione.

Il tragico destino di Jean Michel Baron

L’ 11 gennaio 1986 si è andati avanti con una tappa interminabile di 590 chilometri su strada fino a Zinder e tutti i concorrenti hanno assistito a una scena terribile qualche decina di chilometri dopo Nguigmi: Jean-Michel Baron, già dolorante al bacino da più di cinque giorni, giace a terra su un fianco. Ha il viso tumefatto e il ginocchio scoppiato, ed è privo di sensi; la sua Honda 750 è a parecchie decine di metri di distanza. Tutti i concorrenti si fermano per soccorrerlo. Jean-Claude Olivier gli taglia la tuta con il coltello per permettergli di respirare e resta con lui parecchie ore per pulire le ferite. Nel frattempo Gaston Rahier e Jacky Ickx tornano alla partenza per telefonare. Vengono attivati i radiofari d’emergenza. Purtroppo i tre elicotteri sono a terra. Tre ore dopo i dottori Florence Bonnel e Alain Lamour a bordo del veicolo medico si allontanano dalle sabbie della speciale e arrivano in soccorso di Jean-Michel. I medici valutano la gravità delle lesioni: coma al secondo stadio, lesione al ginocchio con ferita profonda, gomito destro fracassato, frattura del volto. Si attiva allora l’organizzazione per le grandi emergenze.

Jean Michel Baron

Jean Michel Baron

Thierry Sabine decolla immediatamente con l’elicottero pilotato da Francis-Xavier Bagnoud per trasportare il ferito a Nguigmi. Patrick Fourticq, trentanove anni, comandante dell’Air France oltre che protagonista del rally africano in veste di pilota, prende i comandi di un Cessna e si precipita a Nguigmi con i dottori Marianne Fleury e Alan Jones a bordo. Roger Kalmanowitz allerta SOS Assistance a Ginevra che garantisce un Lear-Jet per le due del mattino a Zinder. Il Cessna si insabbia subito dopo l’atterraggio, allora Fourticq si rivolge al responsabile della pista di atterraggio, che si scopre essere un suo ex allievo pilota.

Sta preparando le segnalazioni per l’elicottero che non è ancora arrivato, perché ha dovuto fare rifornimento. Il ferito viene quindi caricato sul Cessna e bisogna riuscire a decollare. Ci vogliono sette uomini per disinsabbiare l’aereo. La vettura della polizia viene collocata all’inizio della pista con i fari accesi e due uomini con le torce segnalano le distanze. Fourticq lancia l’aereo e riesce a emergere dalla sabbia e a decollare. Due ore dopo il Cessna atterra a Zinder. Il dottor Lapendry, capo della squadra medica dell’ambasciata, ha già predisposto tutto: la modesta infermeria del piccolo aeroporto è stata trasformata in blocco operatorio. «Abbiamo dovuto eseguire un intervento chirurgico come da protocollo: è stato necessario pulire le ferite ed effettuare una verifica chirurgica per preservare la futura funzionalità degli organi.»

Claude Lapendry, insieme a Jacques Azorin e Olivier Aubry opera il ginocchio, il gomito e il viso di Jean-Michel Baron, inserendo dei cateteri nei diversi organi vitali alla luce dei neon. La scena di questi uomini in verde, mascherati, che si aggirano intorno a uno di loro per cercare di strapparlo alla morte nel profondo del deserto è irreale, quasi fiabesca. La notte, al bivacco, i concorrenti sfilano uno dopo l’altro, con le immagini accumulate poco prima a lato della strada nel Niger meridionale ancora impresse in fondo agli occhi. Quando arrivano al camion di Africatours per prendere da mangiare si sfogano. «Gli avevo detto ieri sera di fermarsi. Non era più il caso di proseguire, aveva troppo dolore al bacino.»

È Gilles Picard, suo compagno di squadra alla Cagiva che parla, lentamente, sommessamente, come se si potesse tornare indietro nel tempo. «Per parecchie ore, nella pausa della corsa, mi sono domandato cosa ci facessi qui e se fosse il caso di continuare.»
Gérard Tilliette ha un macigno sul petto. Sarebbero comunque ripartiti tutti il giorno dopo, verso i 205 chilometri di insidie tra Tahoua e Talcho, prima di concedersi il piacere di una giornata di riposo a Niamey. Nella notte il jet ha trasportato Baron verso Parigi, verso la civiltà, verso una clinica specializzata.
ndr: purtroppo Baron non si riprese mai da quell’incidente, rimase in coma vegetativo fino alla suo decesso il 7 settembre 2010.

tratto da: L’albero perduto della Parigi Dakar di Jean Luc Roy edito da Edizione Mare Verticale

 

Hau e Balestrieri Dakar 1986

Heddy Hau insegue un coriaceo Andrea Balestrieri sul podio nella classifica finale della Dakar 1986.

J.C. Olivier Dakar 1986

J.C. Olivier in versione meccanico, lavora sulla Yamaha 600 di Charbonnier durante la Dakar 1986.

Hiroshi Nakamura Dakar 1986

Dal Sol Levante con coraggio e onore: Hiroshi Nakamura in un paesaggio surreale durante il prologo della Dakar 1986.

Hiroshi Nakamura Dakar 1986

Dal Sol Levante con coraggio e onore: Hiroshi Nakamura in un paesaggio surreale durante il prologo della Dakar 1986.

1986 – Thierry Sabine, il visionario della Parigi-Dakar

C’è un albero – uno solo – che sorge in cima a una piccola duna in pieno Ténéré. Dicono che sia un’acacia: il tronco contorto, affaticato dagli anni e da un clima impossibile, i rami secchi, attorcigliati, protesi come mani scheletriche verso il cielo. Sembra quasi supplicare un’improbabile pioggia che dia un po’ di sollievo alla sua inestinguibile sete. Eppure la pianta sopravvive, a dispetto di ogni logica, ai margini della pista che, attraverso il deserto, collega Iferouane a Chirfa, nel nord-est del Niger. I carovanieri e i nomadi che passano di qui lo chiamano “albero perduto”, ma nessuno sa dire a quale oasi è sfuggito, né quale miracolosa vena d’acqua presente nel sottosuolo riesca a mantenerlo in vita.

Lì, proprio ai suoi piedi, oggi vive lo spirito libero di un autentico visionario. Una stele e le sue ceneri, disperse tutte intorno dopo la sua tragica morte, avvenuta nel 1986 nello schianto dell’elicottero su cui viaggiava, sono tutto ciò che resta di Thierry Sabine.

«Il deserto mi ha lasciato vivere. Il deserto mi richiama» era solito dire.

E così è stato. Nove anni prima, non lontano da qui, il giovane Thierry, bello, ricco, biondo come un normanno, pilota di auto e di moto appassionato di avventure e di competizioni estreme, smarrisce la strada durante una tappa del rally Abidjan-Nizza. In sella alla sua Yamaha XT 500 da enduro rimane isolato dal resto dei concorrenti e si ritrova in mezzo al nulla senza bussola, senza acqua e senza cibo. Uniche compagnie un’inutile mappa e un gri-gri, un amuleto portafortuna regalatogli da un amico tuareg da cui non si separa mai.

Il ragazzo di Neuilly-sur-Seine non si perde d’animo: strofina il feticcio fin quasi a consumarlo, tanto cosa ha da perdere? Caso o destino il gri-gri fa il suo dovere: dopo tre giorni e tre notti il pilota francese viene localizzato e soccorso. Contro ogni previsione Thierry Sabine è salvo. Ma anche irrimediabilmente cambiato. Quelle ore di solitudine, passate in balia di un mare di sabbia a strofinare un aumuleto di cuoio, lo hanno conquistato tanto da fargli dimenticare la paura della morte. Il silenzio del deserto, interrotto solo dal vento che modella le dune in forme effimere come quelle delle nubi, gli ha fatto intravedere nuovi orizzonti, nuovi obbiettivi. Non miraggi o fate morgane, ma vere e proprie visioni che di lì a poco avrebbe trasformato in realtà.

La visione di Thierry

Già sull’aereo dell’aviazione militare algerina che lo riporta a casa Thierry Sabine inizia a pensare a un rally per mezzi a quattro e due ruote come non si è mai visto prima. Una competizione sensazionale, dal percorso a dir poco folle, con partenza nel centro di Parigi e arrivo, dopo circa venti giorni, sulle spiagge bianche e assolate di Dakar. Due continenti, un mare da attraversare e in mezzo il nulla – o il tutto – del Sahara. Un raid, più che una gara, dove la resistenza e l’abilità del pilota, ma anche le prestazioni e la robustezza del mezzo, verranno messe a dura prova da difficoltà ambientali estreme. Ma anche un’occasione irripetibile per i concorrenti per misurarsi con i propri limiti, in un mix di fascino e di avventura, di esotico e di modernità, di grandi panorami e di condizioni impossibili. «Una sfida per quanti partecipano» è il suo credo «ma anche un sogno per chi sta a guardare».

La visione di Sabine si concretizza in pochi mesi. Tornato in Francia comincia a darsi da fare per trovare i finanziamenti necessari alla realizzazione del suo progetto. Bussa a destra e a manca, instancabile e insistente, deciso a realizzare il suo obbiettivo. Finché, miracolosamente, i soldi saltano fuori soprattutto grazie alla Oasis, un’azienda che produce succhi di frutta. Dopo nemmeno un anno dalla sua progettazione la Parigi-Dakar può già dirsi una realtà.

Il 26 dicembre 1978, giorno di Santo Stefano, centottantadue veicoli di ogni tipo si radunano rombanti sulla spianata del Trocadéro, all’ombra della Tour Eiffel. A bordo ci sono professionisti e privati, piloti esperti e semplici amatori. Li unisce la voglia di avventura, ma anche una buona dose di incoscienza. Li aspettano, infatti, diecimila chilometri da percorrere attraverso Francia, Algeria, Niger, Mali, Alto Volta (oggi Burkina Faso) e Senegal. Poche strade asfaltate, molte sterrate e poi chilometri – tanti – di piste sabbiose che attraversano il deserto. Di quelle che oggi ci sono e domani no, cancellate – o spostate – dal vento, e che per questo non si trovano sulle cartine. Assistenza meccanica poca o nulla, viveri scarsi, clima feroce anche in pieno inverno. La bussola e la volta stellata come uniche guide. L’adrenalina e la benzina come propellenti per affrontare l’avventura. La voglia di arrivare a tutti i costi come obbiettivo assoluto.

Sono solo in settantaquattro, però, a raggiungere – il 14 gennaio successivo – la spiaggia del lago Rosa, pochi chilometri a nord di Dakar.

Il primo è un ventunenne di Orléans, Cyril Neveu che negli anni a venire avrebbe legato indissolubilmente il suo nome alla competizione, vincendone diverse edizioni. Stanco, sporco di sabbia e di sudore, taglia trionfante il traguardo in sella – guarda caso – a una Yamaha XT500. Nei suoi occhi c’è la luce inconfondibile di chi sa di aver portato a termine un’impresa. Perché d’impresa, in effetti, si è trattato.

Partito tra lo scetticismo generale, il rally comincia magicamente ad attirare l’interesse dei mass media già dopo il terzo-quarto giorno di gara. Prima i giornali, timidamente, poi radio e TV iniziano a parlare con toni sempre più interessati di questo incredibile raid, mentre decine di migliaia di africani si riversano ai lati delle strade (là dove ci sono) per assistere di persona al passaggio di quella carovana di pazzi. Ovunque, da Algeri ad Agadez, da Niamey a Bamako, nelle oasi e nei mille villaggi sperduti che lambiscono il deserto, è un tripudio di gente che mai aveva assistito a uno spettacolo del genere. L’entusiasmo della folla si fonde così con quello dei concorrenti.

Tutto questo nonostante l’organizzazione di Sabine, lui stesso in gara, lasci profondamente a desiderare: a un certo punto sette motociclisti – e tra loro lo stesso Neveu – sbagliano strada e finiscono davanti all’imbocco di una miniera di uranio. Ma sono dettagli che in fondo accrescono ancora di più la fama di wild race della competizione. Prima ancora che finisca, la Parigi-Dakar è già entrata nella leggenda.

Una corsa pericolosa

Le edizioni successive attirano un numero sempre più consistente di uomini e donne desiderosi di cimentarsi in una gara capace di mettere a dura prova resistenze umane e meccaniche. Anno dopo anno si presentano al via anche camion, sidecar, dune buggy, 4×4, quad e mezzi di varia origine e natura. Contemporaneamente cresce anche l’interesse della gente e dei mass media che iniziano a coprire con maggiore visibilità l’incredibile raid tra due continenti. Naturalmente anche i finanziamenti e gli sponsor crescono in proporzione, ma Thierry Sabine riesce a gestirli con sapienza e abilità. «La Dakar» sostiene «ha bisogno di marketing, di relazioni pubbliche. Bisogna cioè intervenire sui mass media in maniera determinante. Ed è grazie allo show-business che continua a crescere». Il giovanotto ha ragione, ma ancora non basta. Tasse di iscrizione a dir poco esose, premi delle assicurazioni alle stelle, servizi essenziali pagati a caro prezzo – ma senza batter ciglio – da parte dei concorrenti che già sanno di dover sacrificare – che arrivino o no a Dakar – il loro fuoristrada. Impensabile, infatti, riutilizzarlo dopo una corsa del genere.

La voglia di avventura attraverso il deserto contagia non solo esperti rallysti e piloti già affermati e famosi, come Jacky Ickx, Clay Regazzoni, Patrick Tambay, Henri Pescarolo e Jacques Laffitte. Negli anni a venire a battere le piste del Sahara troveremo, con fortune alterne, anche personaggi famosi come Mark Thatcher, figlio dell’allora primo ministro britannico (che, curiosamente, si perderà anch’egli per tre giorni nel deserto), la rock star dell’epoca Johnny Halliday, gli attori Claude Brasseur e Renato Pozzetto, fino ai campioni di sci Jean-Claude Killy e Luc Alphand. Quest’ultimo, addirittura, vincerà un’edizione della corsa.

Persone diverse provenienti da mondi diversi che alimentano, in un circolo vizioso, il mito del rally, tanto che dopo poche edizioni diventa più popolare del Tour e del Roland Garros. Sabine lo sa e se ne approfitta, infischiandosene delle critiche sull’eccessiva esosità della macchina organizzativa e sull’estrema pericolosità della gara.

Eh già, perché nella Parigi-Dakar si muore, come forse solo nel Tourist Trophy.
Ogni anno – o quasi – qualcuno ci rimette la pelle.

Il primo è Patrice Dodin, proprio nella prima edizione, sbalzato dalla sua moto mentre tentava di riallacciarsi il casco che gli si era allentato. Negli anni a venire saranno quasi sessanta i piloti che perderanno la vita durante la competizione. La maggior parte in scontri tra mezzi partecipanti, ma c’è anche chi si è preso una pallottola in testa sparata da un militare nervoso, chi si è perduto per sempre tra le dune per un difetto di comunicazione con gli organizzatori, chi ha subito un edema polmonare in pieno deserto e chi è stato investito da un veicolo pirata. E poi equipaggi dispersi, auto e moto distrutte, mine inesplose, crepacci improvvisi, piloti feriti, amputati, paralizzati, addirittura sequestrati da bande di predoni. In ogni edizione almeno il 20% dei partecipanti abbandona la competizione a causa di incidenti di vario tipo. Eppure, paradossalmente, è proprio questo che attira la gente e Sabine lo sa benissimo «Se non c’è rischio» risponde a chi lo critica «non c’è nemmeno senso di mettere in piedi la corsa».

La morte in elicottero

Non parla a vanvera, il ragazzo di Neuilly-sur-Seine ormai fattosi uomo, e lo testimonia nella maniera più diretta e drammatica possibile. Il 14 gennaio 1986, come sempre, insegue la corsa a bordo del suo elicottero bianco. Con lui ci sono anche il suo amico cantante Daniel Balavoine, la giornalista Nathalie Odent, il pilota François Xavier-Banioux, cugino del principe Alberto di Monaco, e Jean-Paul Le Fur, un tecnico radio. Sono le sette di sera quando, forse a causa del peso eccessivo, o forse di un’improvvisa tempesta di sabbia – non lo sapremo mai –, il velivolo si schianta a terra nei pressi della comunità di Gourma-Rharous, uccidendo sul colpo tutti gli occupanti.

Il circo ha perduto il suo padrone. La Parigi-Dakar, senza più guida, si ferma per la tappa successiva, ma solo perché l’unico a conoscere la pista è lo stesso Sabine che non ha fatto a tempo a comunicarla ai concorrenti. Poi riprende come niente fosse.
Come Therry avrebbe voluto.

Obbedendo alla sua volontà, dopo qualche tempo dalla morte le sue ceneri vengono disperse sotto l’acacia dal tronco contorto e dai rami attorcigliati che cresce solitaria nel Ténéré nigerino. «Il deserto mi ha lasciato vivere. Il deserto mi richiama». Ecco, il circolo si è chiuso e il mito di Thierry Sabine rimane consegnato per sempre alla storia.

La sua Dakar, naturalmente, continua e lo fa con successo crescente. La macchina che ha messo in moto otto anni prima è così avviata che quasi va avanti da sola, anche se, anno dopo anno, il percorso prende a variare anche in modo considerevole. La causa, quasi sempre, risiede nelle difficili situazioni politiche di alcuni paesi che ne sconsigliano l’attraversamento. Militari, predoni, guerriglieri sono un rischio troppo grande per insistere nella direttrice originaria, quella immaginata da Sabine. Ma ci sono anche ragioni di business a obbligare l’organizzazione a studiare itinerari inediti. Ecco allora le partenze da Granada, Lisbona o Barcellona, gli arrivi a Città del Capo, Il Cairo o Sharm el-Sheikh, il circuito da Dakar e ritorno.

La Dakar in Sudamerica

Ma c’è di più. Qualcuno sostiene che agli africani non piace più così tanto quella processione che passa rombando tutti gli anni davanti alla propria porta di casa. Forse le cose stanno proprio così, o forse no. Fatto sta che gli anni passano e la Parigi-Dakar inevitabilmente smarrisce lo spirito delle origini. Sì, certo, il pericolo, il fascino, l’avventura, i grandi scenari… tutto questo rimane più o meno intatto, ma sulle strade e sulle piste di una terra sempre più povera e dilaniata dalla fame e dalle mille guerre ora passa un circo fatto di grandi parabole, di GPS, di giornalisti al seguito, di sponsor che obbediscono a un modello di business invadente e cialtrone. Gli anni passano e questo rally organizzato dagli europei a qualcuno riporta alla mente i tristi ricordi, mai sopiti, delle colonie, delle guerre per l’indipendenza e dei képi bianchi dei legionari. Ecco allora che in Mauritania, la vigilia di Natale del 2008, quattro turisti francesi vengono brutalmente assassinati da uomini della falange maghrebina di Al Qaeda. Un avvertimento diretto contro il rally, non ci sono dubbi: di lì a qualche giorno, infatti, su quella stessa terra sarebbe infatti passata la carovana. La Parigi-Dakar viene cancellata in fretta e furia e, dall’anno dopo, trasferita in Sudamerica, più precisamente tra Argentina, Cile e Perù. Terre più sicure.

E così dal 2009 niente più deserti africani, tramonti infuocati, notti gelide, distese di dune, vecchi villaggi, mandrie di cammelli e tribù di nomadi. La voglia di avventura estrema, sempre in bilico tra coraggio e incoscienza, ora passa attraverso itinerari ugualmente massacranti, tra distese infinite, pampas sterminate e montagne alte fino al cielo. Anche qui ci sono la sabbia, le asperità, i pericoli e gli imprevisti. I piloti fanno a gara per iscriversi. La gente continua a seguire il raid con intatto entusiasmo. Sponsor e media non fanno mancare il loro appoggio.

Eppure… eppure si fa fatica a non avvertire il peso di una perdita irrimediabile. Certo, la parola Dakar è rimasta (“Rally Dakar” è ora il nome ufficiale della corsa), ma chissà cosa avrebbe detto Thierry Sabine di questo cambiamento così radicale. Forse avrebbe accettato la cosa in nome del business e della sicurezza. O forse no. Forse non avrebbe avuto il coraggio di seguire oltre oceano quella rumorosa carovana che aveva messo in piedi dopo tre giorni e tre notti a strofinare un gri-gri di cuoio. Forse avrebbe lasciato morire la sua creatura. Forse.

Ciò che è sicuro è che lui, l’Africa, non ha più voluto abbandonarla. Nemmeno da morto.

Fonte: www.storiedisport.it

Testi: Marco Della Croce