Claudio Terruzzi, per gli amici “il Teruz”

Claudio Terruzzi meglio conosciuto come “’Il Teruz”; ha vissuto la Dakar da pilota ufficiale sempre a gas spalancato in sella a Honda e Cagiva, vincendo diverse tappe e rischiando addirittura di vincere l’edizione del 1988.

Cos’è stata per te la Dakar?

“Il ricordo più forte? Le dune alte 200 metri che arrivano a Djado al confine con il Niger, le ninfee che galleggiano nei piccoli fiumi e soprattutto le tappe in cui, leader provvisorio di classifica, partivo primo; davanti a me nessuna traccia di mezzo a motore, alle spalle 600 equipaggi e la voglia di andare ancora più veloce per vincere: 1500 e più sensazioni miste di paura e adrenalina.”

La prima Dakar e perché.

“Colpa di un paio di amici: Ciro De Petri e Arnaldo Farioli! Nel 1980 avevo partecipato alla 6 giorni in Francia, ma era stato un massacro e avevo smesso i panni del pilota. Però è bastata la telefonata giusta per stuzzicarmi, poi il rally di Tunisia andato molto bene… e la voglia di correre mi è tornata. Alla 6 giorni di San Pellegrino, per nulla allenato, Massimo Ormeni di Honda Italia si è accorto dei miei tempi nella linea e mi ha proposto di correre: ho fatto un provino con Orioli e Balestrieri a Montecatini e mi sono ritrovato pilota ufficiale, tra le mani il manubrio di una Honda XR 650 R pronta per la Dakar, potevo dire di no?”

Avventura o competizione?

“Ovviamente ho corso la Dakar per vincerla; a manetta dall’alba al tramonto ed ero ben preparato per correre e andare forte. Il primo anno ho vinto il premio rookie of the year – migliore esordiente – ma non immaginavo fosse così dura. Quando sono arrivato a Dakar avevo la sensazione di aver vissuto 15 anni in 15 giorni, per l’esperienza, per la tensione, l’emozione. Ti giuro che al traguardo sono arrivato cambiato, non so se mi spiego! Ho vissuto l’esperienza più estrema della mia vita: spesso da solo, senza civiltà attorno per ore; centinaia di chilometri senza assistenza tecnica, con tappe maratahon da 900/1000km. In quell’edizione, alla 5 tappa, Michele Rinaldi ha dato forfait perché l’ha ritenuta troppo dura. Ricordo gente piangere al campo, tappe finite a notte fonda, piloti che arrivavano alle 5 del mattino. Fai conto che per sei mesi a Milano ho avuto gli incubi, mi svegliavo all’improvviso, vedevo la spia rossa del televisore e pensavo fosse l’accampamento.”

Un aneddoto da ricordare?

“I consigli di quel pazzo di Ciro De Petri. In una tappa mista di dossi dove non vedevi oltre, sterratoni pietrosi e 600 km di speciali mi ha consigliato di non dare retta all’istinto che ti porta a chiudere il gas, ma, anzi, nel dubbio accelerare sempre. Affermava di conoscere a memoria quei mille dossi e che a fine tappa avrei guadagnato almeno 10 minuti in classifica. A metà percorso bandiere sventolate ed elicotteri: Ciro ha saltato una curva a destra segnata sul roadbook… non dico altro”

Quante ne hai fatte e qual è stata la Dakar più dura di tutte?

“3 in totale, la più bella è indubbiamente stata la seconda perché ero pilota ufficiale con la Honda HRC NXR750R, quinto assoluto e 6 vittorie di tappa. La prima è stata più emozionante ma troppo dura; la seconda forse avrei potuto vincerla se non avessi avuto grane meccaniche che mi hanno fatto prendere più di due ore dai primi.”

Qual è stata la tua prima moto?

“Honda XR 650 R ufficiale Honda Italia”

Quanto costava partecipare?

“Ho avuto la fortuna di essere pilota ufficiale e quindi pagato per correre: un bel privilegio”

Le moto bicilindriche hanno reso più pericolosa la Dakar?

“Falso, le bicilindriche hanno solo cambiato il modo di correre la Dakar, ok andavi a 200 all’ora ma in diverse occasioni ti tiravano fuori dalle difficoltà senza fatica, cosa che con le mono non era possibile. Il problema è che la bicilindrica è una moto da professionista, per guidarla servono preparazione e una concentrazione che deve rimanere massima per 15.000 km: e non è facile,ricordo tappe la cui partenza era dalle 4 del mattino e l’arrivo ben oltre il tramonto. Ricordo che la decima Dakar – versione anniversario – è stata quella con il maggior numero di iscritti e già alla prima tappa si erano ritirati il 40% dei piloti, era stata concepita come una vera gara di sopravvivenza: tappe durissime e navigazione impossibile: avevi poche informazioni e poi sul road-book c’era indicato di seguire le tracce degli animali per arrivare al pozzo… in mezzo al deserto, segui le tracce? Ma che c@##o, sono un privilegiato che posso raccontare di quell’edizione.”

Il pilota migliore in assoluto con cui hai corso?

“Edi Orioli, perché ha sempre saputo gestire la gara sapeva chiudere il gas e quindi risparmiare le gomme. L’esatto contrario di me, quando sono stato in testa con la Cagiva ho iniziato a sbranare lo pneumatico posteriore a ogni tappa e invece lui no. In questo modo, andando meno veloce di me e De Petri, ha azzeccato tappe perfette rifilandoci legnate da quaranta minuti o un’ora. Lui mi ha davvero stupito, nemmeno Peterhansel secondo me ha fatto altrettanto: Edi era sempre freddo e lucido.”

Cosa pensi della Dakar in Sudamerica?

“No dai, domanda di riserva? Stiamo parlando di due sport diversi, della Dakar non c’è più nulla. Era avventura e sport estremo, coraggio, sopravvivenza e tanto gas. All’epoca i piloti si perdevano e non si trovavano più, di molti non si è più saputo nulla: smarriti nel deserto per sempre. Oggi con il navigatore è tutto più facile, tutto più sicuro, quasi noioso: meglio fare una gara d’enduro. “

Chi vince oggi la Dakar? Il pilota, la squadra o la moto affidabile?

“Vince il miglior compromesso non necessariamente il pilota migliore.”

La Dakar ipoteticamente torna in Africa, ci torni?

“No, perché la Dakar, quella Dakar, non tornerà più. Ho ancora un VHS del TG1 condotto da Fraiese, la prima notizia parlava di Ronald Reagan, la seconda di Claudio Terruzzi che aveva vinto la tappa della Dakar. Ricordo gli striscioni in via Padova a Milano con scritto ben tornato Claudio… sai cosa vuol dire? Siccome ho fatto 87mila chilometri in Africa, perché dovrei tornare? Sono certo che non troverei più lo spirito e l’adrenalina, anche se l’idea mi alletta ancora, però sappi che la Dakar era vita o morte; c’erano personaggi di fantasia con zaino sulle spalle e taniche appese alla moto… era pionierismo puro. Partivamo con lo spirito dell’avventura. Oggi sarebbe un surrogato. E poi… c’ho un’età.”

Intervista red-live.it

Foto archivio privato Claudio Terruzzi