La mia Dakar 1987 by Batti Grassotti

Il Team G.R. Yashica alla Parigi Dakar del 1987 schiera due piloti, Aldo Winkler e Batti Grassotti i quali correranno rispettivamente con un’ Honda XL 600 ed una Kawasaki KLR 650, entrambe completamente di serie.

Il 31 dicembre la gara parte da Parigi. Il 4, 5 e 6 gennaio dopo il trasferimento in Africa, vengono effettuate le prime tre speciali: Ghardaia-El Golea, El Gholea – In Salah, In Salah Tamanrasset. Grassotti, con il KLR 650 si aggira sempre attorno al 36° – 37° posto. Durante la tappa Tamanrasset – Arlit, a Grassotti capita quasi un’avventura da esploratore nel deserto, sbagliando strada ai confini con il Niger.

Grassotti 1987

“Accortomi di essere su una strada sbagliata – racconta il torinese – ho cercato di ritornare indietro e ritrovare i giusti riferimenti. Ho così vagato sino a finire il carburante. Scese le tenebre, con il freddo che cominciava a farsi sentire, potevo sperare solo in un miracolo per essere ritrovato prima dell’indomani. All’improvviso sono sbucati due fari.

Erano quelli di un’auto guidata da due Tuareg che vista la mia situazione, mi hanno detto di aspettare. Sono ripartiti e con loro le mie speranze. Invece poco dopo sono ritornati con la benzina prelevata da un mezzo abbandonato da un altro concorrente ritirato. Riempito il serbatoio, mi hanno indicato una stella e mi hanno detto di seguirla sempre. Così ho fatto e sono arrivato ad Arlit giusto in tempo per vedere ripartire gli altri concorrenti.”-

Finisce quindi il 7 gennaio 1988, per arrivo oltre il tempo massimo,

Claudio Terruzzi, una simpatica “manetta”

“Ovviamente ho corso la Dakar per vincerla; a manetta dall’alba al tramonto ed ero ben preparato per correre e andare forte. Il primo anno ho vinto il premio rookie of the year – migliore esordiente – ma non immaginavo fosse così dura.

Quando sono arrivato a Dakar avevo la sensazione di aver vissuto 15 anni in 15 giorni, per l’esperienza, per la tensione, l’emozione. Ti giuro che al traguardo sono arrivato cambiato, non so se mi spiego!

Ho vissuto l’esperienza più estrema della mia vita: spesso da solo, senza civiltà attorno per ore; centinaia di chilometri senza assistenza tecnica, con tappe maratahon da 900/1000km.

In quell’edizione, alla 5 tappa, Michele Rinaldi ha dato forfait perché l’ha ritenuta troppo dura. Ricordo gente piangere al campo, tappe finite a notte fonda, piloti che arrivavano alle 5 del mattino.

Fai conto che per sei mesi a Milano ho avuto gli incubi, mi svegliavo all’improvviso, vedevo la spia rossa del televisore e pensavo fosse l’accampamento.”

Foto fornita da Claudio Terruzzi
Team Honda 1988

(fonte red-live.it)

La mia Dakar 2005 by Lorenzo Buratti

Il mio nome è Lorenzo Buratti e parto per la Dakar 2005 dopo aver fatto esperienza in gare minori ma comunque toste come il rally dei Faraoni o il rally di Tunisia, mi sento pronto, fisicamente sono a postissimo e la mia piccola Honda XR400 non da nessun problema.
Non potendo contare su nessuna assistenza ho cercato una moto facile a livello meccanico, sulla quale poter fare manutenzione alla sera nel minor tempo possibile, durante la giornata posso sfruttare solo la mia capacità di navigare bene, non certo la velocità di punta.

In ogni caso se sei un pilota privato che mira solamente a finire la gara mi sembra la strategia più giusta.
Per tutta la prima settimana i fatti mi danno ragione, lascio fare le sciocchezze agli altri, ogni giorno si ritirano più di dieci moto, io non mi perdo mai e avanzo in classifica semplicemente facendo il mio onesto lavoro e cercando di non cadere per non dover lavorare tutta la notte sulla moto per ripararla, erano ancora gli anni in cui si poteva affrontare una Dakar in questo modo, ora non saprei, mi sembra tutto troppo veloce in sudamerica, in Africa la gente si perdeva davvero…

Esco 57mo assoluto dall’inferno della sesta tappa, Zouerat-Tichit, i giornalisti presenti la descriveranno il giorno dopo come una delle tappe più dure della storia della Dakar, un inferno di sabbia soffice che nessuno aveva immaginato, arrivo al bivacco a mezzanotte e quarantacinque dopo oltre sedici ore in sella, pensavo di aver fatto un disastro ed essermi perso, invece al parco chiuso ci sono solo 56 moto, alle 4 del mattino erano arrivate solo 22 auto, il giorno dopo hanno dovuto annullare la tappa perché tutti gli elicotteri erano in giro a cercare tutti quelli che han dovuto passare la notte nel deserto, sono orgoglioso di me e quando arrivo al giorno di riposo a metà gara mi sento davvero felice. Sento che quella cosa li la so fare.

Quando mi devo ritirare a causa di un problema al carburatore che causa la fuoriuscita di tutta la benzina sono alla fine della decima tappa, circa nella 52ma posizione assoluta su 250 moto partite, bloccato su una duna farinosa della Mauritania, a due chilometri da fine tappa. Un pilota italiano di cui non ricordo il nome si rifiuta di darmi un litro di benzina che mi avrebbe consentito di arrivare al traguardo, aveva paura di perdere tropo tempo.

La stanchezza e la notte che stava arrivando mi mandano in confusione, per una serie di motivi mi rimane il dubbio che possa essere anche un problema elettrico, smonto la carena e controllo tutti i fili, la XR non ha avviamento elettrico così provo a riavviare la moto a pedale fino a quando non crollo, mi recupera l’elicottero medico che mi trova semisvenuto di fianco alla moto e mi porta a fine tappa dove il camion scopa mi preleverà per ricondurmi al bivacco…fine.

Al mattino dopo la carovana riparte e rimango unico Italiano al bivacco ad attendere il volo di rimpatrio per Parigi, arriva la notizia dell’incidente a Fabrizio Meoni e l’organizzazione viene a cercare me per comunicarmelo, tutto è surreale, tutti piangono, arriva l’elicottero con il sacco nero appeso fuori sulla barella, ho solo voglia di tornare a casa…Ciao Fabrizio.

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Alberto Mercandelli Dakar 1990

Quanto a Carlo Alberto Mercandelli, simpaticissimo concessionario Volkswagen ed Audi di Alessandria, la sua avventura alla Dakar del 1990 è stata ancora più rocambolesca.

«Ero assieme ad altri due piloti racconta siamo stati avvisati da un elicottero dell’organizzazione che eravamo sulla strada sbagliata, ma facendo un tratto fuoripista per arrivare al percorso giusto mi si è fermata la mo-to forse per la rottura di una valvola.
Era impossibile sperare in un soccorso essendo lontano dalla strada che avrei dovuto percorrere e non sapevo nemmeno dove mi trovavo. Ma non mi è nemmeno passato per la testa di accendere la balise non volevo mollare e non volevo terminare così la mia gara.

«Dopo cinque ore quando già cominciavo a calcolare acqua e cibo in mio possesso ho visto da lontano dei tuareg con dei cammelli. abbiamo legato la moto agli animali e mi hanno tolto dalla sabbia molle in cui mi ero piantato, poi uno di loro è andato a prendere un pick up e mi ha caricato assieme alla moto. Pagando s’intende.

«Sembrava finita, ma dopo un po’ l’autista mi ha mollato dicendo che doveva andare a lavorare. Così ho fermato un camion enorme locale ma guidato da un italiano. Ha preso su me e la moto ma dopo 3 km ha anche aggiunto che per portarmi ad Agadez voleva 10 milioni di lire, davvero troppo. Ha replicato che se non avessi accettato mi avrebbe scaricato.

E ha fatto. Così ho preso una fila di altri mezzi di trasporto tra cui alla fine anche un pullman di linea. C’è voluto un milione per convincere l’autista a contravvenire al regolamento ed a caricare me e soprattutto la moto, ma alla fine ce l’ho fatta. E tra polli, galline ed autoctoni sono riuscito ad arrivare ad Agadez».

Una bella avventura, ma raccontata solo a metà. Perché l’irriducibile Mercandelli ovviamente non si è accontentato di arrivare a destinazione: una volta in città infatti ha rintracciato la sua squadra ed ha fatto riparare la moto, mentre si faceva una doccia, trovando anche il tempo per radersi.

Dopodiché, lavato e profumato, si è presentato all’arrivo di tappa attorno alla mezzanotte, dopo aver telefonato a casa per tranquillizzare i familiari che il giorno dopo avrebbero letto del suo mancato ritrovamento; una notizia risalente a molte ore prima. In questo modo si è così potuto presentare «regolarmente» a motore acceso e continuare la gara, gravato della penalizzazione forfettaria per il grande ritardo, di altre tre ore per il salto del controllo a timbro e di un distacco elevatissimo in classifica generale; ma ha comunque proseguito alla volta di Dakar.

Particolare di non trascurabile rilievo: siccome non esistono testimoni di tutte queste vicende, l’organizzazione non ha potuto prendere sanzioni nei confronti di Mercandelli. Le voci girano, ma le prove no, per la gioia del Team Assomoto che dopo aver portato a Dakar quattro piloti lo scorso anno sta tentando di ripetere l’impresa con tre, visto l’imprevisto ritiro di Canella, che assieme a Girardi completava la squadra.
(fonte motosprint)

Ciro De Petri e la sua Dakar 1992

Parigi – Sirte – Le Cap 1992: il confine sud del Ciad segna l’ingresso dell’Africa Nera, ma non per tutti. Per Alessandro De Petri l’Africa è diventata nera molti chilometri prima, in Niger. È riuscito ad arrivare in moto a Dirkou, ma lo ha fatto con la clavicola destra fratturata. impossibile ripartire il giorno dopo.
Così, ancora una volta, «Ciro» si è visto sfuggire dalle mani una gara che sentiva di poter vincere, e la sua rabbia è quasi palpabile, resa ancora più forte dalla incredibile dinamica dell’incidente.

«Sono arrivato al rifornimento davanti a tutti— si sfoga ma i km dopo essere ripartito ho tolto una mano dal manubrio per sistemare il road book, perché la carta non scorreva. Non l’avessi mai fatto!
Stavo andando piano, ma ho preso una buca e la moto si è messa di traverso. Non ho nemmeno fatto in tempo a riacchiappare il manubrio, e con una mano sola davvero non potevo sperare di controllare la mia Yamaha, per giunta con il pieno. Mi ha buttato per aria ed ho picchiato duro. Che incidente stupido!».

De Petri parla a ruota libera, senza interrompersi. Non riesce ad accettare il ritiro, non riesce a capacitarsi della sfortuna che continua a perseguitarlo.
«Non puoi spiegare cosa provi quando ti succede una cosa del genere. Non puoi accettare di doverti fermare così dopo 8 mesi di preparazione.
Ore e ore passate in palestra ogni giorno e un’équipe di persone che lavora per preparare la tua gara. Subito dopo la caduta non riuscivo a tenere gli occhi aperti, ed ho perso i sensi. Quando lí ho ripresi mi sentivo come se mi stessi risvegliando da un brutto sogno, come se tutto dovesse finire lì. Evviva, ho pensato, ma quando ho messo a fuoco il casco di Peterhansel, che si era fermato per aiutarmi, ho capito che purtroppo non era solo un sogno».

«Ciro» però non ha voluto rassegnarsi al ritiro. Non ancora. (fonte MS)

Il debutto di Jordi Arcarons

L’anno del debutto di Jordi Arcarons alla Dakar è il 1988, edizione a cui partecipa su una moto di origine catalana, la Merlin, con la quale si classifica 31° assoluto e primo nella categoria 500 cc.

Jordi Arcarons, velocissimo pilota nel deserto, ha vinto ben 27 tappe in 14 edizioni a cui ha partecipato, quasi un record considerando che meglio di lui ha fatto solo un mostro sacro della Dakar, il francese Stephane Peterhansel che ne ha vinte ben 33.

Un pilota formidabile che pur non avendo mai vinto la competizione, ha concluso sul podio ben 5 edizioni (3 volte secondo e 2 volte terzo).

In ricordo di Massimo Montebelli

Parlare e scrivere di personaggi che hanno lasciato un segno indelebile in questo sport e non sono più fra noi non è mai facile, abbiamo quindi preferito ricordarlo con le parole di chi lo conosceva bene.

Massimo Montebelli aveva partecipato a sette edizioni della Parigi–Dakar. In cinque di queste era riuscito a tagliare il traguardo e nel 1993 era arrivato il suo miglior piazzamento, ottavo, davanti a tanti famosi e strapagati professionisti.

Con lui credo se ne sia andato un pezzo di storia della Dakar, quella vera come amava chiamarla lui, aveva vinto la categoria Marathon alla Paris-Le Cap con Meoni nella stessa squadra, la Yamaha BYRD, mi piace pensare che si siano ritrovati lassù e continuino a parlare di corse dune di sabbia e prove speciali.

Ma la moto era anche il suo lavoro, specialmente per quanto riguarda la realizzazione a mano di serbatoi speciali. Per questo era stato soprannominato, e noto in tutta Italia e anche all’estero, come il mago dell’alluminio.
(Fonte Massimo Marcaccini – Riders)

Hubert Auriol, quando il pilota diventa un mito

Una radice, una radice a spezzare entrambe le gambe.
Una radice a 20 chilometri dal traguardo.
Un radice sulla strada della terza vittoria alla Dakar.
Una radice nel suo destino e in quello della Cagiva.

Marc Joinea trovò Hubert Auriol a pochi metri da quella radice in preda a grida di dolore che stava cercando di rimettersi in moto, lo aiutò a tornare in sella, avviò la moto e acconsenti alla sua volontà: rimettersi in moto, continuare per arrivare al traguardo.
Alla partenza di quella tappa aveva sette minuti di vantaggio sul secondo. Sette minuti..
Il suo rivale diretto per la vittoria, Neveu arrivò al traguardo e da lì iniziò il conteggio.
Neveu e i cronomesti a guardarle l’orizzonte, ad attendere l’arrivo di Hubert.

Sette minuti.
Il primo in classifica al termine di quella tappa, visto il breve trasferimento verso il lago Rosa del giorno dopo,avrebbe vinto quella Dakar.

Sette minuti.
Sette minuti e quella radice.

Era mercoledì 21 gennaio 1987 e Hubert Auriol tagliò il traguardo di tappa dopo cinque minuti dell’arrivo di Neveu: aveva ancora poco meno di due minuti di vantaggio. Era ancora primo in classifica.
La motò si fermò. Sotto il casco si sentivano urla di dolore e un pianto disperato, l’adrenalina iniziale, quella che lo aveva rimesso in moto, dopo quei 20 chilometri di sofferenza era forse svanita.

Nessuno di tutti coloro che gli corsero incontro potevano immaginare le sue condizioni e il motivo di quel pianto.
Lo aiutarono a scendere dalla moto, lo sdraiarono per terra e gli tolsero il casco. Il dramma sulle sue condizioni si palesarono non appena vennero tolti gli stivali: le ossa della caviglia destra uscivano dalla pelle!

Renè Metge, il direttore di corsa, gli strinse la mano mentre i medici gli iniettarono morfina che gli attenuò il dolore.
Rahier gli si avvicinò dicendogli qualcosa, per sua risposta Hubert in una forma di lucida sincerità lo scacciò con la mano: ne aveva subite troppe in passato.
Mentre venne caricato sula barella Hubert fece il segno di vittoria con le dite mentre un sorriso nasceva su quella maschera di dolore.
Pernat in una intervista a noi rilasciata ci disse che l’emozione più forte e intensa nella sua lunga e intensa carriera la visse sull’elicottero che trasportava Hubert verso l’ospedale.
“CHIAMA I CASTIGLIONI E DI’ LORO CHE ABBIAMO VINTO. LA CAGIVA HA BATTUTO I GIAPPONESI”.

Thierry Sabine 26 dicembre 1978

Tutto nacque dalla fantasia di un francese visionario. Dopo aver organizzato diverse competizioni africane, il 26 dicembre del 1978 diede il via dalla capitale francese alla prima edizione di quella che divenne successivamente un mito: la celebre Parigi – Dakar.

“All’arrivo sulla spiaggia del lago ROSA sarà un altro uomo colui che lancerà in aria il suo casco” sostenne Sabine che successivamente fondò la T.S.O. (Thierry Sabine Organization), fino al momento della sua morte avvenuta proprio durante l’edizione del 1986 della corsa africana, quando precipitò con il suo elicottero.