Intervista a Fabio Marcaccini… 5 Dakar vissute “privatamente!”

Ciao Fabio, forse ti si può definire “pilota di moto” nel senso più ampio del termine, visto che hai corso sia in offroad che in pista. Quale di queste discipline ti ha dato più soddisfazioni?

Ho cominciato nel cross a livello regionale per un paio d’anni, successivamente in pista per diversi campionati italiani ed un paio di europei nel Team Italia. Poi la Dakar ed il Faraoni. Ho anche svolto il ruolo di collaudatore per Bimota per un breve periodo. Non si può dire cosa mi abbia dato più soddisfazione, perché ogni cosa è legata ad un periodo ben preciso della mia vita, mi è sempre piaciuto cambiare, intraprendere nuove sfide, non sono un nostalgico, mi piace guardare avanti!

A quante Dakar hai partecipato? Quante di queste sei riuscito a portare a termine?

Ho partecipato a cinque Dakar, la prima volta all’edizione del 1987. Stiamo parlando del secolo scorso. Ricordo benissimo ogni singolo giorno e tutti i sacrifici fatti per essere alla partenza per cinque anni consecutivi.
Nella prima edizione sono rimasi senza benzina causa un mancato rifornimento. Il camion per l’approvvigionamento alle moto si ribaltò sulla pista… 10 ore fermo nel deserto elemosinando qualche litro dalle auto in corsa; cercai in tutti i modi di raggiungere il bivacco per partire nella tappa successiva ma quando ci arrivai il mattino seguente era troppo tardi, non c’era più nessuno e mi dovetti ritirare.
L’ultima non l’ho finita per la rottura dalla moto. Tre volte su cinque ho finito la gara sul Lago Rosa.

Hai corso rigorosamente da privato, le tue moto te le preparavi da solo?

Ho corso sempre con moto autocostruite, su base Yamaha. Con Montebelli avevamo fondato il Wild Team e il nome la dice lunga ! Posso tranquillamente dire che le nostre moto erano fra le più belle e curate nei dettagli, robuste e ben costruite. Quante nottate passate in officina a preparare le moto, in una vecchia casa colonica…arrivava gente a tutte le ore, c’erano amici che il sabato sera accompagnavano la morosa a casa e tornavano a sporcarsi le mani alle tre di notte, eravamo sempre in ritardo ! Se ci penso adesso, come facevamo senza internet e telefono cellulare non lo so…c’era una specie di tam-tam, le cose ci sapevano per sentito dire, l’Africa era veramente lontana e trovarsi il primo dell’anno alla partenza per noi era già un successo, tutto il resto, lo vivevi intensamente minuto per minuto, improvvisando. Il meccanico in aereo…chi ce l’ha mai avuto. Di giorno pilota di moto e di notte meccanico.

Quale moto, fra quelle con cui hai gareggiato, ti ha dato più soddisfazione da guidare e a cui sei più affezionato?

Nella undicesima edizione siamo partiti con tre moto autocostruite su base Yamaha TT 600. Eravamo nello stesso team io, Massimo Montebelli e Giampaolo Aluigi. Tutti e tre abbiamo finito la gara e come premio, Daniele Papi ai tempi responsabile del reparto corse Byrd, per l’anno successivo ci diede parecchi pezzi ufficiali e la possibilità di passare qualche giorno nella loro sede a Gerno di Lesmo.
Il risultato fu fantastico! Costruimmo tutto in casa, telaio, serbatoio posteriore portante, leveraggi, forcelloni, carene. La moto era molto simile al monocilindrico ufficiale da 750 cc dell’anno prima, su cui montammo il motore 660 leggermente rivisto…
Quella moto era bella da vedere e da guidare era uno sballo, al Faraoni con più di 20 moto ufficiali, feci tredicesimo assoluto; come al solito senza nessuna assistenza…se no che Wild Team era?

Sei stato compagno di avventure dell’indimenticato Massimo Montebelli, come ti piace ricordarlo?

Massimo era un vero genio della meccanica ed anche una bella manetta, più la sfida era grande e più era grande la voglia di affrontarla.
Tutto cominciò cosi: un giorno di agosto suonai il campanello di casa sua e lui si affacciò alla finestra della cucina, io gli chiesi se volesse venire con me in Africa a vedere qualche tappa della Dakar e Massimo mi rispose che noi la Dakar era meglio se l’andavamo a fare come concorrenti che come semplici spettatori.
A Dicembre eravamo a Parigi alla partenza come concorrenti nr 174 e 175, senza una lira in tasca ma con energia da vendere. Un sogno che si avverava sia per me che per lui.
Con il tempo Massimo era diventato un punto di riferimento per chi voleva partecipare alla Dakar o solo farsi un viaggio in Africa, un vero specialista. Costruiva delle opere d’arte. L’Aprilia che ha fatto il terzo posto con Chialego Lopez qualche anno fa in Argentina fu una sua realizzazione.
Un giorno un paio d’anni fa lo andai a trovare in officina e parlando della Dakar d’oltreoceano mi disse: “prova ad avere un problema in Argentina ed avere lo stesso problema in Mauritania… io dico che non è la stessa cosa”. Amava l’Africa ed aveva ragione.
Con lui credo se ne sia andato un pezzo di storia della Dakar, quella vera come amava chiamarla lui, aveva vinto la categoria Marathon alla Paris le Cap nella stessa squadra con Meoni, la Yamaha Byrd. Mi piace pensare che si siano ritrovati lassù e continuino a parlare di corse dune di sabbia e prove speciali.

A tuo parere, quale pensi sia stato il pilota più completo della Dakar “africana”?

Se parliamo dei tempi in cui l’ho corsa io, sicuramente Edy Orioli.

Il tuo “mal d’Africa” come va, tutto sotto controllo? 🙂

Quando ho smesso con le corse ho cominciato a viaggiare in moto, ho fatto diversi lunghi viaggi intercontinentali, India, Africa e Sudamerica.
Ma non esiste posto al mondo da fare in moto paragonabile all’Africa. Qualche anno fa ho fatto Cairo Cape Town con la GS, in Africa ci torno sempre volentieri. Insomma, tutto sotto controllo!

Quella volta che… ci vuoi raccontare un aneddoto curioso legato alla Dakar?

Penso che come tutti quelli che hanno partecipato alla gara in quegli anni potrei scrivere un libro sugli aneddoti della Dakar.
Ho sempre pensato alla follia di tante persone che partono con l’obiettivo di arrivare in fondo ad una gara massacrante e difficile come la Dakar. Follia che ti fa fare cose che normalmente non ti saresti neanche sognato. Ad esempio, in una tappa nel Ténéré…rimasi senza fanali, quando scese la notte guidavo 10 mt davanti ai camion per cercare di vedere qualcosa…poi a forza di cadere ho rotto pure la piastra superiore della forcella ed in quelle condizioni a notte fonda finii la tappa.
La sera a Termit non c’era nessun tipo di assistenza né cibo e dopo aver contrattato con i local il pieno di benzina nel buio più totale, andai dal mio amico Massimo del Prete che era il copilota del Mitico Clay Regazzoni. Ero sfinito e avvilito, rassegnato al ritiro.
Clay mi diede qualcosa da mangiare….e Massimo prese una cinghia a cricchetto dalla loro macchina e mi legò il qualche modo la forcella.
Il mattimo seguente al via cercai di nascondermi per non far vedere ai commissari in che condizioni stavo partendo.
La tappa era 870 km e la Dakar quell’anno l’ho finita!

Ora di cosa ti occupi?

Mi occupo di design, sviluppo nuove idee e industrializzazione prodotti. Progetto parti speciali o kit di trasformazione per moto, prototipi su commissione del cliente o azienda, diciamo che ho unito lavoro e passione.
Poi qualche anno fa mi sono costruito la R1200 G/S, un kit per trasformare in poche ore la GS 1200 in una replica della vecchia R80 PD.

Ho aperto il mio sito di vendita online e dopo un paio d’ore sono cominciati ad arrivare ordini da tutto il mondo.

Ora il mio sito è un punto di riferimento per tutti quelli che vogliono customizzare la loro moto. Provare per credere www.unitgarage.it

Foto di Fabio Marcaccini