Jean Claude Olivier e la sua Sonauto

Attorno a Thierry Sabine si era creato un cenacolo. Dell’avventura. Un drappello di seguaci che si accodavano al Messia. C’erano “Fenouil”, Neveu, 1390481_10202247482058581_718400453_nAuriol, Comte, Vassard… Tutti motociclisti, i prediletti. Chi spiccava nel gruppo era Jean-Claude Olivier. Personalità e intelligenza, una naturale predisposizione per l’organizzazione. E, come non bastasse, centauro lui stesso. Aveva dato una grossa mano a Thierry nei mesi che precedettero la prima edizione dell’Oasis Dakar.

Non erano mancati i suggerimenti e la promessa di schierare una squadra. Nato a Croix il 27 febbraio 1945, a 33 anni aveva già fatto di tutto e di più, partendo da zero. Già, una vita come fosse stata lunga un secolo. A vent’anni era stato assunto dalla Sonauto, importatore della Porsche in Francia dal 1950. Lo avevano spedito a pulire i magazzini, quella la sua prima mansione. Capelli rossicci, occhi chiari, sguardo intenso, intuitivo, il cammino verso l’alto iniziò quando i titolari dell’azienda decisero di affiancare alle gran turismo tedesche il settore dedicato alle motociclette.

Yamaha, il marchio giapponese, da far conoscere e diffondere sul mercato francese: Il problema era come. A Jean-Claude venne l’idea di andare direttamente dai meccanici in Francia a mostrare alcuni modelli del marchio ancora sconosciuto. Il progetto venne approvato. Si fece assegnare un furgone, lo dipinse con la scritta Yamaha a caratteri cubitali, caricò all’interno quattro moto della produzione: un 50, un 80, un 125 e un 250.

Battè la Francia a tappeto. Un lavoro difficile, doveva con-vincere, creare punti di servizio e vendere. Vendere, l’imperativo. Nel primo anno, 1966, riuscì a perfezionare accordi per 28 punti di assistenza e piazzare 177 moto. Tre anni più tardi toccò le mille unità. Una crescita vertiginosa per un marchio ancora senza storia in Europa. I volumi aumentarono con l’importazione degli scooter, un’altra sua intuizione. Non trascurò comunque mai la sua passione.

Continuò a correre e quando Sabine allestì la prima Dakar, JCO, ormai era chiamato con questo acronimo, schierò la prima formazione Sonauto Yamaha-BP. Quattro le 500 XT schierate per Gilles Comte, Christian Rayer, Rudy Potisek e, naturalmente, Jean-Claude Olivier. La sua squadra dominò aggiudicandosi sei tappe su dieci. La Arlit-Agadez e Agadez-Niamey, tra le più dure vennero siglate JCO.

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Della Sonauto era intanto diventato il “boss”, l’azienda in crescita continua. Come le gare. Raid e pista. Partecipò a nove Dakar, portando al secondo posto la Yamaha FZ 750 4 cilindri nel 1985 (Ndr in realtà portò sul podio una XT600, la FZ750 debuttò solo l’anno successivo). Dietro alla Bmw di Rahier. Anche in pista, con il team che aveva allestito, non mancarono le soddisfazioni. Fu lui lo stratega che riuscì a portare Max Biaggi alla Yamaha nel 1999.

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Ma soprattutto fu lo scopritore di Stephane Peterhansel. Sei centri nel deserto africano. Il 24 febbraio 2010 passò la mano alla Yamaha Motor France, diventata un impero. Dopo 43 anni di lavoro. La sua vita da grande protagonista si concluse tragicamente. In un fine settimana del gennaio 2013 un camion invase la corsia dell’autostrada Parigi-Lille, sulla quale sta-va procedendo. Lo schianto fu inevitabile e terribile. A fianco viaggiava la figlia che riuscì, miracolosamente, a salvarsi. Non lui. La leggenda di JCO finì così. Un maledetto destino.

Tratto da Dakar l’inferno del Sahara di Beppe Donazzan