Intervista a Ciro De Petri 1992

Il 15 novembre 1992 si sveglia a mezzogiorno.

Guarda il soffitto bianco, il panorama fuori dalla finestra, un televisore appeso in alto nella parete di fronte al suo letto e niente di ciò che ha attorno gli è familiare. L’ultimo ricordo, l’ultimo momento prima di quel risveglio è una Yamaha bicilindrica a gas spalancato nel deserto Egiziano. Apre gli occhi e cerca di collegare i due momenti: quella stanza d’ospedale, bianca ed immobile e quella moto libera e veloce in mezzo al mare di sabbia. Ci mette un po’, chiede a chi gli sta attorno, Arnaldo Farioli e Giacomo Agostini e capisce che quella giornata, quel 6 ottobre 1992 è durata un po’ troppo: quaranta giorni, quaranta giorni di coma, quaranta giorni di sonno profondo. Alla sua Yamaha si è rotta la ruota anteriore e lui è volato a 150 all’ora con la faccia nella sabbia. Quando i medici francesi dell’organizzazione lo trovano, è in fin di vita.
Alessandro De Petri, detto “Ciro” per il suo nasone alla Cirano, oggi è vivo ma è tornato in moto solo per raccontare una storia, scrivere un libro, fare beneficenza e aprire una scuola in Africa. Ci vediamo a Lovere, mi dà appuntamento in riva al Lago di Iseo:
“Se vuoi chiacchierare, ci mettiamo lì a tirare pietre nell’acqua come si faceva da ragazzi. Mi piace venire qui, stare da solo e respirare a lunghe boccate quest’aria pungente di montagna”.

È qui che ha iniziato a correre in moto. Da queste parti non si diventa calciatori, si deve andare in moto, meglio se con le ruote artigliate.

“Da bambino mi mettevo nel bosco per guardare i campioni dell’est con le loro Zundapp e CZ. Venivano qui ad allenarsi. E anch’io volevo salire su quelle mulattiere”.

Eppure, da “cattivo bergamasco”, non inizia con la Regolarità ma con il Cross, in sella ad un vecchio Ancillotti datogli dall’amico Dante Sberna. Ha 15 anni e alle spalle un anno di Gimkana con un Malaguti Cavalcone 50. L’anno dopo ha un’Aspes ufficiale, è il 1972. Glielo prepara Felice Agostini, il fratello di Giacomo. Ciro non ha uno stile pulito ma è un tosto, non molla mai, dove c’è fango, dov’è difficile, ci mette la forza di un toro, la testa di un folle e va avanti. Dove gli altri temono, lui apre la manetta. Continua con il Cross fino al 1977 ottenendo anche un secondo posto nell’italiano 125 poi, fino al 1980, corre nella Regolarità: nessuna grande vittoria ma é sempre tra i primi nell’Europeo e sul terzo gradino del podio per quattro anni consecutivi alla Six Days, prima con la Puch 350 2 tempi, poi con una KTM 500.

Nel 1980, a casa, gli fanno notare che è ora di fare scelte adulte, “di farsi una professione” come dicono i padri. Si iscrive ad odontoiatria, il padre è dentista e rilevarne l’attività sembra la scelta più razionale… Troppo razionale.

Non vuole fare il dentista! Apre un laboratorio ma ha scoperto l’Africa e scalpita, ha bisogna di spazio, aria nuova. con quei molari in mano si sente morire, non è la sua vita. La sua vita è in quella pazzia di Thierry Sabine. È il 1983, ha 28 anni e la sua carriera inizia il giorno in cui Fanali gli dà un Kappone.

Decide di andare, ma non da solo. l’amico di sempre è Federico Forchini. Faceva “il boccia”, il garzone di bottega da Dante Sberna ai tempi dell’Ancillotti ma ora anche lui è cresciuto, è diventato un meccanico vero, i due non si separeranno più fino al 6 ottobre 1992. Ciro va subito forte: è terzo in Marocco all’Atlas, sesto al Faraoni in Egitto e arriva in fondo alla Dakar 1984 (37esimo). Sedici anni dopo la sua prima corsa, diventa professionista. La Honda Racing Division gli offre 15 milioni e una XL620L monocilindrica.

“Non ci ho pensato un solo istante, ho chiuso il laboratorio con tutto che c’era il mutuo da pagare e ho lasciato tutto… Lo rifarei mille volte!”.

Nei Rally minori o cade o rompe la moto come al Faraoni del 1985, quando è in testa ma deve ritirarsi per la rottura del mozzo della ruota anteriore. Alla Dakar del 1985 si ritira con un braccio rotto, a quella del 1986 va meglio, vince sei tappe ed è quinto. Contro i bicilindrici non c’è storia, la Honda NXR 750 va solo ai Francesi, Ciro deve cambiare:

“Nelle tappe veloci c’era da morire col mono, ma BMW mi offrì una moto, non potevo crederci, era come andare alla Ferrari, era la stessa moto di Rahier e Auriol. Ma Roberto Azzalin mi offrì una Cagiva e gli stessi soldi (80 milioni), mi piaceva l’idea, il progetto, le persone. Con lui mi sono sempre trovato bene, eppoi quel motore: ogni volta che aprivi il gas sembrava vomitasse, ne usciva un ruggito da animale preistorico, indimenticabile”.

Andava forte Ciro, spesso troppo. Peterhansel a vederlo restava di pietra. “Tu sei pazzo” gli diceva la sera al bivacco.

“Aveva ragione. Ho interpretato tutta la vita così, quando mi davano il via non capivo più nulla. C’era il rischio che ogni duna potesse essere “rotta”, tagliata dopo la cresta. Gli altri aspettavano di vedere cosa ci fosse dietro prima di decidere cosa fare. lo no, su 300 dune quelle rotte potevano essere al massimo una o due, c’era da rischiare la pelle, ma io davo gas sempre e mettevo una marcia lunga per prendere velocità in discesa. Con questo giochino a vita persa, Peterhansel si prendeva anche 20 minuti a tappa. Lo so che i Rally non si interpretano cosi, però questo era il mio modo di andare in moto, qualunque fosse il rischio e il prezzo da pagare: e in culo la vittoria finale!”.

Nel 1987 arriva la prima vittoria importante, al Faraoni, l’anno dopo vince anche in Tunisia, alla Dakar cade e si fa male. Nel 1989 vince ancora Egitto e Tunisia ed è terzo alla Dakar del 1990 dietro a Orioli e Mas vincendo 6 tappe. I rapporti in casa Cagiva sono buoni, Azzalin ogni tanto lo insulta, soprattutto quando Ciro gli chiede 80 volte le stesse cose.

Azzalin comunque lo apprezza, Ciro si allena come un pazzo, in palestra, in bici. in moto. Con Franco Gualdi, che guida la moto d’assistenza, si allena a smontare il motore Ducati da una moto all’altra. Impara a farlo in un’ora e mezza, niente nei rally di quegli anni. Ma cede alla corte della Yamaha, che gli offre una YZE750 bicilindrica. Vince subito in Egitto, per la terza volta, e cade ancora alla Dakar che non vincerà mai pur entrando nella leggenda.

Sentite Nani Roma: “Ho i brividi ogni volta che rivedo quelle immagini di Ciro e di Danny Laporte in Niger. Si superavano sul filo dei 200 all’ora in una lotta pazzesca. Assurda. Andavano fuori pista a cercare vie impossibili senza mai chiudere il gas, per ore. C’è un’immagine indelebile nella mia memoria: un sorpasso dei due a Medardo con la Gilera. I due lo passano a manetta spalancata che Medardo sembra fermo e lo riempiono di polvere e pietre. Credo che quel duello sia il momento più terrificante della storia della Dakar”.

Il 1991 è secondo al Rally di Sardegna e vince insieme a Cavandoli la Baja Aragon in Spagna, il 1992 è l’anno dell’incidente e del difficile recupero. Ma nel 1994 decide di tornare alla Dakar. che quell’anno parte e arriva a Parigi.

Corre da privato con una Cagiva Elefant, non punta alla vittoria, ha motivazioni diverse. Nel casco ha sistemato un registratore. vuole raccontare una storia per un libro. Il titolo è Dakar Borderline, esce nel 2002 e rientra nel progetto “Le Scuole del Deserto” e la sua vendita contribuisce alle costruzione della scuola di Assoda in Niger. Parte per Parigi direttamente da casa, in moto, sotto la neve con una tuta riscaldata della Dainese e conclude 31esimo.

“Di tutte le Dakar ricorderò soprattutto la forza di Peterhanser il più forte per testa e manetta; la bontà di Beppe Gualini, un privato sempre nella merda ma pronto ad aiutarti anche se stava peggio di te; la velocità di Danny Laporte. Sono stati anni bellissimi di corse straordinarie. Quello spirito va recuperato”.

Hai mai avuto paura?

“Se ci fosse la paura, le corse non esisterebbero. Ho paura dell’apatia, dello stare fermi, ho paura per i miei tre figli, mi sembra che il mondo stia prendendo una brutta piega e non ci sono segnali di miglioramento. Non ci sono certezze”.


Ciro si fa scuro in viso, restiamo in silenzio e gettiamo un altro sasso dentro l’acqua. Per rompere il silenzio mi guarda e mi dice:

“andiamo ti porto nella Indianapolis dell’Enduro”.

Lascio un sasso che ho nella mano e lo guardo con dipinto in faccia un punto interrogativo.

“Andiamo sul monte Pora, nel cuore delle Valli, dove l’enduro è quello vero”.

Ma é quasi buio, sarà per la prossima. Con Ciro si sta bene: motociclista delinquente e uomo saggio.

Intervista di Guido Conter
fonte: archivio di Motociclismo.
Un ringraziamento speciale all’amico Alfredo Margaritelli che ci ha fornito il materiale.

 

La mia Dakar 2000 by Francesco Tarricone

Dopo la sfortunato, ma in parte prevedibile, mio ritiro nell’edizione ’99, cominciai subito a pianificare la partecipazione alla Dakar del nuovo millennio!Gli organizzatori Francesi allestirono per l’occasione un percorso fuori dal comune, da Dakar al Cairo, quindi attraverso Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Libia ed Egitto.

Sulla carta un percorso molto interessante: dal 6 al 23 Gennaio, 10.863 km di cui 7.616 di prove speciali, toccando alcuni luoghi che hanno reso mitica questa gara, come il deserto del Ténéré, Agadez, Dirkou, Niamey …
L’arrivo, previsto ai piedi delle piramidi di Giza e della Sfinge, sarebbe stata la ciliegina sulla torta!
Dopo quanto accaduto l’anno prima devo, mio malgrado, acquistare una moto nuova. Rimango fedele alla Honda XR400 per le stesse ragioni che mi orientarono all’acquisto precedente, ossia semplicità, affidabilità e ottima accessibilità meccanica. Oltretutto in questa edizione, come del resto in tutte le successive, dovrò fare a meno del meccanico al seguito per risparmiare sul budget.

Per la preparazione della moto scelgo una soluzione più raffinata rispetto all’anno precedente, 3 serbatoi in alluminio fatti su misura dallo specialista Carlo Verona di VRP, completati da un paracoppa dello stesso materiale che ingloba un contenitore porta attrezzi e il piccolo serbatoio per l’acqua di emergenza.
Mi faranno compagnia in questa avventura i compagni di Moto Club Giorgio Papa, con una moto preparata come la mia, e Alessandro Balsotti con una Suzuki DR350. Si aggiungono inoltre Massimo Bubix Chinaglia, anche lui con DR350 e Giulio Verzeletti su Yamaha WR400.
Ho un bel ricordo di questa edizione, perché abbiamo formato un gruppo affiatato dove, al bivacco si faceva tutto insieme, aiutandoci a vicenda.
Il 27 e 28 Dicembre si svolgono a Parigi le verifiche tecniche e la partenza simbolica dal podio allestito a Champ de Mars con sfilata per la città. Successivamente è possibile caricare le moto sui furgoni per dirigersi verso il porto di Le Havre, dove tutti i mezzi della carovana vengono presi in carico dagli organizzatori e imbarcati su una nave che li porterà a Dakar.

Il 3 e 4 gennaio verifiche amministrative nella capitale del Senegal, il 6 ritiro delle moto al porto, briefing generale e siamo pronti a partire!

All’alba del 6, da Place de la Republic, partiamo uno ad uno in ordine inverso, vale a dire dal numero più alto al più basso. Io ho il 108, quando tocca a me il sole si è levato da poco e il pubblico non è certo quello delle grandi occasioni!
Comunque sono qui per una gara nel deserto, non per una sfilata mondana … quindi va bene così!
I primi 200 km sono su strade asfaltate dove bisogna prestare la massima attenzione al traffico locale; come si può immaginare per strada si trova di tutto e il caos regna sovrano.

La prima Speciale è di 284 km, su piste prevalentemente sabbiose, con molta vegetazione e numerosi attraversamenti di villaggi.

A sera mi è chiaro che l’insidia maggiore per la prima settimana sarà la polvere, e che polvere! Infatti, fino all’ingresso nel Niger, il percorso si sviluppa nella zona sub sahariana, fatta di piste di laterite (la terra rossa dei campi da tennis) contornate da vegetazione folta e alberi che, con le loro fronde, impediscono alla polvere sollevata dai veicoli in gara di diradarsi. Io, abituato alla nebbia padana, pur con molta prudenza, vado via spedito senza cacciarmi nei guai.

Il mio imperativo per questa edizione è arrivare alla fine, senza curarmi della mia posizione in classifica e di quella degli amici/avversari.
Ho anche capito che devo ascoltare il mio corpo e all’occorrenza fermarmi per una pausa, quando sento venire meno le energie.
Con questa strategia di gara arrivo a Niamey, quindi dopo 6 giorni, senza neanche aver fatto una piccola scivolata. La moto è tale e quale a come è partita, neanche un minimo graffio!
A sera viene esposto in bacheca un comunicato degli organizzatori, in cui si dice che i servizi segreti francesi hanno ragione di ritenere che un gruppo numeroso di terroristi/predoni, ben armato ed equipaggiato, è in attesa del passaggio della gara nelle distese desertiche del Niger, per un’azione eclatante.

Per questa ragione il rally viene momentaneamente sospeso, in attesa di sviluppi.
Una cosa di questo tipo non era mai accaduta, noi siamo increduli e frastornati. Eseguiamo comunque la solita routine del pilota senza assistenza, che consiste, una volta arrivato al bivacco, nel cercare i due aerei cargo della Elf.
Questi hanno il compito di trasportare da una tappa all’altra una cassa metallica e due ruote complete, tutto ciò che è concesso avere compreso nel l’iscrizione.
Una volta individuata la propria cassa (e non è sempre facile trovarla tra le più di cento presenti), si monta la tenda, ci si tolgono i vestiti da gara umidi e li si mettono ad asciugare.

Come si può immaginare lo spazio all’interno della cassa è limitato, considerando che deve contenere tenda, sacco a pelo, materassino e un set completo di vestiti da indossare al bivacco. A questi vanno aggiunti gli attrezzi per la manutenzione della moto e le parti di ricambio che si riescono ad infilare.
Io avevo una cassetta di legno che in origine era parte di un mobile Ikea, rinforzata con delle piastre di alluminio. All’interno mettevo i ricambi e, all’occorrenza, la cassetta poteva fare da supporto per sollevare la moto.

Ma torniamo all’edizione 2000.
Il giorno seguente lo stop ci organizziamo per fare la manutenzione prevista per la giornata di riposo, quindi cambio olio, lavaggio e preparazione dei filtri aria che serviranno per la seconda parte della gara, sostituzione pneumatici.
Questo servizio in realtà viene svolto gratuitamente dall’equipe Euromaster, è sufficiente fare avere loro la ruota completa e il pneumatico nuovo.
In serata ci viene comunicato che verrà predisposto un ponte aereo che trasferirà tutti i mezzi della carovana da Niamey a Sabha, in Libia, da dove la gara riprenderà.

Ora provate ad immaginare cosa voglia dire trasportare a più di 1000 km un centinaio di moto, altrettante auto, ma soprattutto più di cento camion e anche 7 o 8 elicotteri!

Si occuperanno di tutto due giganteschi Antonov 124-100 e vi assicuro che era uno spettacolo vederli decollare a pieno carico.
Il ponte aereo richiederà alcuni giorni e alla fine lo stop sarà di 5 giorni. Tanti, e sufficienti a recuperare tutte le energie e a rimettere in efficienza i veicoli; cosicché alla ripartenza si sarebbe ricominciato tutto da capo.
Dopo due o tre giorni di campeggio forzato ai margini della pista dell’aeroporto, notiamo che ci sono sempre meno concorrenti accampati come noi. Ma dove sono andati tutti? In hotel, i furboni!

In breve ci uniamo a loro e ci trasferiamo in un grande hotel in centro città.
Il detto “chi tardi arriva male alloggia”, in questo caso non corrisponde al vero; riusciamo a sistemarci tutti e cinque in una grande suite all’ultimo piano. Non male per essere alla Dakar! 🙂
Il giorno seguente, visto che il carico dei mezzi e dei materiali sugli aerei viene gestito dagli organizzatori, ci permettiamo anche una gita in piroga sul fiume Niger. Uno spettacolo! Riusciamo a vedere gli ippopotami nel loro ambiente naturale e a visitare un villaggio fatto di capanne.
Ma la pacchia sta per finire; il mattino successivo ci imbarchiamo tutti su un 737 destinazione Libia, dove ci attendono temperature decisamente meno gradevoli
Ma prima di salire sull’aereo, un episodio di quelli che succedono solo in Africa: per qualche strana ragione il velivolo è parcheggiato fuori dalla pista, su una superficie di terra; l’equipaggio ci fa sapere che lì non possono accedere i motori, ragione per cui ci chiedono di spingere letteralmente l’aereo per riportarlo sulla pista! Robe da matti …

Le tappe in Libia ed Egitto furono relativamente semplici, nel senso che erano si lunghe ma scorrevoli, quindi si riusciva a viaggiare a medie elevate.
In compenso i luoghi e i paesaggi che incontravamo erano fantastici: tratti di centinaia di km in fuori pista, ascesa del vulcano Wan Namous con controllo timbro proprio sulla sommità, dune maestose!
L’unico problema, il freddo. Infatti avvicinandoci sempre di più al Cairo, e quindi puntando a nord-est, la temperatura andava via via scendendo, soprattutto al mattino.

Noi peones, non potendo contare su mezzi di assistenza, non potevamo permetterci di avere al seguito capi tecnici adatti.
Quindi la sera, prima di chiuderci nelle tende, vagavamo per il bivacco in cerca di materiali tipo cartone, teli in plastica o cose simili, allo scopo di costruirci dei paramani improvvisati (tipo quelli che si vedono sugli scooter d’inverno), che ci potessero salvare le mani dal congelamento!
La strategia era quella di fare il trasferimento verso la prova speciale, sempre su asfalto e spesso lungo, con le protezioni auto costruite; quindi smontarle dalla moto e abbandonarle presso il punto di controllo a inizio speciale. Ovviamente non erano trasportabili e quindi la sera successiva bisognava ricominciare daccapo

Entrati in Egitto la gestione dei pasti passò sotto il controllo di una società locale, mentre solitamente questo compito viene svolto da un gruppo francese che porta tutto dall’Europa, ad esclusione di pane e acqua.

Il mio apparato digerente manifestò subito tutto il suo disappunto per questo cambio di gestione, rendendomi la vita difficile per un paio di giorni. Doversi fermare anche 5 o 6 volte in speciale, in preda ad improvvisi attacchi di dissenteria, non è una cosa proprio simpatica …
Piccolo aneddoto: quel giorno Nani Roma, in testa alla gara fino al giorno prima, partiva diverse posizioni dopo di me avendo rotto il motore il giorno prima.
Io, accovacciato a fianco della moto in una spianata enorme senza nessun tipo di ostacolo o asperità, intento a far fronte ad uno dei suddetti attacchi, sento arrivare in lontananza una moto a gas completamente spalancato.
Ovviamente era Nani. Mi vede, si ferma e fa: “todo bien?”
Io lo guardo: “mica tanto, comunque grazie per esserti fermato!”
Un grande!!! 🙂

Comunque, a parte questi problemi tutto sommato non gravi, la mia gara scorre via senza guai; in breve mi trovo sulla spianata di Giza per il palco di arrivo insieme agli amici con cui ho condiviso le ultime 3 settimane. Incredibilmente siamo arrivati tutti alla fine, pur con Bubix fuori classifica per una serie infinita di guai alla sua moto.
Sicuramente l’edizione del 2000 non viene ricordata come una delle più dure Dakar, soprattutto per l’interruzione di 5 giorni, ma salire sul podio finale e vedersi consegnare la medaglia riservata ai “finisher” è un’emozione davvero difficile da descrivere.
Dei circa 210 bikers partiti, 107 raggiungono Il Cairo, io sono 59° con 15’ di penalità a causa della perdita della tabella di marcia in una tappa. Mi classifico inoltre al terzo posto della categoria Marathon fino a 400 cc., cioè la categoria riservata a chi, nel corso della gara, non sostituisce parti vitali della moto, quali motore, sospensioni, ecc…

Anche nella seconda parte di gara riesco a mantenere il record di zero cadute; la moto rientrerà in Italia praticamente perfetta, missione compiuta!!!

Il gruppo dei cinque rimane compatto anche nei due giorni che ci servono a organizzare il rientro a casa; infatti, per scaramanzia, non avevamo acquistato il biglietto aereo di ritorno. Cosicchè facciamo conoscenza col traffico davvero incredibile della capitale egiziana, dove la regola è: affrontare gli incroci e le rotonde come se non ci fosse un domani!
In pratica si suona il clacson e ci si butta dentro, sperando nella buona sorte …
Incredibilmente anche chi guida i mezzi più indifesi, come moto e ciclomotori, adotta lo stesso stile di guida e ancora più incredibilmente quasi sempre va tutto bene!

La variante serale prevede l’uso degli abbaglianti al posto del clacson … un caos …
Il rischio più grosso dalla partenza di Dakar lo corro, insieme ai miei quattro compagni di avventura, in un taxi diretto all’aeroporto: è sera, per accompagnare i viaggiatori alla zona partenze i taxisti devono pagare una sorta di pedaggio, con casello tipo autostrada; il nostro autista, pur di non pagare, si inventa la manovra del secolo, spegne le luci e si infila contromano nella corsia destinata a chi lascia la zona partenze!!!

Testo e foto di Francesco Tarricone

 

Beppe Gualini presenta la Dakar 1985

Le statistiche dicono che la Parigi-Dakar è conosciuta da circa il 58% della popolazione. Qual è il segreto di questa gara motoristica, la più dura al mondo in cui auto, moto e camion si sfidano sulle piste africane? Senz’altro il fascino dell’avventura, denominatore comune di tutte le cose che oggi interessano il grande pubblico. Non a caso si è guadagnata la fama di essere l’ultima avventura. Ma forse molti ne conoscono solo le immagini, e non il meccanismo. La Parigi-Dakar è una vera e propria gara di velocità che dura 22 giorni, con partenza 11 gennaio da Parigi, ed arrivo a Dakar, capitale del Senegal.

Dopo l’attraversamento della Francia, con imbarco a Sète, ecco l’Algeria con piste dure e selettive, il Niger con il deserto del Ténéré dove un impegnativo itinerario mette a dura prova i concorrenti; ma superati questi grandi ostacoli la gara non è che a metà. Ecco l’Alto Volta, il Mali, la Mauritania, con difficoltà di orientamento elevate e terreni insidiosi, infine il Senegal, dove si comincia a respirare aria di festa, anche se, fino al traguardo, sulla spiaggia dell’Atlantico, niente è ancor detto. Questo è il vero motivo che ha portato la Parigi-Dakar ad essere tanto conosciuta: l’imprevisto.

Proprio per i luoghi dove si svolge, nel deserto o sulle piste abbandonate della Mauritania, l’uomo si trova continuamente a lottare non solo contro il tempo, ma anche contro i mille imprevisti che lo attendono in agguato, dal perdere la strada e dover essere in grado di riprendere la rotta giusta, ad avere un problema meccanico e doverlo risolvere con mezzi di fortuna. In un attimo le situazioni si capovolgono repentinamente: da una velocità assurda di circa 180 chilometri orari fuoripista si passa allo stallo totale dove un piccolo problema, proprio per le situazioni ambientali, diventa insormontabile ed ecco che la fortuna gioca un ruolo predominante nello svolgimento delle mille storie che avvengono all’interno della competizione.

Ma chi sono i partecipanti? Ci sono innanzitutto i professionisti, i piloti che corrono per una casa ufficiale che si presenta con team costituiti da moto, auto e camion di assistenza e meccanici sugli aerei dell’organizzazione.

Sono i piloti che portano avanti l’immagine di una casa costruttrice, con mezzi competitivi, che lottano ogni giorno con il massimo risultato, rischiano il tutto per tutto. Sono quelli che attirano l’interesse del grande pubblico poichè sono i beniamini, i miti. Sono stati, e possono essere, i possibili vincitori della terribile maratona. Al loro fianco, ecco le star del momento che arrivano da tutti i settori, dal mondo della canzone, del cinema, della moda e dell’alta società.

Sono i nomi che pur non avendo un ruolo fondamentale in campo agonistico attirano l’attenzione dei mass media. Ma i veri avventurieri sono i privati, le persone comuni ma con la passione dei motori, che, dopo aver fatto la licenza internazionale (obbligatoria), investono tutti i loro risparmi, rischiano i loro mezzi e le loro, vacanze per vivere anche loro, magari per una volta soltanto, immersi nella grande avventura. In senso assoluto è il motociclista che vive il massimo delle sofferenze, delle sensazioni e delle gioie poichè tutto è sempre e solo sulle sue spalle. Soggetto a tutti i disagi, dal caldo, al freddo, alle intemperie, al rischio massimo della incolumità fisica.

Solo, nel dividere lo stress psico fisico e le decisioni importanti ed i momenti difficili. Con lo zaino sulle spalle, suo fedele compagno, il motociclista porta il minimo indispensabile: un kit di sopravvivenza obbligatorio con tanto di radio per segnalazione aerea, (una volta accesa automaticamente significa che si è fuoricorsa), razzi di segnalazione luminosi, una coperta di sopravvivenza in alluminio, una bussola, un coltello, una razione alimentare Enervit, pastiglie di fruttosio e sali, il sacco a pelo, la borraccia dell’acqua ed una trousse di ferri con una camera d’aria per le riparazioni da eseguire al volo.

Ma vediamo, in linea di massima, come si svolge una giornata. La mattina la sveglia è alle prime luci dell’alba, la partenza può essere alle sei o alle sette quindi due ore prima il campo comincia a brulicare. Viene dato il via ogni 30 secondi, uno dopo l’altro partono prima i motociclisti poi le vetture ed i camion. Ogni pilota ha con sè un compagno inseparabile: il road-book che indica la strada da per-correre, le piste da prendere, i pericoli, i gradi della bussola, i chilometri esatti per giungere senza problemi la sera al campo. In media i chilometri da percorrere sono 600 o 700, con tappe minime, di 450 e massime anche di 1.100 chilometri per le tappe marathon.

Dopo un tratto di trasferimento (50-100 chilometri) con un tempo impartito, ecco la partenza della vera e propria prova speciale, chilometri di pura velocità in cui l’avversario non è soltanto il tempo, ma anche la stanchezza fisica e soprattutto psicologica. L’imprevisto sempre in agguato mette a dura prova non solo i mezzi ma anche gli uomini che devono avere una buona preparazione in tutti i campi, dalla tecnica di guida, alla meccanica, all’orientamento, all’arte di sopravvivere ed arrangiarsi. Giunti al traguardo, inizia una seconda giornata, quella delle lunghe file per fare il pieno di carburante, o avere una tazza di zuppa calda e fumante.

La notte, alla luce delle lampade alimentate dai generatori o delle pile frontali, le ore di lavoro per rimettere in ordine il veicolo per la tappa successiva non si contano, spesso l’alba sorprende gli uomini ancora intenti a lavorare! Nulla deve essere lasciato al caso, perchè solamente una preparazione davvero meticolosa può garantire una buona riuscita. I costi di questa gara sono elevatissimi, date le necessità tecniche e la durata di circa un mese.

Due dati che parlano da soli: un motociclista, solo per coprire la partecipazione alla Parigi-Dakar, spende 15 milioni; tale cifra comprende l’iscrizione, i traghetti, gli aerei, le attrezzature (radio) obbligatorie, la razione alimentare giornaliera (non include l’acqua) e la benzina.

E’ escluso da tale cifra il costo della moto, dei ricambi e quello dell’assistenza, il che significa avere una sola probabilità su mille di arrivare al traguardo. In auto, sempre non contando il costo del mezzo e la sua obbligatoria preparazione (roll-bar e serbatoi supplementari), il costo è naturalmente pari al doppio. Qui l’importanza degli sponsor non è soltanto per l’aspetto economico ma anche per quello tecnico; infatti i partecipanti hanno necessità di materiali speciali super affidabili, sia dal punto di vista meccanico, sia da quello dell’abbigliamento, dell’alimentazione e di tutta l’accessoristica. Di conseguenza il mercato ne trae fondamentale vantaggio per fare test indiscutibili, per la successiva produzione su grande scala.

Quest’anno, alla sua ottava edizione, la Parigi-Dakar vede al via oltre 200 moto, 250 auto e tutti i camion in gara e di assistenza; una carovana di 1.500 uomini. Il prologo avviene il giorno 29 dicembre a Cergy-Pontoise (a pochi chilometri di distanza da Parigi); i mezzi saranno esposti poi a Versailles dove il primo gennaio avverrà la partenza vera e propria. La partecipazione italiana, sempre più agguerrita in campo motociclistico, vede la partecipazione di case ufficiali come la Cagiva, la Guzzi, la Yamaha e la Honda Italia. A loro auguriamo di essere presenti fra quel pugno di sopravvissuti che vedrà la tanto desiderata e sognata spiaggia di Dakar.

Beppe Gualini

Intervista tratta da Jonathan Dimensione Avventura

Un ringraziamento speciale a Andrea (Gitan) per il materiale fornito

La mia Dakar 1999 by Francesco Tarricone

Gennaio 1999, da Granada a Dakar. Non mi sembra vero schierarmi al via della gara che ho scoperto e cominciato a seguire a metà degli anni ’80, quelli di Picco, Orioli e De Petri.
 Ho iniziato con i Motorally circa 10 anni prima, e frequentando il mitico Moto Club Oggiono, conosco alcuni amici che vi hanno già partecipato.
In poco tempo decido di provarci anch’io; in primavera prendo parte al Rally di Sardegna e, per poco, non vinco la categoria moto di serie (B2).
Mi do da fare alla ricerca di finanziatori e, incredibilmente, trovo i soldi per coprire il budget per me e per un meccanico aviotrasportato.

In quegli anni era possibile imbarcare sugli aerei dell’organizzazione un meccanico; questo veniva trasferito da un bivacco all’altro, ed era un modo relativamente economico di disporre di una assistenza.
La scelta ricadde sull’amico, meccanico ed anche pilota Max Tresoldi.
 Per la moto optai per una Honda XR 400, semplice, robusta ed economica. Serbatoio maggiorato Acerbis, 2 serbatoi laterali in plastica comprati usati, paramotore con riserva di acqua e porta-attrezzi, sospensioni tarate ad hoc e la moto era bella che pronta.

Le prime tappe filarono via lisce… fin troppo, infatti non ho ricordi legati a quei giorni. 
Anzi no, una cosa me la ricordo. 
Al mattino, dopo la colazione, viene consegnato a ciascun pilota un sacchetto contenente la razione di viveri utili ad arrivare a sera.
 All’interno si trovano alimenti energetici come barrette, latte condensato, succo di frutta, formaggini e altro. La razione è la stessa, indipendentemente che ci si trovi su una moto, in macchina o in camion. Evidentemente alcuni di questi alimenti non sono molto compatibili alle sollecitazioni che un pilota moto sopporta durante una tappa; ragione per cui sarebbe meglio non infilarsele nelle tasche della giacca.
 Il quarto giorno metto incautamente una mousse di pera nella tasca posteriore, all’arrivo di tappa mi accorgo del disastro. L’interno della tasca è completamente rivestito di un composto appiccicoso a base di pera e polvere!
 Passo più di un’ora nei bagni dell’aeroporto di Tan Tan a rimuovere la melassa!
Ma il peggio doveva ancora venire …

Tappa 6, da Bir Mogrein ad Atar, Mauritania, 629 km di cui 624 di prova speciale.
 È la prima tappa di deserto, quello vero! Partenza in linea, mi pare 50 piloti in ogni fila, io sono in seconda fila. 
Tengo un buon ritmo per i primi chilometri, poi all’improvviso arrivo veloce su un tratto di cunette di sabbia, tipo whoops, non ho il tempo di rialzarmi sulle pedane che mi ritrovo per aria!


Tocco terra, rimbalzo e faccio in tempo a pensare: ora mi faccio male!
Per fortuna sono solo un po’ acciaccato, ma niente di rotto.

Alla moto non va così bene, uno dei due trip master si rompe e tutto il blocco strumenti si piega. Riparto.
Dopo un po’ mi trovo dietro ad altri piloti che, ad una nota, prendono una direzione secondo me sbagliata. Sono convinto di essere nel giusto e vado avanti per la mia strada. Secondo voi chi aveva ragione? … Ovviamente gli altri! ☺
In poco tempo mi ritrovo completamente solo, senza tracce per terra, in una zona di sabbia pianeggiante con dei piccoli cordoni di cunette. 
Avrei dovuto tornare indietro, ma vuoi per inesperienza e vuoi per non perdere altro tempo, decido di puntare il waypoint successivo dritto per dritto … peccato che sia a 90 km!
Il fuoripista in solitario mi logora mentalmente, quando mi ricollego al tracciato di gara sono esausto, e siamo solo a metà tappa …
Mi ritrovo con due compagni di moto club, Giorgio Papa e Alessandro Balsotti, decido di proseguire dietro a loro; purtroppo il mio fisico non è d’accordo, tra insabbiamenti e piccole cadute esaurisco completamente le forze e non riesco a viaggiare al loro ritmo. 
Col senno di poi è facile dire che mi sarei dovuto fermare per qualche minuto, mangiare qualche barretta e ricaricare le batterie.
 Non lo feci, e al tramonto mi ritrovai ad affrontare gli ultimi 20 km di dune che precedevano una bella pista battuta che in una sessantina di chilometri portava all’arrivo.

La frizione, ormai stanca dei miei maltrattamenti, decise che ne aveva abbastanza e mi piantò in asso!
 A quel punto un dakariano con esperienza prende atto che quella tappa è andata male, ma che la gara è ancora lunga e tutto può ancora succedere; bisogna solo portare la moto al bivacco entro la mattina successiva, con qualsiasi mezzo. Io, che di esperienza non ne ho, provo a sostituire i dischi frizione con gli attrezzi di scarsa qualità che ho con me. Non riesco neanche a rimuovere il coperchio frizione!

Sono talmente stanco e poco lucido, che non mi viene in mente di fermare gli altri concorrenti per chiedere aiuto.

Ok, ormai sono fra gli ultimi delle moto, ma ci sono ancora molte auto e camion che devono passare da lì.
 In breve tempo mi ritrovo al buio, con i vestiti umidi dal sudore e con la temperatura che scende velocemente; non mi rendo ancora conto della notte che mi aspetta!

Mentalmente mi sono arreso, non ho voglia di fare niente, solo riposarmi. Arriva un ragazzo inglese, più stanco di me, la sua moto funziona, lui non ne può più! Si ferma ad un centinaio di metri da me e decide di ritirarsi, non se la sente di proseguire al buio da solo.
 Ci avvolgiamo nei nostri teli di alluminio per cercare di trattenere il calore corporeo, confidando nell’arrivo del camion balai (letteralmente scopa), che ha il compito di recuperare i “reduci della campagna d’Africa”!
 Infatti, dopo la mezzanotte, arriva. Purtroppo i “reduci” di quella tappa sono tanti, non c’è più posto e ci dicono di aspettare il mattino seguente, quando passerà un secondo mezzo.
 Aspettiamo con ansia il sorgere del sole e il suo calore; fa freddo!

Le nostre aspettative saranno esaudite … anche troppo! Durante la giornata la temperatura sale tantissimo, tanto che gli stessi teli di alluminio, usati per combattere il freddo, si rivelano utili anche per fare ombra.
Ma non doveva arrivare il secondo camion scopa? 
Al mattino, di buon ora, sentiamo un elicottero, atterra vicino a noi, è il gran capo Hubert Auriol: ci dice di non muoverci di lì e aspettare il balai. Lascia acqua e viveri e riparte per localizzare altri sfortunati come noi; la tappa del giorno prima ha mietuto molte vittime!

A metà giornata arriva un piccolo aereo, ci gira sulle teste, poi lancia un oggetto legato ad un piccolo paracadute: è una borraccia di alluminio con un foglietto scritto a mano.

Dice: il camion ha un problema, non muovetevi, vi recuperiamo più tardi …
 Ma dove siamo, in un film? ☺
A metà pomeriggio fine della piccola Odissea, arriva un altro elicottero che ci carica e ci porta ad Atar, sede del fine tappa del giorno prima.
 E le moto? Abbandonate nel deserto! Ci dicono che non possono trasportarle con l’elicottero e che il giorno seguente sarebbe passato un mezzo a recuperarle. 
Non saprò mai se il fantomatico mezzo passò o meno; rientrato a casa, gli organizzatori mi comunicarono che le due moto erano state rubate.
 Peggio di così non poteva finire!
 Solo dopo innumerevoli richieste scritte, un bel giorno mi chiamò monsieur Auriol in persona, dicendomi che mi avrebbero concesso un parziale risarcimento per la perdita del veicolo.

La mia personale riflessione, al termine di questa prima partecipazione, è che sarebbe stato meglio iscriversi ad un rally minore, per acquisire quel minimo di esperienza utile ad evitare alcuni grossolani errori che, inevitabilmente, si fanno all’inizio. 
Però il danno ormai era fatto, l’esperienza acquisita, tanto valeva cominciare a pensare alla prossima: Dakar-Cairo 2000.

Quell’anno, tra le moto, vinse il compianto Richard Sainct su BMW 650 monocilindrica, fu l’ultimo anno in moto di Edi Orioli.
Il gps dato in dotazione era ancora quello piccolo, tanto che era possibile montarlo a fianco del porta road- book.
I piloti ufficiali ne montavano due affiancati, sulla piastra di sterzo.
 Sentinel e Iritrack non esistevano ancora, sul veicolo veniva posizionata la “balise”, un dispositivo che, una volta attivato, emetteva un segnale che permetteva la localizzazione via satellite.
 Una volta acceso si era automaticamente fuori gara, quindi era meglio pensarci bene!
 La richiesta di soccorso doveva essere fatta solo per motivi sanitari o se non si veniva raggiunti dai mezzi dell’organizzazione entro il giorno successivo alla fermata nel deserto.

Testo e foto Francesco Tarricone

 

Agadez: lo chiamavano il giorno di riposo

La città di Agadez è ricordata nella Storia della Parigi Dakar come il giorno di riposo. La gara si fermava per un giorno intero per prendere fiato, leccarsi le ferite e ricomporsi un po’.
Serviva all’organizzazione per fare il punto della situazione in vista della seconda parte di gara e contare i superstiti.
Le squadre ufficiali di auto e moto solitamente affittavano una casa intera,meglio se con giardino chiuso da alte mura di recinzioni per poter rifare completamente i mezzi in gara.

I meccanici aviotrasportati dei grandi team aspettavano i piloti moto con già gli attrezzi in mano ed ogni ben di Dio pronto…nuove ruote complete con gomme montate, catene,sospensioni,tutto il possibile veniva sostituito o rigenerato… compreso il pilota che poteva farsi finalmente una doccia, mangiare due pasti completi e rilassarsi un po’ in vista della seconda parte di gara.
La tappa precedente Agadez era solitamente lunga e massacrante, non ho mai capito se perché l’organizzazione volesse decimare i piloti da portare fino a Dakar o perché aveva poi il tempo di recuperarli il giorno dopo… Per i piloti privati, il giorno di riposo non esisteva !
anzi si lavorava di brutto, era un giorno bello tosto!

Era la sola occasione per cercare di ricomporsi un po’, non c’erano meccanici ad aspettarti e casse di ricambi freschi pronti da montare, case prenotate o stanze riservate in Hotel.
Ricordo bene la “micidiale” tappa N’guigmi-Agadez, durante la 12a edizione che appunto portava al tanto agognato giorno di riposo…o di lavoro come preferivo chiamarlo io.

Il mattino presto alla partenza, i motociclisti, uno ogni minuto, dopo cento metri si prendeva una pista a sinistra, prima tutti i big in lotta per la vittoria, poi noi a correre la gara contro la gara con in testa un solo obbiettivo …arrivare a Dakar !

Io avevo già preso una penalità per vari problemi alla moto nei giorni precedenti e partivo attorno alla quarantesima posizione, ma il passo era da primi 20, quindi una volta partito cominciavo subito ad inseguire la polvere di chi era davanti, partito prima di me.
La moto era alla frutta, le sospensioni finite, cosi come le gomme e tutto il resto… ma dopo un po’ non ci facevi più caso, cercavi di spingere per quanto possibile per andare a prendere quello davanti.

Bene, quando toccava a me quindi circa 40 minuti dopo la partenza del primo…vedo una Toyota bianca della TSO che invece di svoltare a sinistra come tutti i piloti che mi avevano preceduto passa una piccola duna di fronte alla partenza…e tira dritto: pronti via decido di seguirla!
La pista all’inizio era ben definita e le note sul road-book ritornavano tutte, l’unica cosa che non tornava era il fatto che non c’era la polvere in lontanaza del pilota davanti.
Chilometro dopo chilometro non potevo farmene una ragione, le note tornavano i riferimenti c’erano ma non c’era l’ombra degli altri piloti in corsa…era il Ténéré non ero sul lungomare di Riccione!
Lo stomaco mi si chiudeva un po’ ed ogni tanto mi fermavo a guardare la cartina Michelin che sempre portavo con me, non c’era il Gps! Solo una piccola bussola in tasca comprata al caccia e pesca sotto casa prima di partire ed una sul manubrio, una di quelle da ultraleggero che mentere andavi girava come una trottola.

Dopo quattrocento chilometri, la speciale era di 870…si 870, vedo l’elicottero di Sabine padre che si posa su una duna più avanti, scende e incomincia a sbracciare per chiamarmi, io mi guardo intorno come per dire dici a me ? Si, c’ero solo io, diceva a me.
Vado da Sabine e mi chiede, naturalmente in francese, con tono piuttosto preoccupato:
sul Road-book le note vanno bene, la pista e il road book tornano?

Io rispondo sempre in francese ma con inconfondibile accento romagnolo:
”Oui bien sur Mounsieur Sabine Tout Bien! “

E lui: “ vai sei in testa alla gara, sei stato l’unico a prendere la Bonne piste !

Non avevo ancora incontrato un solo concorrente…ma tutto tornava. E non avevo sbagliato nulla, erano gli altri che, sbagliato il primo, tutti dietro, ero in testa, io e la mia motina che stava insieme con le fascette e con le gomme finite.
Dopo un po’ arriva Orioli con la Cagiva che mi passa al doppio della velocità… poi Rahier con la Suzuki…mi son detto peccato, ci avevo preso gusto, ma mancavano più di 400 chilometri nel Ténéré con cordoni di dune infiniti e la possibilità di insabbiarsi o di perdersi altre 1000 volte.

E’ stato bello finchè è durato!
Tornando ad Agadez, ci sono arrivato alla sera tardi, in settima posizione, e vi garantisco che considerando le mie condizioni, era come se la speciale l’avessi vinta! Quando arrivi ad Agadez di notte da privato è un casino, non c’è nessuno ad aspettarti e non sai veramente dove andare, non è il solito bivacco, cominci a girare e a cercare qualcuno che conosci che possa dirti dove puoi dormire mangiare, e farti la prima doccia dopo Parigi.

Ma il mio pensiero dopo aver bevuto una birra nel primo chiosco impolverato sulla stada fù quello di trovare un posto per sistemare la moto, cambiare le gomme e sostituire il filtro dell’aria (adoperavo sulla mia moto quello in carta della Renault 12, macchina molto diffusa ai tempi in Africa, e quindi anche ad Agadez).
Non pensavo al riposo del giorno dopo, l’adrenalina a mille non ti fa sentire la reale stanchezza, sei distrutto ma pensi già alla tappa successiva, a quello che devi fare per spravvivere alla gara, che ti consuma piano piano.
Se lo racconti adesso che ti aspettano con il camper e l’idropulitrice non ci crede nessuno, dovevi per forza andare a scrocco, le gomme se non le trovavi nuove da qualche team che aveva perso i piloti per strada le dovevi sostituire con quelle scartate dai big, e sicuramente erano messe meglio delle tue. Ripassare tutto il possibile, cambiare l’olio, stringere tutto e saldare se c’era da saldare.

Se avevi fortuna ed il camion su cui avevi affittato il tuo piccolo spazio, era ancora in gara ti arrivavano le tue cose ed i tuoi ricambi…in insalata, completamente insabbiati e corrosi dallo sfregamento e dalle vibrazioni di un pezzo contro l’altro nel camion sulla pista.
Se avevi una felpa ed un paio di pantaloni sul camion non erano certo freschi di bucato ma erano sicuramente meglio della tuta Dainese che avevi addosso da una decina di giorni.
Bene da questa insalata dovevi recuperare i tuoi pezzi e cambiare tutto il possibile, catena corona e pignone, aggiustare nel migliore dei modi tutto quello che avevi distrutto nei primi 10 giorni di gara e presentarti alla partenza del giorno dopo con un minimo di dignità!
La doccia e il pensiero di riprenderti un po’ fisicamente era veramente l’ultimo dei problemi.
E lo chiamavano il giorno di riposo.

Continua…

Fabio Marcaccini

 

1986 – Thierry Sabine, il visionario della Parigi-Dakar

C’è un albero – uno solo – che sorge in cima a una piccola duna in pieno Ténéré. Dicono che sia un’acacia: il tronco contorto, affaticato dagli anni e da un clima impossibile, i rami secchi, attorcigliati, protesi come mani scheletriche verso il cielo. Sembra quasi supplicare un’improbabile pioggia che dia un po’ di sollievo alla sua inestinguibile sete. Eppure la pianta sopravvive, a dispetto di ogni logica, ai margini della pista che, attraverso il deserto, collega Iferouane a Chirfa, nel nord-est del Niger. I carovanieri e i nomadi che passano di qui lo chiamano “albero perduto”, ma nessuno sa dire a quale oasi è sfuggito, né quale miracolosa vena d’acqua presente nel sottosuolo riesca a mantenerlo in vita.

Lì, proprio ai suoi piedi, oggi vive lo spirito libero di un autentico visionario. Una stele e le sue ceneri, disperse tutte intorno dopo la sua tragica morte, avvenuta nel 1986 nello schianto dell’elicottero su cui viaggiava, sono tutto ciò che resta di Thierry Sabine.

«Il deserto mi ha lasciato vivere. Il deserto mi richiama» era solito dire.

E così è stato. Nove anni prima, non lontano da qui, il giovane Thierry, bello, ricco, biondo come un normanno, pilota di auto e di moto appassionato di avventure e di competizioni estreme, smarrisce la strada durante una tappa del rally Abidjan-Nizza. In sella alla sua Yamaha XT 500 da enduro rimane isolato dal resto dei concorrenti e si ritrova in mezzo al nulla senza bussola, senza acqua e senza cibo. Uniche compagnie un’inutile mappa e un gri-gri, un amuleto portafortuna regalatogli da un amico tuareg da cui non si separa mai.

Il ragazzo di Neuilly-sur-Seine non si perde d’animo: strofina il feticcio fin quasi a consumarlo, tanto cosa ha da perdere? Caso o destino il gri-gri fa il suo dovere: dopo tre giorni e tre notti il pilota francese viene localizzato e soccorso. Contro ogni previsione Thierry Sabine è salvo. Ma anche irrimediabilmente cambiato. Quelle ore di solitudine, passate in balia di un mare di sabbia a strofinare un aumuleto di cuoio, lo hanno conquistato tanto da fargli dimenticare la paura della morte. Il silenzio del deserto, interrotto solo dal vento che modella le dune in forme effimere come quelle delle nubi, gli ha fatto intravedere nuovi orizzonti, nuovi obbiettivi. Non miraggi o fate morgane, ma vere e proprie visioni che di lì a poco avrebbe trasformato in realtà.

La visione di Thierry

Già sull’aereo dell’aviazione militare algerina che lo riporta a casa Thierry Sabine inizia a pensare a un rally per mezzi a quattro e due ruote come non si è mai visto prima. Una competizione sensazionale, dal percorso a dir poco folle, con partenza nel centro di Parigi e arrivo, dopo circa venti giorni, sulle spiagge bianche e assolate di Dakar. Due continenti, un mare da attraversare e in mezzo il nulla – o il tutto – del Sahara. Un raid, più che una gara, dove la resistenza e l’abilità del pilota, ma anche le prestazioni e la robustezza del mezzo, verranno messe a dura prova da difficoltà ambientali estreme. Ma anche un’occasione irripetibile per i concorrenti per misurarsi con i propri limiti, in un mix di fascino e di avventura, di esotico e di modernità, di grandi panorami e di condizioni impossibili. «Una sfida per quanti partecipano» è il suo credo «ma anche un sogno per chi sta a guardare».

La visione di Sabine si concretizza in pochi mesi. Tornato in Francia comincia a darsi da fare per trovare i finanziamenti necessari alla realizzazione del suo progetto. Bussa a destra e a manca, instancabile e insistente, deciso a realizzare il suo obbiettivo. Finché, miracolosamente, i soldi saltano fuori soprattutto grazie alla Oasis, un’azienda che produce succhi di frutta. Dopo nemmeno un anno dalla sua progettazione la Parigi-Dakar può già dirsi una realtà.

Il 26 dicembre 1978, giorno di Santo Stefano, centottantadue veicoli di ogni tipo si radunano rombanti sulla spianata del Trocadéro, all’ombra della Tour Eiffel. A bordo ci sono professionisti e privati, piloti esperti e semplici amatori. Li unisce la voglia di avventura, ma anche una buona dose di incoscienza. Li aspettano, infatti, diecimila chilometri da percorrere attraverso Francia, Algeria, Niger, Mali, Alto Volta (oggi Burkina Faso) e Senegal. Poche strade asfaltate, molte sterrate e poi chilometri – tanti – di piste sabbiose che attraversano il deserto. Di quelle che oggi ci sono e domani no, cancellate – o spostate – dal vento, e che per questo non si trovano sulle cartine. Assistenza meccanica poca o nulla, viveri scarsi, clima feroce anche in pieno inverno. La bussola e la volta stellata come uniche guide. L’adrenalina e la benzina come propellenti per affrontare l’avventura. La voglia di arrivare a tutti i costi come obbiettivo assoluto.

Sono solo in settantaquattro, però, a raggiungere – il 14 gennaio successivo – la spiaggia del lago Rosa, pochi chilometri a nord di Dakar.

Il primo è un ventunenne di Orléans, Cyril Neveu che negli anni a venire avrebbe legato indissolubilmente il suo nome alla competizione, vincendone diverse edizioni. Stanco, sporco di sabbia e di sudore, taglia trionfante il traguardo in sella – guarda caso – a una Yamaha XT500. Nei suoi occhi c’è la luce inconfondibile di chi sa di aver portato a termine un’impresa. Perché d’impresa, in effetti, si è trattato.

Partito tra lo scetticismo generale, il rally comincia magicamente ad attirare l’interesse dei mass media già dopo il terzo-quarto giorno di gara. Prima i giornali, timidamente, poi radio e TV iniziano a parlare con toni sempre più interessati di questo incredibile raid, mentre decine di migliaia di africani si riversano ai lati delle strade (là dove ci sono) per assistere di persona al passaggio di quella carovana di pazzi. Ovunque, da Algeri ad Agadez, da Niamey a Bamako, nelle oasi e nei mille villaggi sperduti che lambiscono il deserto, è un tripudio di gente che mai aveva assistito a uno spettacolo del genere. L’entusiasmo della folla si fonde così con quello dei concorrenti.

Tutto questo nonostante l’organizzazione di Sabine, lui stesso in gara, lasci profondamente a desiderare: a un certo punto sette motociclisti – e tra loro lo stesso Neveu – sbagliano strada e finiscono davanti all’imbocco di una miniera di uranio. Ma sono dettagli che in fondo accrescono ancora di più la fama di wild race della competizione. Prima ancora che finisca, la Parigi-Dakar è già entrata nella leggenda.

Una corsa pericolosa

Le edizioni successive attirano un numero sempre più consistente di uomini e donne desiderosi di cimentarsi in una gara capace di mettere a dura prova resistenze umane e meccaniche. Anno dopo anno si presentano al via anche camion, sidecar, dune buggy, 4×4, quad e mezzi di varia origine e natura. Contemporaneamente cresce anche l’interesse della gente e dei mass media che iniziano a coprire con maggiore visibilità l’incredibile raid tra due continenti. Naturalmente anche i finanziamenti e gli sponsor crescono in proporzione, ma Thierry Sabine riesce a gestirli con sapienza e abilità. «La Dakar» sostiene «ha bisogno di marketing, di relazioni pubbliche. Bisogna cioè intervenire sui mass media in maniera determinante. Ed è grazie allo show-business che continua a crescere». Il giovanotto ha ragione, ma ancora non basta. Tasse di iscrizione a dir poco esose, premi delle assicurazioni alle stelle, servizi essenziali pagati a caro prezzo – ma senza batter ciglio – da parte dei concorrenti che già sanno di dover sacrificare – che arrivino o no a Dakar – il loro fuoristrada. Impensabile, infatti, riutilizzarlo dopo una corsa del genere.

La voglia di avventura attraverso il deserto contagia non solo esperti rallysti e piloti già affermati e famosi, come Jacky Ickx, Clay Regazzoni, Patrick Tambay, Henri Pescarolo e Jacques Laffitte. Negli anni a venire a battere le piste del Sahara troveremo, con fortune alterne, anche personaggi famosi come Mark Thatcher, figlio dell’allora primo ministro britannico (che, curiosamente, si perderà anch’egli per tre giorni nel deserto), la rock star dell’epoca Johnny Halliday, gli attori Claude Brasseur e Renato Pozzetto, fino ai campioni di sci Jean-Claude Killy e Luc Alphand. Quest’ultimo, addirittura, vincerà un’edizione della corsa.

Persone diverse provenienti da mondi diversi che alimentano, in un circolo vizioso, il mito del rally, tanto che dopo poche edizioni diventa più popolare del Tour e del Roland Garros. Sabine lo sa e se ne approfitta, infischiandosene delle critiche sull’eccessiva esosità della macchina organizzativa e sull’estrema pericolosità della gara.

Eh già, perché nella Parigi-Dakar si muore, come forse solo nel Tourist Trophy.
Ogni anno – o quasi – qualcuno ci rimette la pelle.

Il primo è Patrice Dodin, proprio nella prima edizione, sbalzato dalla sua moto mentre tentava di riallacciarsi il casco che gli si era allentato. Negli anni a venire saranno quasi sessanta i piloti che perderanno la vita durante la competizione. La maggior parte in scontri tra mezzi partecipanti, ma c’è anche chi si è preso una pallottola in testa sparata da un militare nervoso, chi si è perduto per sempre tra le dune per un difetto di comunicazione con gli organizzatori, chi ha subito un edema polmonare in pieno deserto e chi è stato investito da un veicolo pirata. E poi equipaggi dispersi, auto e moto distrutte, mine inesplose, crepacci improvvisi, piloti feriti, amputati, paralizzati, addirittura sequestrati da bande di predoni. In ogni edizione almeno il 20% dei partecipanti abbandona la competizione a causa di incidenti di vario tipo. Eppure, paradossalmente, è proprio questo che attira la gente e Sabine lo sa benissimo «Se non c’è rischio» risponde a chi lo critica «non c’è nemmeno senso di mettere in piedi la corsa».

La morte in elicottero

Non parla a vanvera, il ragazzo di Neuilly-sur-Seine ormai fattosi uomo, e lo testimonia nella maniera più diretta e drammatica possibile. Il 14 gennaio 1986, come sempre, insegue la corsa a bordo del suo elicottero bianco. Con lui ci sono anche il suo amico cantante Daniel Balavoine, la giornalista Nathalie Odent, il pilota François Xavier-Banioux, cugino del principe Alberto di Monaco, e Jean-Paul Le Fur, un tecnico radio. Sono le sette di sera quando, forse a causa del peso eccessivo, o forse di un’improvvisa tempesta di sabbia – non lo sapremo mai –, il velivolo si schianta a terra nei pressi della comunità di Gourma-Rharous, uccidendo sul colpo tutti gli occupanti.

Il circo ha perduto il suo padrone. La Parigi-Dakar, senza più guida, si ferma per la tappa successiva, ma solo perché l’unico a conoscere la pista è lo stesso Sabine che non ha fatto a tempo a comunicarla ai concorrenti. Poi riprende come niente fosse.
Come Therry avrebbe voluto.

Obbedendo alla sua volontà, dopo qualche tempo dalla morte le sue ceneri vengono disperse sotto l’acacia dal tronco contorto e dai rami attorcigliati che cresce solitaria nel Ténéré nigerino. «Il deserto mi ha lasciato vivere. Il deserto mi richiama». Ecco, il circolo si è chiuso e il mito di Thierry Sabine rimane consegnato per sempre alla storia.

La sua Dakar, naturalmente, continua e lo fa con successo crescente. La macchina che ha messo in moto otto anni prima è così avviata che quasi va avanti da sola, anche se, anno dopo anno, il percorso prende a variare anche in modo considerevole. La causa, quasi sempre, risiede nelle difficili situazioni politiche di alcuni paesi che ne sconsigliano l’attraversamento. Militari, predoni, guerriglieri sono un rischio troppo grande per insistere nella direttrice originaria, quella immaginata da Sabine. Ma ci sono anche ragioni di business a obbligare l’organizzazione a studiare itinerari inediti. Ecco allora le partenze da Granada, Lisbona o Barcellona, gli arrivi a Città del Capo, Il Cairo o Sharm el-Sheikh, il circuito da Dakar e ritorno.

La Dakar in Sudamerica

Ma c’è di più. Qualcuno sostiene che agli africani non piace più così tanto quella processione che passa rombando tutti gli anni davanti alla propria porta di casa. Forse le cose stanno proprio così, o forse no. Fatto sta che gli anni passano e la Parigi-Dakar inevitabilmente smarrisce lo spirito delle origini. Sì, certo, il pericolo, il fascino, l’avventura, i grandi scenari… tutto questo rimane più o meno intatto, ma sulle strade e sulle piste di una terra sempre più povera e dilaniata dalla fame e dalle mille guerre ora passa un circo fatto di grandi parabole, di GPS, di giornalisti al seguito, di sponsor che obbediscono a un modello di business invadente e cialtrone. Gli anni passano e questo rally organizzato dagli europei a qualcuno riporta alla mente i tristi ricordi, mai sopiti, delle colonie, delle guerre per l’indipendenza e dei képi bianchi dei legionari. Ecco allora che in Mauritania, la vigilia di Natale del 2008, quattro turisti francesi vengono brutalmente assassinati da uomini della falange maghrebina di Al Qaeda. Un avvertimento diretto contro il rally, non ci sono dubbi: di lì a qualche giorno, infatti, su quella stessa terra sarebbe infatti passata la carovana. La Parigi-Dakar viene cancellata in fretta e furia e, dall’anno dopo, trasferita in Sudamerica, più precisamente tra Argentina, Cile e Perù. Terre più sicure.

E così dal 2009 niente più deserti africani, tramonti infuocati, notti gelide, distese di dune, vecchi villaggi, mandrie di cammelli e tribù di nomadi. La voglia di avventura estrema, sempre in bilico tra coraggio e incoscienza, ora passa attraverso itinerari ugualmente massacranti, tra distese infinite, pampas sterminate e montagne alte fino al cielo. Anche qui ci sono la sabbia, le asperità, i pericoli e gli imprevisti. I piloti fanno a gara per iscriversi. La gente continua a seguire il raid con intatto entusiasmo. Sponsor e media non fanno mancare il loro appoggio.

Eppure… eppure si fa fatica a non avvertire il peso di una perdita irrimediabile. Certo, la parola Dakar è rimasta (“Rally Dakar” è ora il nome ufficiale della corsa), ma chissà cosa avrebbe detto Thierry Sabine di questo cambiamento così radicale. Forse avrebbe accettato la cosa in nome del business e della sicurezza. O forse no. Forse non avrebbe avuto il coraggio di seguire oltre oceano quella rumorosa carovana che aveva messo in piedi dopo tre giorni e tre notti a strofinare un gri-gri di cuoio. Forse avrebbe lasciato morire la sua creatura. Forse.

Ciò che è sicuro è che lui, l’Africa, non ha più voluto abbandonarla. Nemmeno da morto.

Fonte: www.storiedisport.it

Testi: Marco Della Croce

La Dakar vista dall’obiettivo di Gigi Soldano

Se siamo qui a celebrare una corsa diventata mito, parte fondamentale di questi meriti sono senza dubbio dei fotografi che hanno immortalato sulle loro pellicole le gesta eroiche di piloti e tecnici.
Uno di questi è italiano, ed è fra i più noti nel suo ambiente. Il suo nome è Gigi Soldano. Vi proponiamo una sua intervista rilasciata a Giovanni Zamagni e pubblicata sul sito moto.it nel 2010.

Se Valentino Rossi è il punto di riferimento tra i piloti del motomondiale (e non solo), Gigi Soldano lo è tra i fotografi. Un autentico fuoriclasse: non esiste foto che Gigi non abbia fatto, in pista come nei box. Ma Soldano ha fatto la storia anche della Dakar, avendone “disputate” da fotografo 21, la prima nel 1984.
Come tutti quelli che hanno passato molto tempo in Africa, anche Soldano ama la Dakar, al di là del lavoro e della sua professione.
Così, dopo aver scritto la mia opinione, sintetizzata nel titolo “Odio la Dakar”, ho scambiato quattro chiacchiere con Gigi, per far conoscere il suo punto di vista e per provare a capire qualcosa di più di questa competizione.

“Sicuramente si tratta di una corsa particolare – spiega il fotografo lombardo – un’evasione dal quotidiano, una sfida che mi ha permesso di fare al meglio quello che più mi piace (le foto, ndr), in un territorio unico come quello africano. Adesso è sicuramente un po’ diverso, ma ancora oggi un viaggio in Africa rappresenta qualcosa di particolare e affascinante. E la Dakar ti permette di entrare a contatto con le persone in un modo molto speciale”.

Soldano spiega come è cambiata la gara vera e propria in questi anni.
“All’inizio lo spirito era quasi esclusivamente goliardico, poi si è trasformata in una competizione vera e propria a tutti gli effetti. Sono arrivate le Case e i piloti ufficiali, si è un po’ perso il senso originale”.

La mia teoria sulla Dakar, come ho già avuto modo di scrivere, è che la gara non ha più alcun senso, perché la navigazione, di fatto, non esiste più e ormai si viaggia esclusivamente con il gas spalancato dal primo all’ultimo chilometro. Così, i pericoli sono aumentati a dismisura, con conseguenze sempre più drammatiche. Per tutto questo, odio la Dakar.Ecco invece l’opinione di Gigi.

“Non la penso come te, anche se è chiaro che è cambiato completamente il senso di questa gara, trasformata in un qualcosa di commerciale e istituzionale come tutte le altre. Tutto quello che una volta era “mitico” e inimmaginabile, è diventato realtà di tutti i giorni con i media, i cellulari, le trasmissioni satellitari. E’ vero però che l’arrivo dei prototipi, le grandi bicilindriche, prima BMW, poi Cagiva, quindi Honda e Yamaha, ha stravolto il modo di correre e adesso in mezzo al deserto si va sempre alla massima velocità. La gara, anche per l’esigenza di esplorare posti nuovi, è diventata più pericolosa. Credo che l’anno prossimo si farà un passo indietro e, per quel che so, al 50% si tornerà in Africa”.

Gigi è amico di moltissimi piloti, grandi campioni come Edi Orioli che hanno fatto la storia della Dakar.
“Sono tutti innamorati di questa gara e l’esempio migliore viene quest’anno da Franco Picco, che per festeggiare i 25 anni di Africa è voluto tornare alla Dakar, a 54 anni, con una moto Marathon, quindi di serie, arrivando 23esimo assoluto e vincendo la sua categoria”.

Soldano ammette che qualcosa andrebbe rivisto.
“Dal punto di vista umano, la Dakar non ha paragoni, ma dal punto di vista sportivo qualche dubbio c’è: i ritmi sono troppo elevati, bisognerebbe avere tempi più tranquilli, dare maggiore spazio ai privati e correre con moto praticamente di serie”.

Gigi ci spiega come un fotografo vive una gara così lunga e articolata.
“Bisogna riuscire a seguirla da dentro, come un qualsiasi concorrente: di fatto è come se tu partecipassi alla gara. Ricordo un anno che Orioli (nel 1997, ndr) non aveva partecipato alla Dakar e veniva con me in auto: quando fu finita, mi confessò di non aver mai fatto così tanta fatica! Ed è inevitabile che sia così, perché come fotografo devi anticipare i concorrenti, quindi praticamente non dormi mai di notte, devi “indovinare” dove passano i piloti, perché hai una sola possibilità e non continui passaggi come avviene in autodromo”.

Intervista di Giovanni Zamagni
http://www.moto.it/sport/gigi-soldano-racconta-sua-dakar.html

Dodici privati di lusso alla Dakar 1992

Non bastavano quattro piloti ufficiali, assieme a loro la BYRD portò in Africa altri dodici piloti privati che con una cifra decisamente ragionevole potettero godere di un’assistenza quasi ufficiale. Un’iniziativa promozionale che richiese un notevole impegno, ma che riscosse anche grandi consensi: 32.000.000 di lire per l’acquisto di una Yamaha XTZ 660 già preparata per correre nella categoria marathon, abbigliamento da gara e da riposo, trasporto di moto e pilota a Parigi per la partenza e soprattutto trasporto dei ricambi ed assistenza meccanica in corsa, con la possibilità di avere sponsor personali.

Giuseppe Viziale, l’ex pilota cui fu stata affidata la responsabilità dell’operazione, si mostrò molto fiducioso, ed in effetti la formula venne già in passato sperimentata con successo da diverse Case: consentiva di ridurre le cifre ed allo stesso tempo godere di un’assistenza adeguata, fondamentale in una gara del genere. I ricambi viaggiavano su due camion, un Unimog ed un Liaz, ed in più c’erano anche alcuni meccanici aviotrasportati diretti dall’ing. Adriano Magherini. Vale la pena di ricordare che è proprio con un’iniziativa simile che due anni fa la Honda vinse la categoria marathon, con lo spagnolo Toni Boluda.
Questi i 12 piloti e il loro numero di gara:
53 Emanuele Cristanelli
54 Antonio Mori
55 Ettore Petrini
56 Fabrizio Meoni – Passò dall’enduro ai rally nell’89, e si mise subito in bella evidenza. Per lui le corse erano un hobby, praticato ad alto livello. Partecipò all’Incas due volte, ed una al Tunisia, mentre nel ’91 disputò, Baja 1000, Titano e Faraoni.
57 Luciano Carcheri
58 Samuele Landi
59 Massimo Marmiroli
60 Fabio Marcaccini – Essere soprannominato “l’uomo di Agadez” non bastò più all’ex velocista romagnolo, che due anni prima finì sui giornali di mezzo mondo per aver guidato un buon tratto della tappa che decise poi la Dakar ’90. Per puntare più in alto, decise di abbandonare la categoria prototipi, dove correva con moto costruite da lui e dall’amico-compagno di team Massimo Montebelli, e di mettersi alla prova nella marathon, dove non dovrà soffrire la concorrenza degli ufficiali. Ottima esperienza, tenacia e abilità nell’orientamento: una buona base su cui cercare di costruire qualcosa di buono.
61 Massimo Montebelli – Compagno di squadra di Marcaccini nel Wild Team, scelse come lui di correre nella marathon, e la formula BYRD potrebbe consentirgli di gareggiare più tranquillamente di quand’era privato. Supportato da un fisico erculeo, il romagnolo si è sempre dimostrato uno dei privati più veloci e due anni fa ottenne il successo nella classifica amatori.
64 Heinz Kinigadner – Due volte campione mondiale di cross 250 nell’84 e nell’85, il simpaticissimo austriaco ha abbandonato la serie iridata non le corse: trasferitosi ad Ibiza partecipò ai campionati spagnoli di rally e di enduro, che vinse vinto più volte. Deciso a tentare l’avventura della Paris-Le Cap, avrebbe voluto coinvolgere ufficialmente la BMW con l’appoggio dello sponsor Camel, ma l’operazione non andatò in porto.«Kini» comunque non si diede per vinto e con l’appoggio di Yamaha Austria aderì al progetto BYRD. Sulle sue doti velocistiche non si discute, sulla sua grinta nemmeno.
63 Jeremy Davies
62 JMN Claude Morellet “Fenuil”“Corro per il piacere di farlo, se avessi cercato i soldi avrei gareggiato come navigatore per Citroen o Mitsubishi”. Una spiegazione che non fece una grinza, quella dell’organizzatore del Rally dei Faraoni, che aveva alle spalle 7 Dakar in moto (un terzo posto il miglior piazzamento) e 3 in auto, come navigatore, tutte disputate nelle posizioni di testa. Fu il primo ad attraversare il Sahara in moto in solitario, nel ’74, ed in Africa colse diverse soddisfazioni. Ma a 46 anni non aveva ancora voglia di smettere: l’avventura non ha età.

Fonte motosprint

La Dakar dei privati – Honda Africa Twin Marathon

In molti ci hanno chiesto di parlare di quegli eroici privati che alla fine degli anni ’80 parteciparono alla Dakar su delle Honda Africa Twin poco più che di serie. Abbiamo chiesto a Gianpaolo Banelli di www.nightwings.org di raccontarci qualcosa di più.

Alla fine degli anni ’80 era possibile correre la Dakar nella categoria « Marathon » con moto derivate dalla serie e adattate alla gara. Per questa ragione, e anche per sopperire in qualche modo al prossimo ritiro delle Honda ufficiali dai Rally (dopo 4 vittorie alla Dakar), in occasione della edizione ’89 Honda France, tramite il direttore Jean Louis Guillot, lanciò nell’autunno ’88 l’operazione “50 Africa Twin a Dakar”. Venne fatta una prima selezione tra 150 candidati e ne vennero scelti 50 a cui furono affidati altrettanti esemplari di Africa Twin 650 particolarmente curate per poter correre nella categoria « Marathon ».

Nel frattempo venne preparata la moto, una Honda RD03 650 già quasi definitiva fece un’ottima figura al Pharaons Rallye 1988 nelle mani di Joel Daures (che aveva corso l’ultima Dakar con la NXR ufficiale). 49 moto partirono quindi per la 11a Dakar; l’alsaziano Heintz vide infatti la sua partecipazione annullata qualche giorno prima della partenza, quando moto ed equipaggiamento Honda France erano gia stati acquistati, perché le autorità libiche non accettarono il suo ingresso nel paese in quanto appartenente all’esercito francese.Tra i partenti anche una giovanissima francesina, Maryline Lacombe, ma anche un Italiano (Roberto Boano) e alcuni piloti di altre nazionalità (Spagna, Inghilterra, Senegal).

I numeri di serie di queste 50 moto cominciavano per 5 come sulle RD03 standard (da qui la necessità di essere dei veri conoscitori del mezzo per riconoscere le vere Marathon dai falsi e tarocchi).Normalmente per la Dakar un certo numero di parti della moto venivano punzonate e numerate con lo stesso numero di gara del pilota, per evitare che venissero impiegati ricambi non autorizzati, questo dovrebbe aiutare.L’operazione ebbe un certo successo: 18 AT conclusero la gara e Patrice Toussaint (16° assoluto) e Patrick Sireyjol (appena dietro di lui) finirono ai primi due posti della classe Marathon, con il nostro Roberto Boano 4° di categoria.

L’anno seguente, per la 12a edizione della Dakar, furono quindi allestite altre 50 moto, leggermente diverse dalla serie precedente, contrassegnate da un numero di telaio differente che inizia infatti per 6 (da 600001 a 600050). Una ventina di esemplari vennero consegnati in Francia mentre gli altri vennero destinati ad altri paesi, almeno 3 in Spagna. Solo una quindicina di queste moto raggiunse l’Italia, a metà novembre ’89 e quindi per molti troppo tardi per iscriversi al rally.Almeno una venne comunque portata in gara all’ultimo momento da Ermanno Bonacini (49° assoluto alla Dakar 89 con una Yamaha) che però corse poche tappe per poi incappare in una grave caduta, che lo costrinse a un ricovero immediato in ospedale e a lasciare il mezzo in Libia (dove è stato visto anni fa da alcuni turisti!).

Lo Spagnolo Antonio “Toni” Boluda, si comportò benissimo, risultando 18° assoluto nella Dakar ’90 e vincitore della categoria Marathon. Andrea Mazzali corse il Faraoni del ’90 con una di queste moto, affidatagli direttamente da Carlo Fiorani, allora responsabile della HRC (a cui è ritornato per un po’ dopo l’esperienza Ferrari). Nel ’90 furono costruiti anche pochissimi esemplari (sembra solo 8) di « Marathon » 750 che però durante la Dakar ’91 furono “risistemate” nella classe Silhouette, perché avevano un unico disco freno anteriore anziché 2! Ottima però la prestazione di Boluda e Boano, rispettivamente 10° e 11° nell’assoluta e alle spalle del nostro Luigino Medardo tra le Silhouette! Nella 13a Dakar corsero però ancora alcune RD03 Marathon, tra cui quella affidata sempre da Fiorani a Bonacini, ripresosi dal brutto incidente dell’anno prima grazie anche alle cure del Dott. Costa, quelle dei nostri Paladini e Nassi, e un’altra dozzina, di cui purtroppo solo quella di Sireyjol arrivò fino alla fine.

(foto in alto: Sylvain Richet e Gerard Filiat e le loro Africa Twin)
Foto e testi forniti da Gianpaolo Banelli
www.nightwings.org/Marathon/Marathon-home.html
www.facebook.com/groups/10150154904180347/

Camel Marathon Bike: Intervista a Beppe Gualini

Amici Dakariani, ci perdonerete l’off topic (fuori tema), ma quando Federico Fantini ci ha inviato le foto della sua Honda Dominator e ci ha permesso di intervistare il grande Beppe Gualini, abbiamo pensato che anche se non strettamente inerente la Parigi Dakar, questo argomento avrebbe solleticato la fantasia di molti di voi.

Intanto ciao Beppe da parte di tutti i lettori del sito, vuoi spiegare ai nostri amici cosa era il Camel Marathon Bike Honda?
Il Camel Marathon Bike è nato in Italia da una mia idea condivisa con il responsabile stampa della Camel Italia Francesco Rapisarda. Avendo fatto la Dakar ed il Camel Trophy l’idea è stata semplice: perché non fare un Camel Trophy con le moto? Presentato il progetto alla Camel Italia ed approvato con il nome Camel Marathon Bike, non potendo usare Camel Trophy. Trovato l’appoggio tecnico di Honda Italia con Carlo Fiorani.

Quante edizioni sono state svolte e dove?
Usata la stessa metodologia del Camel Trophy, reclutamento tramite schede di curriculum e vere e proprie selezioni con guida, orientamento, fisiche, group-task…
La prima edizione ’87 è stata di prova e l’equipaggio vincente tra cui c’era Livio Suppo è andato in California ed hanno fatto un tratto della Baja.
La seconda edizione ’88 invece è stata una vera spedizione di gruppo con prove speciali e classifica finale con vincitori; si è svolta in Zaire dove hanno partecipato due equipaggi italiani e due spagnoli. La terza edizione ’89 è stata fatta in Perù sempre con partecipanti Italiani e Spagnoli.

All’epoca qual era il tuo ruolo?
Il progetto era tutto sotto la mia responsabilità tecnica, scegliere il paese, fare lo scouting, organizzare le prove e durante l’evento fare da apripista, direttore tecnico dell’evento coordinando tutto lo staff che seguiva il convoglio.

Per quei pochi che non ti conoscono, vuoi dire qual è la tua esperienza nell’offroad, a quante Dakar hai partecipato?
Sono stato uno dei primi a fare i rally africani allora sconosciuti, ho iniziato nell’82 con il primo Rally dei Faraoni, perché la Dakar pr me era inavvicinabile per problemi economici. L’unica casa che mi ha dato una mano è stata la Fantic con una 125 RSX di serie!
Ho fatto 65 rally africani in moto, è un record non ancora battuto, anche se personalmente i record non sono di mio interesse, tra cui 10 Parigi- Dakar, Rally dei Faraoni, Rally dell’Atlas, Rally di Tunisia, Incas Rally, Rally d’Islanda, Djerba 500… Ho passato tutta la mia vita fuoristrada, integrata anche con le 4 ruote avendo partecipato al Camel Trophy nell’85 con la Land Rover ed entrando poi nello staff internazionale che costruiva poi i Camel Trophy. Alternavo le gare in moto con le spedizioni estreme del Camel Trophy. Avventura totale senza respiro!

Le moto in cosa differivano dal modello di serie?
Le moto erano preparate da Honda Italia e non avevano una preparazione specifica,tranne che su motore e sospensioni,compresa la colorazione e dei pneumatici tecnici off- road, erano moto leggere, agili e con un bel motore, l’ideale per il tipo di manifestazione, oltretutto Honda aveva interesse a spingere la moto di serie.

Qualche pilota che si è distinto nel CMBH ha poi avuto successo anche nelle competizioni rally raid?
Nessun pilota che ha partecipato al Camel Marathon Bike ha poi continuato nei rally raid.

Come mai non si è più corsa questa competizione?
Il Camel Marathon Bike ha avuto un tale successo ed il progetto era di coinvolgere sempre più paesi e la Francia stava entrando quando Camel International improvvisamente ha ritenuto che il successo ottenuto dall’evento andava a contrapporsi al Camel Trophy e quindi è stato congelato! Follia!

Chi ricordi con più affetto e qualche aneddoto curioso?
Un fatto che ricordo con particolare soddisfazione è avvenuto in Perù, durante la ricognizione, in moto ero da solo e sono arrivato in un villaggio Choquecancha dove il tempo si era fermato, non c’era luce, acqua, i campesinos vivevano in case di pietra e fango con tetti di paglia. Parlando con loro venni a conoscenza che avevano necessità di una “speciale valvola” per cercare di far arrivare l’acqua al villaggio tramite un canale fatto in pietra che veniva dalla montagna. Mi impegnai a trovarlo andai a Lima a recuperarlo e lo portai al sindaco del paese.
Al mio ritorno con l’evento, il paese aveva l’acqua , mi fecero una festa incredibile con canti e balli e mi hanno dedicato il loro campo da calcio “Estadio Beppe Gualini”, custodisco ancora il documento originale consegnatomi ufficialmente dal sindaco!

Ringraziamo Beppe Gualini per l’intervista concessa e Federico Fantini di FOX Italia, che ci ha messo a disposizione le foto della Honda Dominator Camel Marathon Bike.