1986-2021 | Sono passati 35 anni dall’addio di Sabine

L’elicottero glielo invidiavamo tutti. Lo sentivano arrivare da lontano mentre noi si arrancava sulla pista. Buche, salti, polvere. Soprattutto polvere. Quell’impalpabile fech fech attraverso il quale non solo non si vede, ma neanche si respira. Lui passava e dalla pancia dell’Ecureil dell’Aerospatiale una scritta a caratteri giganti sparava: Thierry Sabine.

Non era possibile confonderlo. Sia fosse stato il biondo, magro, simpatico Francois Xavier Bagnoult a guidarlo che lui stesso, volava bassissimo. Sfiorava le piste divertendosi, a volte a prenderci di mira. Se ti voleva fermare per qualsiasi motivo, lo faceva sfrecciandoti sul tetto e piazzandosi poi più avanti librato nell’aria. Gli altri elicotteri volavano più alti, pronti ad intervenire in caso di incidente, ma lui era il cane pastore di un gregge sparso, a volte, per un migliaio di chilometri.

Se lo vedevi alzarsi sulla verticale potevi immaginarlo con lo sguardo fisso lontano su un punto all’orizzonte. Magari decine di nuvolette di sabbia disseminate nel deserto che lui avrebbe cacciato, riunito, guidato. Se non erano bestemmie quelle che gli volavano incontro, certo, non si trattava di complimenti.

 

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Ed il sentimento che tutti provavano per lui in quei momenti era identico: odio; ma anche amore per ciò che riusciva a fare; spingerti dove, da solo, non saresti mai andato.
Neanche pagato a nessun prezzo. Ce lo confidavamo la notte, al bivacco, pelle poche ore concesse per il sonno prima dell’immancabile “briefing” delle sei, quando sarebbe riapparso, inappuntabile, sornione, istrione ad arringare il rally: alla Parigi-Dakar noi tutti giornalisti, fotografi, piloti, meccanici saremmo andati anche gratis.

E dietro a lui eravamo pronti a correre per un mese di fila. Finché Thierry si fosse presentato all’alba per darci le notizie sulla prossima tappa non ci avrebbe mai lasciato indietro. Non gli perdonavamo solo l’elicottero. Quell’aggeggio che sfotteva tenendolo lontano dalla polvere. Lontano inavvicinabile, come qualsiasi Dio che si rispetti. e per
questo motivo ad ogni fine “Dakar” lo punivamo, noi reduci, sulla spiaggia che da Sali Portudal porta alla capitale del Senegal: volava immancabilmente in acqua appena sceso dal suo elicottero.

1465160_10202535770305607_1163106290_nOrmai era un rito ed una tradizione insieme. Ma in quel momento parlava anche la voglia di una seppur parziale vendetta che lo avrebbe purgato di quel suo sbeffeggiarci dai cieli. Una purificazione che gli permetteva, ad ogni 22 gennaio dell’anno, di uscire dal suo ruolo di carnefice delle sabbie per ridiventare, il 1 gennaio dell’anno successivo, il generale di un esercito che per tre settimane non si sarebbe fermato se non dietro suo ordine.

Un ordine che lui, comunque, non avrebbe mai dato. Neutralizzare una tappa si poteva, era una maniera di rallentare la gara quando la tempesta di sabbia sbandava la carovana e costringeva i piloti al riparo, sottovento, delle proprie auto o moto, ma fermare la corsa mai. Non era proprio nella sua mentalità. II bello, il duro, il bestiale della Dakar è che il rally sarebbe comunque continuato, nonostante tutto.

Era l’unica certezza di una corsa altrimenti imponderabile. E anche il punto fermo di Sabine la cui ostinazione nel tentare di pareggiare in conti fra privati ed ufficiali si esprimeva principalmente nel rendere il raid più duro. Anno dopo anno, come se ciò potesse aiutare i1000370_10202535774785719_1168520339_n gentleman della corsa, invece di penalizzarli ulteriormente.

Ma questa era sopratutto la sua fissazione: l’uomo doveva prevalere sui mezzi, per cui negli ultimi tempi le tappe percorse con il solo aiuto della bussola erano aumentate. Dapprima c’era stato il solo Ténéré. Poi era stata la volta della Mauritania. Quest’anno addirittura Thierry scovava l’infernale Bilma-Agadem con i suoi 75 cordoni di dune e, non contento, riesumava anche la Guinea.

Al momento del tragico schianto, in cui oltre a Sabine hanno perso la vita altre quattro persone, tutto era al limite alla Dakar. Probabilmente anche lui stesso. Non erano solo i mezzi in gara ad essere provati, né solo i piloti, ma anche la sua organizzazione, e certamente Thierry Sabine “Le Magnifique”, “Jesus”, l’uomo dai molti soprannomi non si risparmiava.

Viaggiava in elFRANCE-SOIR N° 12.885 DU MERCREDI 15 JANVIER 1986icottero, è vero, ma era la sua voce un po’ stridula, metallica all’uscita del megafono che ti svegliava ogni mattina alle 6 per il “briefing”. Tu potevi avere ancora la polvere agli angoli degli occhi, sentirti stralunato, lui non lo sarebbe stato. Il suo trono mattutino era la sponda di uno dei camion dell’Africatours, e man mano che la gara proseguiva, e sempre di meno erano i concorrenti, più il discorso diveniva un motteggiare fra amici.

Un botta e risposta con i concorrenti sul filo di un umorismo sottile, tutto suo, tipicamente francese. Intraducibile. Ed introdotto, anche se ormai da due anni Thierry andava ripetendo che avrebbe ripetuto il briefing anche in inglese. Lo aveva accennato anche quest’anno, sul Tepasa, la nave che porta da Sete ad Algeri, ma nessuno gli aveva creduto.

Poi lui stesso, più tardi, vedendo Hubert Auriol parlare con un gruppo di giornalisti nella lingua di Albione gli aveva confidato: “Ma come fai? A me proprio non riesce”.
Una debolezza quella di non parlare le lingue. Se ne vergognava. Ma anche una cosa incredibile che il rally, nato come un avvenimento francese, fosse riuscito così relativamente in fretta ad espandersi, farsi conoscere come l’unica, l’ultima avventura degli anni 80′. Una cosa che la gente amava. La gente della strada, non solo i piloti. Chissà se gli sopravviverà.

Testo di Paolo Scalera
Tratto da “Dakar-Dakar 2”