Dakar 1998, Sala e Meoni e i piccoli gesti che resteranno nella storia

Sono in molti a chiedermi della “pacca” sul casco di Meoni in un video della Dakar.
Niente di che, solo che con Fabrizio avevo raggiunto un grande feeling e quindi potevo “permettermi” di fare una cosa del genere.
Il feeling è nato e cresciuto nel corso degli anni, a partire dalla mia prima Dakar nel 1998, quando in un ultimo dell’anno a Parigi, a poche ore dalla partenza, mi chiedeva se eravamo normali a stare nella stanza dell’hotel davanti alla TV guardando cartoni animati, quando fuori tutti erano di festa. Scoppiai a ridere e cominciammo a parlare di Dakar e mi rivelò alcune malizie per affrontare meglio la gara.
Sempre insieme nei trasferimenti, ore e ore in sella, e spesso con la pioggia, (non si vede l’ora di arrivare in Africa), condividendo i pochi minuti di sosta ai punti ristoro. “Vietata” la consumazione quando ci si fermava per fare benzina, mi diceva che alla Dakar non si deve perdere tempo e all’assistenza si deve arrivare il prima possibile, “ricordatelo bene!”.
In società al bivacco era un grande, saluti e consigli per tutti, olio toscano sempre in “tavola” nella sabbia del bivacco, e chiederne un po’ gli faceva girare le palle, aveva nella cassa la quantità giusta per i giorni di gara, ma poi te lo offriva volentieri. Ti chiedeva poi un parere, credente e attivo come sempre, tutti sappiamo della sua missione a Dakar.

Parlando della città di Dakar, quando nel 2001 vinse per la prima volta la gara, alla cena/festa lo obbligai a “ubriacarsi”. Non potevo vedere Fabrizio brindare con Coca Cola tutta la sera mentre lo staff KTM, al contrario, brindava alla sua vittoria con vino e birra, così gli imposi di bere almeno tre bicchieri di vino nel corso della serata, mi rispose: “e che ci vuole?”. Uno due tre in fila… in meno di mezz’ora avevamo un Meoni in forma strepitosa, che parlava austriaco come il toscano.

Strategico e combattivo proprio come un “Cinghiale”, e così lo chiamavano, sapeva aggredire speciali con forza e irruenza, ma sapeva anche passare “senza lasciare traccia”.

Infatti, fu la strategia che gli permise di vincere con la bicilindrica LC8, in una tappa dove si doveva passare su un Wait Point, situato in cima a una ripida falesia, (quella che Roma cercò di salire ma poi cadde e andò in crisi). Fabrizio con un rapido e astuto ragionamento di CAP (i gradi della bussola), capì che Roma ed io, che partivamo davanti a lui, stavamo sulla pista sbagliata, così uscì dalla pista per non lasciare tracce e, tagliando in fuori pista per alcune centinaia di metri, imboccò la pista giusta che portava in cima alla falesia. Fu così l’unico a trovare in breve tempo la direzione mentre noi tutti “pascolavamo” alla ricerca della pista, chiedendoci dove fosse finito Meoni. Il distacco acquisito gli permise di vincere la sua seconda Dakar con una moto – credetemi ve lo assicuro – veramente impegnativa, la LC8.

Oltre alle gare ho condiviso con Fabrizio anche tantissime settimane di test. In queste occasioni si consumavano giorni e notti condividendo la stanza, scoprendo le varie abitudini, le manie, i gusti, i programmi televisivi più amati, le preferenze alimentari, oltre allo stare in sella fianco a fianco negli odiosi Chott di sabbia soffice per chilometri e chilometri per testare l’affidabilità dei motori in condizioni estreme. Arrivò a percorrere 1.007 chilometri in un giorno su un anello di 38 km, (io ne feci 150 meno). Anche lo sviluppo della LC8 fu molto interessante perché era una moto tutta nuova e Fabrizio mi sorprese con la sua sensibilità quando capì che la posizione delle pedane andava cambiata per far sì che la moto non si avvitasse.
Finiti i test, ci allenavamo in palestra, in piscina e correndo, ma con lui era impossibile, troppo allenato, persino il preparatissimo Arnaldo Nicoli ne sa qualcosa.
Inoltro ricordo le risate alle Battle of King, memorabile quella di Ibiza. Ci fu la manche con i Jet Ski da Ibiza a Formentera, Fabrizio ed io, “Vecchi Lupi di Mare”, scegliemmo il modello della moto d’acqua sbagliata per il mare aperto e arrivammo alla fine così stremati che sembravamo due naufraghi.

Potrei raccontarvi ancora tante storie, ma non voglio annoiarvi, e così vi spiego il perché del famoso “schiaffo” sul casco.
Era la Dakar del 1998 ed eravamo in Mali, nella tappa che portava da Taudenni a Gao dove per sicurezza, visto il chilometraggio, fu annullata la speciale che divenne un trasferimento di oltre 1000 chilometri. Come dicevo prima, “lui in Africa, voleva arrivare presto al bivacco”, così si mise a guidare quasi come fosse in speciale ed io, da buon portant d’eau, dovevo stare con lui, ma intorno al km 800 iniziavo ad averne un po’ le palle piene di tenere un ritmo del genere, così mi avvicinai e gli diedi il famoso “schiaffetto” per richiamare la sua attenzione e avvertire che avremmo anche potuto rallentare per qualche chilometro, visto che non mi pareva tardissimo, ma lui non abbassò più di tanto il ritmo. Aveva ragione perché, nonostante fossimo tra i primi ad arrivare all’assistenza, era calata la notte da diverse ore, in quanto gli ultimi 150 chilometri si snodavano tra un intreccio di piste nel Fesh Fesh che, affrontate con le luci dei fari, risultò molto complicato guidare mantenendo il giusto CAP e l’equilibrio.
Chi lo ha provato sa cosa vuol dire.

Purtroppo la sua gara prediletta gli ha tolto la vita, lasciando una profonda tristezza a Elena, Gioele e Chiara, come a tutti noi, ma lo ricorderemo sempre per la sua simpatia e disponibilità da grande campione e persona quale era.

Giovanni Sala

Tratto da Endurista Magazine nr.42