DAKAR 1988 | “Ma quello non è un tuareg!”

Tratto da: Gazzetta dello Sport 16 gennaio 1988
Testo di: Testo: Enrico Minazzi

TESSALIT (Mali) — II doganiere del Niger, basco verde in testa identico a quello delle nostre Fiamme Gialle, aveva appena finito di chiedere il rituale “cadeaux, monsieur” (regali, signore) nel più puro stile locale. Camicie (anche sporche ed usate), pantaloni sdruciti, adesivi, cappellini. Tutto va bene per accellerare le operazioni di dogana e guadagnare in fretta l’uscita dell’aeroporto dove si è poi assaliti da una moltitudine di indigeni e di bambini che ti offrono servizi e oggetti di ogni genere dell’artigianato locale.

Vestito da indigeno, vende souvenir ma è Claudio Torri, pilota italiano desaparecido

Alcuni sono talmente lesti nel portare le tue borse che se non li segui come uno 007 finisce che ti ritrovi al bivacco senza tenda e sacco a pelo. Ma anche questo fa parte del gioco della «Dakar». Dopo qualche giorno d’Africa questi personaggi diventano parte integrante dell’ambiente. Cosi, l’altro giorno, all’arrivo a Niamey pochi hanno fatto caso a un tipo vestito d’azzurro che, con un uccellaccio montato su uno strano supporto di legno, recitavaIMG_0836 «cadeaux, cadeaux, monsieur. Solo quando dall’uscita è transitato Serafino Valsecchi, meccanico della Guzzi a Mandello Lario, la comitiva italiana si è accorta che quel tipo vestito d’azzurro, in puro stile tuareg, non era un indigeno ma il trentasettenne bergamasco Claudio Torri.

Perché parliamo di lui? Semplice: sprofondato nella sabbia della prima speciale che da El Oued portava ad Massi Messaud del pilota lombardo si erano perse completamente le tracce. Il suo meccanico, che lo seguiva con le truppe avio-trasportate della Dakar, lo aveva invano cercato nelle classifiche, ai bivacchi, ai posti dí ristoro dell’Africatours e presso gli aerei dell’organizzazione. Per una settimana intera aveva cercato vanamente di sapere dove fosse finito il suo assistito. Poi si era quasi rassegnato: le ore e i giorni passavano e di Torri si sapeva solo che era entrato nella lista dei ritirati fin dalla prima speciale.

Insomma il buio più totale. Ora la preoccupazione accumulata in giornate trascorse ad arrovellarsi il cervello per la preoccupazione era tutto ad un tratto svanita. Un lungo abbraccio, una risata che ha attirato l’attenzione dei doganieri nigeriani ed ecco che Torri è ricomparso all’orizzonte della «Dakar•, così come vi era sparito. “Ho avuto subito problemi stupidi alla moto perché sono uno stupido — ha spiegato il bergamasco problemi che mi hanno frenato: la ruota posteriore rotta, mi sono saltati i raggi, e poi la frizione k.o. al chilometro 183 della mia Dakar ’88 hanno finito col mettermi al tappeto. Nel bel mezzo del deserto, insabbiato sulle dune”.

Torri, bergamasco che dice di fare l’architetto, era l’unico concorrente al via della «Dakar» con una moto Guzzi, una 750 bicilindrica prototipo realizzata nelle officine di Mandello sotto la consulenza diretta del pilota-amateur. Una moto che aveva incuriosito la platea italiana fin dalla partenza di Lacchiarella dove sull’elenco degli iscritti figurava: numero 66, Claudio Torri, Moto Guzzi Tap. Cosa significava quella sigla Tap? Non certo il nome dello sponsor (Tropicana, una bibita) ma più semplicemente «tut a post», vale a dire «tutto a posto» in dialetto lombardo.

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L’Africa e la sabbia poi si sono incaricate di smentire quell’ottimistica sigla: e la povera Guzzi è affondata subito e Torri ha cosi dovuto abbandonare ogni speranza di giungere a Dakar. «Ma non per questo non mi sono divertito — afferma il singolare pilota attorniato da meccanici e concorrenti italiani. — Questa è una corsa che ti fa fare esperienze stupende anche se non arrivi in Senegal. Io ad esempio ho passato tre giorni nella sabbia della prima speciale. E ne ho viste di tutti i colori. Innanzitutto sono transitati due camion-scopa che raccoglievano i ritirati ma non hanno potuto darmi un passaggio. Erano stracarichi di gente che si era ritirata. Sul cassone non c’era proprio posto. Mi hanno detto: “Ripassiamo” e mi hanno lasciato lì una razione di sopravvivenza più un po’ di acqua. E ragazzi miei, ho patito un freddo dell’accidente. Una cosa del genere non l’ho neppure sopportata quando facevo il pastore sulle Prealpi bergamasche».

Tre giorni nella sabbia, un’avventura davvero fuori dal comune, per di più in Algeria, dove gennaio è particolarmente pungente. «Mi sono ritrovato – continua il desaparecido — con un francese piantato in asso dalla sua Toyota. E ne abbiamo viste delle belle. Ad esempio è arrivata una vettura d’assistenza con due ponti rotti. Era una Range: i suoi due piloti si sono accorti che poco distante, insabbiata e con la frizione fuori uso, c’era una vettura analoga abbandonata da un equipaggio belga. Non ci hanno pensato due minuti, sono scesi, han-no smontato i pezzi che a loro servivano dalla vettura trovata, li hanno montati sulla loro e poi? E poi hanno pensato bene d’incendiare la macchina sciacallata e sono ripartiti a gran velocità».

La corsa verso il Senegal, insomma, offre quasi spaccati da codice penale. «E non è tutto! — esclama il bergamasco. — Un altro francese, in gara con una Yamaha, è arrivato col motore a pezzi. Perdeva olio da tutte le parti, non poteva più proseguire; ha aspettato il camion che gli faceva da assistenza, dove aveva caricato tutti i suoi pezzi di ricambio. Avrebbe potuto riparare la sua motocicletta invece ha pensato bene di caricarla sul veicolo che lo aiutava. Poi deve aver pensato che li in giro c’erano troppe moto di concorrenti, ritirati perché non se la sentivano fisicamente di proseguire, gente che aveva abbandonato il proprio mezzo ancora in efficienza. Questo personaggio, barba e baffi, ha tolto la propria targa e i propri numeri di gara, sostituendoli a quelli di una moto Honda.

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“Per una moto… regalata, posso anche tradire la mia amata Yamaha…” mi ha detto ridacchiando, allontanandosi nella sabbia e nella polvere». Fantascienza? Oppure Torri possiede una fantasia molto fervida, galoppante? «No, no, — ci dice il bergamasco — vi assicuro che sono scene che ho visto dal vivo: alla Dakar, scene del genere, capitano ad ogni tappa.. Resta poi da raccontare la singolare avventura che il pilota italiano ha vissuto per raggiungere la capitale del Niger, Niamey, ed uscire dalle sabbie della prima speciale.

«Dopo tre giorni sono finalmente riuscito a salire sul camion-scopa, abbiamo percorso una quarantina di chilometri, incontrando uno di quei giganteschi autocarri che fanno le prospezioni petrolifere, camion 8×8. Ero sul cassone con Fossati e con Consonni, piloti in gara con il Mercedes Unimog che curava l’assistenza della Honda Italia. Siamo scesi dal camion-scopa, preferendo passare su quell’altro mezzo. Un veicolo che marciava al massimo a 10-15 chilometri ora. E non vi dico che avventure: forature, rotture di ingranaggi vari: per recuperare la mia Guzzi Tap, la Range dello spagnolo Canellas e l’Unimog della Honda, abbiamo impiegato tre giorni.

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Quegli algerini, con quel camion vecchissimo, quando arriva la Dakar, interrompono il lavoro per gli statunitensi che cercano il petrolio e si dedicano al recupero dei veicoli abbandonati lungo le piste. Fanno anche buoni affari». Sembra insomma che questa Dakar offra la possibilità di divagazioni o di esperienze anche senza arrivare sulle bianche spiagge del Senegal: «E’ vero — fa il bergamasco — la gara ti offre mille storie, mille spunti. Quei tuareg sono stati davvero simpatici con noi: ci hanno preparato il couscous, hanno cotto il pane nella sabbia, ci hanno dato da bere. E’ stata davvero una bella esperienza. Anche un’impresa. Perché per loro l’interpretazione del tempo è bellissima, soprattutto nei confronti di noi europei che siamo abituati a correre sempre. Qui una simile mentalità non esiste.

E forse, travolto dai piaceri dei ritmi africani, Torri non si è preoccupato di dar segni di vita presso la carovana della Dakar e neppure a casa sua. «Avevo pensato di rimettermi in viaggio con la moto verso Algeri, una volta che l’avessi riparata. Poi ho cambiato idea, e sono venuto qui con l’aereo. La moto l’ho lasciata a Massi Messaud per qualche giorno. Ho avvisato casa? Si, ho telefonato l’altro ieri, ho parlato con mia moglie, poi con mia figlia, che ha appena compiuto sei anni. Ho salutato Valentina. Mi ha detto che sono il solito… scemo». Torri si dilunga a parlare della moglie Sandra, che a suo dire l’anno scorso si sarebbe risentita perché il marito non era partito per la Parigi-Dakar: «Ma voi le capite le donne? Un anno partecipi alla Dakar e ti fanno una testa così perché vieni in Africa; l’anno dopo non ci vieni, e si arrabbiano per il motivo inverso. Quest’anno, comunque, avevo deciso di partecipare. Ed eccomi qui, tra vecchi amici».

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