Dakar 1989 – Torri e il suo ritiro inspiegabile

Testo di Nicolò Bertaccini

I problemi che possono capitare durante una Paris-Dakar sono innumerevoli e di tutti i tipi. Alcuni sono eclatanti, prevedibili ma altri sono difficili da prevedere e diagnosticare. Quello del rifornimento è sempre stato un momento delicato. Ci sono racconti di ogni tipo, travasi fatti con buste della spesa, trattative coi locali, rabbocchi fatti di bicchiere in bicchiere.

E la benzina non era certamente di prima qualità. Alcune volte, per incomprensioni linguistiche o per furbizia, alcuni locali hanno venduto gasolio ai partecipanti, lasciandoli a piedi dopo pochi km. Quello accaduto a Claudio Torri nel 1989 rientra fra i problemi di difficile comprensione e diagnosi. Quelle volte in cui la moto ti pianta, si tacce e non ti fa capire quale sia il problema, come una compagna capricciosa che non voglia rivelare il motivo dell’arrabbiatura.

Torri guida una KTM 620 LC e siamo al termine di una tappa libica, al confine col Niger.

Quando si fa ora di ripartire, al mattino, la moto non risponde. Torri prova una, due, dieci, cento volte ma la moto non accenna ad avviarsi. Nulla. Il bivacco pian piano si sveglia e si prepara ed il Bergamasco è ancora accanito contro l’avviamento della sua moto. Ogni calcio accumula rabbia e nervoso. Ma la moto se ne frega. Immobile. Inerme.

Il bivacco ormai è attivo e non passa inosservato quel privato così frustrato ed accanito contro la monocilindrica austriaca. Gli offrono anche di provare a tirarla con un camion, per aiutarlo a ripartire. Nulla, non serve la forza bruta, la KTM di Torri non ne vuole sapere.

Nessuno ha un’idea, nessuno capisce, nessuno ha un suggerimento che possa far capire come intervenire. Sembra tutto perfetto. Solo che non parte. Non c’è diagnosi, non c’è cura. Torri decide di arrendersi. Se la moto non parte e non si capisce il perchè, inutile insistere. Il mezzo viene così caricato su un camion alla volta di Dakar, dove dovrà essere rimpatriato, da ritirato.

Appena arrivata il meccanico la scarica dal camion, la guarda un’altra volta e poi prova a fare come facciamo noi con gli elettrodomestici: rifacciamo la stessa cosa a distanza di tempo, per vedere se è vero che il tempo aggiusta ogni cosa. Magari non sempre funziona ma quel giorno, in Africa, alla prima mezza pedalata del meccanico la moto è ripartita ed ha ripreso a cantare, come nulla fosse.

Superato lo stupore è arrivata anche la diagnosi: all’ultimo rifornimento la benzina era annacquata come il cocktail di un gioco aperitivo di un villaggio turistico e durante la notte l’acqua era diventata ghiaccio, impedendo al motore di accendersi.

Perchè di notte, alla Dakar, poteva fare molto, molto freddo. Lo sapevate?

Gli ultimi chilometri sono sempre i peggiori

Testo di Nicolò Bertaccini

Tutti i viaggiatori e tutti gli appassionati di moto conoscono l’adagio per cui gli ultimi km sono sempre i più pericolosi. Perchè quando sentiamo aria di casa o di fine la tensione si allenta, le nostre soglie di attenzione si abbassano e contemporaneamente aumenta la percezione di stanchezza. Appena abbassiamo il livello di guardia si fa più pressante la stanchezza accumulata, affiorano i dolori e i traumi.

A quanto pare anche per i partecipanti alla Parigi Dakar gli ultimi km non sono scevri da pericoli e in tanti sono incappati in incidenti proprio durante la tappa sul Lago Rosa.

Fra tutti il più sfortunato è stato sicuramente Giampaolo Marinoni. E’ l’anno 1986, già funestato dalla MARINONI 1986scomparsa di Sabine, padre padrone dell’evento franco-africano. Marinoni sta portando a termine una buona gara, tredicesimo assoluto con la Cagiva, una tappa vinta. Proprio durante l’ultima tappa avviene la caduta che ne determinò la scomparsa. Erano previste due speciali e Marinoni era deciso a portare a termine la gara con una vittoria. Nella seconda delle due speciali parte deciso ma già dopo 20 km cade rovinosamente. Riesce a salire in moto, aiutato dai compagni, e giunge al traguardo. Quel che è accaduto dopo è cronaca, è una sequenza di eventi in cui si mischiano superficialità e poca professionalità che portano il povero Giampaolo a perdere la vita per un’emorragia interna.

Ad altri le cose sono andate meglio. Lo stesso Gio Sala, al termine delle sua prima partecipazione, Gio sala 1998-1incappa nella trappola degli ultimi km. Anche lui ingolosito da un buon risultato di tappa che potrebbe essere le ciliegina sulla torta di una bella prima partecipazione. Purtroppo, galvanizzato e abbagliato dal possibile piazzamento, non si avvede di un terrapieno e vola per qualche decina di metri, perdendo i sensi. Si riprenderà circondato dalle facce di alcuni tuareg che lo fissano. Mestamente tornerà in moto, con la coda fra le gambe, con il fiato sospeso per la paura di aver rotto qualcosa che gli impedisca di arrivare in fondo. Ce la farà, riuscirà a tagliare il traguardo e a non buttare il bel risultato di quella prima partecipazione.

Anche il vulcanico Claudio Terruzzi cade a pochi km dall’arrivo, in una tappa che era stata teterneutralizzata, che non faceva classifica. Un volo pazzesco che gli costa la rottura del naso, una spalla lussata e la perdita momentanea dell’uso delle gambe, conseguenza della caduta della moto proprio sulla schiena. In quei momenti El Teruss si rende conto del rischio corso e giura e spergiura che non guiderà più una moto. Ovviamente, dopo pochi minuti, quando le gambe tornano a funzionare, sale in moto e con naso sanguinante, schiena massacrata e spalla lussata, arriva in fondo. Ma lo sappiamo, assieme ai marinai e ai pescatori i motociclisti sono la categoria più portata a smentirsi.

Anche uno dei Re indiscussi della gara cadde in trappola negli ultimi km. Parliamo di Stephane Peterhansel, uno dei piloti più forti che abbiano mai messo le ruote nel deserto, al termine dell’edizione del 1993 che lo vede vittorioso, finisce a terra rovinosamente distruggendo la sua Yamaha, tanto da arrivare al traguardo senza la sella e costringendolo, forzosamente alla guida in piedi. fino al podio.

Guarda il video della caduta di Peterhansel su facebook al secondo 0:50 cliccando qui.

Questi sono alcuni ma chissà quanti altri si sono dovuti confrontare con la difficoltà degli ultimi km. Quando si sommano km e giorni di corsa quando le emozioni, tenute saldamente fino a quel momento, si sciolgono e lungo tutto il corpo riaffiorano dolori e traumi. In quel momento, quando il cervello pensa di avercela fatta, quando sembra che tutto quello su cui si è riusciti a passare sia abbastanza che si presenta un nuovo e temibile rischio. Per alcuni il prezzo da pagare è stato altissimo, il più alto. Per altri, fortunatamente, è rimasta solo la paura di aver mandato all’aria giorni e km di corsa per una piccola, banale imperfezione a pochi km dalla fine.

Il “ratto bavarese” del 1985

Testo di Nicolò Bertaccini

La Dakar, quella con la D maiuscola, è piena di leggende e storie. Alcuni sono racconti da “pescatori”, ingigantiti, arricchiti e resi mitici dal passaparola e dagli anni. Storie che abbiamo imparato ad amare e che conserviamo come vere. Altri racconti, in genere quelli più incredibili, sono invece reali anche nelle virgole.
Quello che ci è stato raccontato da Claudio Torri (6 Dakar dal 1984 al 1991) è un aneddoto che rientra in quelli realmente accaduti, in quelli che non hanno bisogno di essere colorati e insaporiti per essere immortali.

Parliamo del “Ratto Bavarese”.

L’abbiamo sentito direttamente da Torri durante un pranzo. Quando ce l’ha raccontato il nostro Dakariano aveva gli occhi illuminati, come quelli di un bimbo che ha combinato una marachella ma ne è orgoglioso e cerca comprensione dalla corte, se non uno sconto di pena almeno un po’ di simpatica comprensione. Una luce birbante, da chi a distanza di anni ancora si sente di aver fatto una piccola grande furbata. Esita un po’, prima di tirar fuori dal cassetto della memoria i dettagli ma alla fine si convince. Sorride e ci dice “ormai sarà tutto prescritto”.

Torri è uno di quei piloti che la Dakar l’ha studiata e capita facendola, che è diventato motociclista e meccanico km dopo km, edizione dopo edizione. Ogni anno un po’ di esperienza, qualcosa di nuovo compreso, una modifica da apportare al progetto, una miglioria da intordurre.

In quegli anni il riferimento nella corsa delle moto era BMW che con le sue Gelande-Strasse veleggiava nel deserto.

Torri ha sempre avuto la curiosità e l’inventiva tipica degli abitanti del bel paese e quallo spirito di iniziativa che è nei geni di chi nasce nella Bergamasca. Ha sempre messo in campo tutto il necessario per ottenere il meglio senza mai tirarsi indietro perseguendo le sue idee anche quando sembravano folli, anche quando si sono rivelate sbagliate. Anche questa volta capisce dov’è la soluzione ad un annoso problema che tormentava la sua Moto Guzzi alla Dakar 1984, quello della sospensione posteriore, praticamente inefficace che costringeva ad una costante guida in piedi sulle pedane.

Decide che c’è solo un modo per accorciare i tempi di studio e di sviluppo: copiare dai migliori. In fin dei conti se fanno così i Giapponesi perchè non farlo anche noi, si sarà chiesto. Solo che un’intuizione di questo tipo nella mente eclettica, inventiva e brillante come quella dell’architetto Torri diventa una Mandrakata. E non sarà la prima o l’ultima. La via più semplice per studiare i migliori è procurarsi la moto dei migliori. La BMW. La BMW R80G/S di Gaston Rahier fresca vincitrice della Dakar 1985. La BMW conservata, ovviamente, a Monaco.

Quando sei abituato a risolvere problemi in mezzo al deserto, magari nel cuore della notte, quando sei affamato, stanco e con ancora centinaia di km da percorrere senza sapere neppure con precisione in che direzione, il pensiero che andare in Baviera a prendersi una moto possa essere complesso non ti sfiora. E infatti il nostro non si scompone. Ridotto ai minimi termini il piano presenta due problemi: serve un furgone ed un pretesto.

Trova entrambi e così parte alla volta di Monaco, per farsi prestare la moto di Gaston Rahier dalla BMW. Ok, condediamoci un po’ di tempo per riflettere su quello che abbiamo appena letto: Torri vuole andare a Monaco per chiedere alla BMW la moto dominatrice della Dakar. Fantastico. L’espediente è un evento celebrativo, una sorta di raduno organizzato da un motoclub. Incontro in cui sarebbe bello poter esporre la moto campione.

Chissà, forse perchè pungolati nell’orgoglio teutonico i Tedeschi ci cascano. Mi immagino il buon Torri che arriva col furgone e due corpulenti e baffuti magazzinieri bavaresi che caricano la moto sul furgone blaterando di supremazia meccanica ed ingegneristica tedesca. Ovviamente lungo la strada la moto sarà deviata a Modena per fare una sosta ed essere ammirata. Non da un gruppo di motociclisti ad un raduno ma da Torri e dai suoi che avranno così modo di carpire il segreto di quella sospensione posteriore.

 

Dakar 1997: Peterhansel è di un altro pianeta

É stata un’edizione ancora funestata da un lutto: Jean-Pierre Leduc muore (è la 33esima vittima dal 1979) il 5 gennaio, il secondo giorno di gara nel corso di una speciale particolarmente dura. Il pilota francese, 45 anni, una moglie e un figlio, cadeva in una profonda buca al km 247 della speciale e la sua balise (il dispositivo che segnala un problema e che esclude automaticamente dalla gara) veniva subito accesa dall’equipaggio di un camion arrivato sul luogo dell’incidente. L’elicottero di soccorso atterrava dopo 13 minuti ma i rianimatori potevano solo constatare il decesso del pilota francese.

Il francese Castera su Yamaha si è classificato 3°

Il francese Castera su Yamaha si è classificato 3°

E questo nonostante l’edizione di quest’anno abbia avuto uno spiegamento medico di tutto rispetto: 35 medici, 2 elicotteri per la rianimazione e il pronto soccorso, un aereo ospedale e uno da campo per ogni bivacco. La Dakar di quest’anno ha dovuto combattere anche contro il pubblico che affollava il tracciato. Cosi nella quarta tappa da Nara a Toumbouctou, un percorso pieno di sabbia finissma che costituisce il fesh-fesh, la speciale tra 2° e il 3° controllo veniva cancellata per motivi di sicurezza. E poi c’è stato il cambio di programma in corsa con il percorso modificato a causa degli atti di guerriglia dei ribelli Tuareg che proprio nella zona dell’altopiano dell’Air hanno la loro roccaforte. É stata cosi eliminata la “speciale” in Niger e l’ultimo tratto fino a Agadez è stato fatto sull’asfalto. La “navigazione” promessa da Auriol, il ritorno all’intuito e all’insita capacità d’orientarsi nel deserto, alla ricerca della pista giusta tra le dune, è stata verificata dal GPS,

II Global Position System, il computer che monitorizza le coordinate terrestri per stabilire la rotta dei concorrenti. La gara vera e

Lo spagnolo Gallardo ha portato la Cagiva al 2° posto

Lo spagnolo Gallardo ha portato la Cagiva al 2° posto

propria non ha avuto storia per la prima posizione. Solo la certezza della supremazia di Stéphane Peterhansel e della sua Yamaha XTZ 850 TRX contro lo squadrone KTM e l’inserimento della Cagiva Elefant (in veste privata) dello spagnolo Gallardo. Dopo avere fatto lo scratch nel-le prime 4 giornate di gara spingendo come un matto, il pilota francese si è rilassato andando letteralmente a spasso per il resto della Dakar. Alla fine della corsa ha accumulato più di 2 ore e 30 minuti di vantaggio. Una dimostrazione di forza grazie alla sua bravura (e alla sua 5a vittoria alla maratona africana) e alla affidabilità della sua Yamaha bicilindrica, una vera moto “ufficiale” che si é aggiornata anno dopo anno e che può disporre di una potenza dichiarata di 85 cv, di una velocità massima di 195 kmh e di un un peso di 210 kg.

Mancando Edy Orioli, diventato giornalista per l’occasione a bordo di un fuoristrada della stampa (non ha consolidato l’ingaggio con la Yamaha France e con la KTM, ma ci riproverà l’anno prossimo con la moto) il ruolo di prima guida della squadra italiana è passato di diritto a Fabrizio Meoni. Quest’anno é finalmente diventato un “ufficiale”, ed esattamente nella squadra KTM insieme a Heinz Kinigadner,

La prima KTM al traguardo è quella di Lewis, 4° assoluto

La prima KTM al traguardo è quella di Lewis, 4° assoluto

Thierry Magnaldi e Richard Sainct. Ma già il 2° giorno il nostro pilota toscano volava su una delle numerosissime buche mentre cercava di agguantare Peterhansel. Risultato: frattura del metacarpo, lesione dei legamenti e forzato abbandono dalla gara. Gli altri forti Italiani come Maletti non sono arrivati al traguardo. Onore a Sanna, un sardo determinato, duro e orgoglioso come la sua terra, e primo (22° assoluto) trai nostri piloti.

Tratto da un’articolo su Motociclismo

Edi Orioli, lo stratega

La curiosità dell’ignoto deve scorrergli nel sangue, viste le scelte fatte nella sua lunga carriera agonistica. Ma Orioli-1998-1ciò che emerge prepotentemente dall’elenco, lungo, delle competizioni cui ha partecipato e dei risultati che ha ottenuto, è la capacità strategica. Senza cui il talento può anche non trionfare. Di esperienza ne ha da vendere: in totale ha percorso in Africa, in gara, duecentoventimila chilometri. Ed è forse l’unico ad aver partecipato alle prime undici edizioni della Dakar senza mai ritirarsi e chiudendo quasi sempre tra i primi dieci. Inevitabile quindi parlare del rally più conosciuto al mondo, soprattutto pensando a quel periodo buio del 1998, quando si presentò alla partenza coi colori del team Schalber con una monocilindrica del marchio tedesco. Ma la storia di Edi Orioli è fatta di scelte controcorrente, di razionalità e di passione. Perché nel suo DNA è scritta anche una predilezione per le auto, per la perfezione. Come trent’anni fa preparava minuziosamente ogni singolo dettaglio della sua moto, controllando che anche lo stile, oggi vuole bellezza intorno a sé.

Edi Orioli, da pilota a imprenditore. Come è avvenuto questo passaggio?
“Nella mia storia non è che ci siano passaggi. La mia storia è fatta di tante cose. Sin da bambino avevo la passione delle bici e poi della moto. Andavo in bici per i campi e l’evoluzione è stata prendere il Ciao di mio zio e usarlo in fuoristrada. Tornavo ogni sera con qualche pezzo rotto. Allora mio papà mi prese una Gori 50, la prima e unica moto che mi regalò. Da qui in poi ho iniziato a correre in gare regionali e la mia escalation motociclistica è avvenuta così: ho imparato da solo senza seguire corsi e tecniche particolari. Si vede che ce l’avevo nel sangue. Oltre alle corse, negli anni sono sempre rimasto all’interno dell’azienda di famiglia, la Pratic, una realtà che negli ultimi anni è diventata leader nel suo settore. Vedi, nel 1995 morì mio papà, il capo dell’azienda. lo riuscii a finire comunque la Dakar, era l’edizione del 1996, vincendola, e poi mi riavvicinai all’azienda in cui comunque sono sempre stato. Nel 2007 poi ho smesso tutte le competizioni, anche se le moto fanno sempre parte della mia vita. Ma in modo diverso. Il mondo di eventi e riflettori non mi interessa più molto. Preferisco vivere le mie passioni e i miei momenti privati e usare le moto per lo svago”.

Orioli-1998-4

Quali sono gli highlights della tua vita?
“Certamente la scelta di partecipare ai raid africani. Quello è stato il cambio di rotta nella mia carriera da endurista. Decisi di andare in Africa anche se avevo un ingaggio e avrei dovuto correre con una Honda del team Puch al Rally di Sardegna. Lasciai l’ingaggio e andai a fare una gara in Africa: mi innamorai immediatamente di quel modo di affrontare il fuoristrada. Ebbi un ingaggio con la Honda e da lì partì la mia carriera. Poi ti direi il passaggio alle auto: l’altra mia passione nascosta erano le macchine da rally. Con cui ho corso e anche vinto. Quando correvo la Dakar, la sera mettevo giù la moto e andavo nei tendoni dei team auto. Mi ha sempre affascinato l’auto. E quindi le ultime edizioni della Dakar le ho fatte in auto”.

In Africa ho percorso 220.000 km di gara!

Affrontare e vincere la Dakar ti ha segnato?
“lo non sono uno che se la tira. Ho sempre corso per il piacere di correre. Per farti capire cosa penso delle vittorie della Dakar ti dico cosa mi ha confidato un amico tanto tempo fa: “Edi, tu hai capito come si fa a vincere”. In queste poche parole in effetti mi è sembrata chiara la mia situazione. Capire come si fa a vincere è una cosa sottile, che non puoi raccontare. Sono attimi che seguono una preparazione lunga. Sono attimi di decisione. È strategia. E una volta che la provi sai come riproporla. Solo così ottieni dei risultati. E devo dire che mi manca l’adrenalina di un evento come la Dakar e oggi vado spesso alla ricerca di emozioni del genere. Ad esempio sono appena stato all’Isola di Man per il Tourist Trophy dove ho finalmente respirato l’adrenalina vera. Lì tutto ha un senso: non è un evento, è un rito”.

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Qual è la sfida più dura che tu abbia affrontato?
“Per me il momento impegnativo è stato il passaggio dalla Honda alla Cagiva. Mi ero schiacciato tre vertebre al Rally dei Faraoni e i medici mi avevano dato sei mesi di prognosi. Ma io dovevo correre la Dakar! Il dottor Costa venne da me e iniziai terapie e allenamento. Ho passato tre mesi duri, in cui non mi sono mai rassegnato a non poter partecipare. Ogni giorno facevo magnetoterapia e poi mi allenavo sdraiato su una panca per non caricare la schiena. Alla fine riuscii a partire, non proprio a posto. Non potevo davvero pensare di non esserci alla Dakar, che avevo vinto l’anno prima. Partii e finii la gara tra i primi dieci. Ma fu davvero un momento duro”.

Auto o moto?
“Guarda, ho appena comprato la macchina: una Audi RS6, e godo ogni volta che l’accendo. Come faccio a risponderti “moto”? Nonostante tutto quello che fatto sulle due ruote io amo le auto. E poi mi piace il bello: come nella mia tecnica di preparazione. Quando dovevo partire ero preciso: tutto doveva essere in ordine, dall’estetica alla meccanica. Per me questa era la base per una buona gara. E anche adesso mi piace essere a posto. Ho la mia bella moto e la mia bella auto. E vado in cerca di adrenalina: la RS ti regala adrenalina. Se non la usi ti manca e se la usi non riesci ad assuefarti. Non amo mostrarmi ma mi piacciono le cose belle e sportive”.

Beh, hai detto qual è la tua auto, ora dimmi qual è il tuo parco moto attuale.
“In box ho una BMW R 1200 GS Adventure, una BMW HP2, una Husqvama 300 da enduro, una trial Honda Montesa e la Honda RC30- VFR750R. E la Gori 50 con cui ho iniziato”.

E cosa pensi delle moto special, quelle customizzate che impazzano da un po’?
“In prima battuta potrei dirti che sono felice di questa moda perché così moto che erano abbandonate nei sottoscala tornano a vivere. Anche se customizzate. E poi apprezzo chi le personalizza perché è un po’ un artista a prescindere che uno se la faccia da solo o la faccia fare ad altri. Per contro forse a volte il risultato non significa proprio usare la moto, ma solo creare un’immagine. Comunque non mi dispiace questa moda, mi sta simpatica. In fondo ognuno cerca l’unicità del pezzo, a volte con cura maniacale”.

Oggi in quali rapporti sei con i marchi con cui hai corso?
“lo sono uno dei pochi che si è fatto benvolere da tutti i miei sponsor. Avevo la mia filosofia: se qualcuno mi dava io dovevo ritornare almeno altrettanto. Ho mantenuto anche ottimi rapporti con i giornalisti”.

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E la tua storia con BMW?
“Con BMW ho un rapporto strano. lo sono stato più hondista, per l’inizio della mia carriera. Ma avevo una forte simpatia per BMW. Feci lo sviluppo del loro monocilindrico per un anno, oltre a correre alla Dakar. Dopo questo però arrivò un pilota più giovane, Richard Sainct e da Monaco mi offrirono condizioni di contratto inaccettabili. Andai via allora. Oggi però io continuo ad amare e apprezzare questo brand. Del resto non potrei mai fare a meno di una moto BMW in box. E la mia filosofia mi pare in linea con quella di BMW: mi piacciono le cose minima, ma ben fatte, solide. lo credo in questo motto: il deserto esalta le cose più solide. Me lo disse un tuareg quando mi fermai dopo una lunga tappa. Vedendomi in moto mi chiese da dove e quando fossi partito: gli descrissi il percorso, quel giorno avevo percorso seicento chilometri. Mi chiese: “Com’è possibile? Io ci metto due settimane e mezzo, col cammello!” Quel tuareg mi ha fatto molto pensare. Però come ex-pilota BMW non ho mai avuto un rapporto come invece ho avuto con gli altri marchi. Ad esempio con Cagiva e Honda Italia ho avuto rapporti diretti e coinvolgenti: parlavo direttamente con chi aveva potere decisionale. Con BMW il rapporto era freddo, ho avuto a che fare solo con dirigenti che spesso cambiavano e quindi non si è mai creato un rapporto, tutto molto impersonale. Devo ammettere che l’organizzazione era impeccabile: da pilota avevo tutto quello che mi poteva servire ed ero trattato dawero bene. Il rapporto umano era un po’ meno soddisfacente. A pensarci mi dispiace di non aver potuto provare a far parte del mito di Gaston Rahier e Hubert Auriol, e poter scrivere anche il mio nome negli albi d’oro di Monaco. Mi sarebbe piaciuto provare col boxer”.

Com’era la monocilindrica che guidavi?
“Quando ho corso con BMW ero ufficiale ma non ufficiale: il mio contratto era con Monaco ma mi schierai Orioli 1998alla partenza della Dakar con il team Schalber. BMW non voleva comparire perché era la prima edizione e non voleva rischiare figuracce. Mi ritirai per una rottura proprio incredibile: si era infilato un sasso tra il paracoppa e il paramo-tore. E me ne sono accorto che il motore era già fuso. Tutte le monocilindriche erano comunque moto più fragili rispetto alle bicilindriche. Meno veloci anche se aveva-no comunque raggiunto un buon livello. Ma eravamo costretti ad usare la monocilindrica per regolamento, per-ché in quegli anni era stata vietata la bicilindrica. E con le mono eri sempre impicca-to invece con la bicilindrica avevi margine di potenza e velocità”.

Bicilindrica, allora?
“Bicilindrica tutta la vita. Anche se pesa di più la goduria di un bicilindrico in qualsiasi configurazione ha un’erogazione inarrivabile. Le monocilindriche le definisco “i vibratori”. Parlando di GS in fuoristrada, devo dire che il limite principale è il cardano”.

E quali erano le difficoltà più grandi per un pilota di moto a cavallo tra gli anni 80 e 90? E oggi quali credi che siano le difficoltà più grandi?
“Allora potessero il fatto di non conoscere l’Africa. Si andava organizzati ,a allo sbaraglio per quanto concerneva il territorio: si mettevano le ruote su terreni ignori e in continuo mutamento. Dune, fesh fesh, rocce, l’Africa è imprevedibile. E allora si affrontava la fatica meno preparati: ad esempio non sapevamo di dover bere molto di più di quanto non facessimo. C’era la difficoltà di risparmiare la testa e il mezzo: chi non lo faceva tornava con l’aereo ambulanza. E bisognava conoscere la navigazione e la strategia. Per i piloti di oggi le difficoltà non sono queste. Non c’è la navigazione, non c’è il risparmio del mezzo: la sera l moto viene rifatta da capo se necessita e con le tappe più brevi diventa difficile perdersi. Oggi la difficoltà è percorrere tutto il tratto a fuoco; la gara è più serrata. Ecco, potrei dire che oggi è una vera gara, allora invece era un’avventura: si era soli con il proprio mezzo. Oggi ci sono tantissime persone che ti supportano”.

Hai tracciato rotte, attraversato terre inesplorate, organizzato raid in giro per il mondo. Oggi cos’è il viaggio per Edi Orioli?
“Il viaggio per me deve essere interattivo. Quando parto devo vivere il territorio da viaggiatore e non da turista. Io affronto un viaggio l’anno. Di più non riesco mi manca il tempo. Pensa che se fosse per me, finita questa intervista, metterei una maglietta e un pacchetto di Toscanelli in una borsa e partirei in moto. Però mi piace anche andare sul sicuro: avendo poco tempo voglio che le mie uscite siano certe per divertirmi. Quando parto quindi pianifico bene il viaggio perché voglio anche divertirmi. Un viaggio con una moto completamente carica sulle dune non lo farei: questo cancellerebbe il divertimento di guida”.

Della Dakar di ieri e delle evoluzioni di oggi abbiamo approfondito parecchio nell’intervista apparsa sul volume di febbraio 2018 di Motocross. Mi domando: se la potessi organizzare a modo tuo quali sarebbero i punti chiave della competizione?
“Sicuramente tornerei alle origini. Ovviamente non si può tornare in Africa, oggi per diversi motivi non si riuscirebbe a organizzare la gara lì. Ma parlando di regolamento io mi ispirerei all’avventura e alla navigazione, alla natura del luogo e alla sicurezza. Per la sicurezza oggi si è arrivati a livelli molto avanzati. Terrei quindi i sistemi di geolocalizzazione. Ma tornerei per quanto possibile alle origini, con bivacchi lontani dai villaggi, allungando, e quindi diminuendo, le tappe. Ridurrei il comfort, lasciando più spazio all’avventura. Certo occorre fare i conti con il budget, con gli sponsor e la visibilità. Dovrei ragionare su questo. In fondo la gara è nata così, quindi penso potrebbe essere apprezzabile da molti. Sarebbe una vera sfida, penso. Perché chi ci ha provato, basti guardare l’Africa Race, fatica a decollare perché i team ufficiali vanno a fare la nuova Dakar. Rispetto all’Africa Race bisognerebbe riuscire a richiamare più team che differenzino un po’ l’insieme dei piloti, dei risultati e delle soluzioni. Anche per i giornalisti oggi credo sia difficile raccontare la Dakar. La tecnologia poi ha un po’ snaturato questa competizione”.

Difficile però immaginare una gara fuori dal tempo: bandire la tecnologia si può?
“Difficile sì, ma magari potrebbe funzionare. Chissà se i piloti accetterebbero di lasciare a casa il cellulare?”

Tratto da: About BMW
intervista di Maria Vittoria Bernasconi
Foto di Orazio Truglio & web

Ermanno Bonacini preparazione alla Dakar 1989

La preparazione della mia Yamaha nella mia solita cantina 3×4 metri. Ogni volta che dovevo effettuare qualche prova, per portare fuori la mia Yamaha dovevo smontare tutti i serbatoi e rimontarli!

La ruota ruota anteriore e la forcella mi furono gentilmente prestati dalla mia fidanzata che aveva un Suzuki 125 RM. Per far funzionare il trip del Yamaha TT occorreva modificare un rinvio del Cagiva 600 con il filo interno a sezione quadrata del V35 della Moto Guzzi, il tutto era tarato alla perfezione. Nella seconda tappa Tozeur Gadames a seguito di una caduta importante mi si strappò il filo e addio al trip master.. ho terninato la Dakar seguendo le tracce, la polvere e molto ha fatto il mio istinto!

Notare il tappo sulla testa dove era collocato il contagiri, il radiatore sotto al fanale e tutti i tubi allungati con un supporto unico da me ideato!

I 16 eroi italiani alla Dakar 1990

Nessuno si sognerebbe di chiamarli azzurri, perché dopo venti giorni di gara tanto azzurri non sono più. Tendono piuttosto al marroncino, coperti di fango e sabbia ben oltre i limiti dell’immaginazione. Però sono arrivati anche loro a Dakar, forse con qualche rischio in meno degli ufficiali, ma tanta, tanta fatica in più. Sono i nostri privati, quelli che hanno dovuto contare quasi solo sulle proprie forze per riuscire nell’impresa, appoggiandosi al massimo all’amico compiacente che per l’occasione è stato promosso meccanico aviotrasportato. Una carica importante per una mole di lavoro da far paura. Ambizioni di classifica poche, peraltro richiuse nel cassetto dopo le prime tappe, una volta constatato che senza moto ufficiale è come andare a caccia di elefanti con la fionda. Senza essere Davide. Lo ha scoperto anche Angelo Signorelli, che ufficiale in effetti lo è stato ma ha potuto disporre solo di una moto derivata dalla serie e non del prototipo arrivato dal Giappone. Così si è preoccupato solo di fare l’assistenza veloce di Franco Picco, non disdegnando però di togliersi una soddisfazione nella difficile tappa di Nema: secondo dietro a De Petri, con il cruccio di un ammortizzatore scoppiato. In classifica generale è sedicesimo, proprio davanti a Massimo Montebelli, il primo degli uomini del Wild Team: tre riminesi partiti con moto costruite in casa, con base Yamaha e ciclistica autarchica. Meccanici al seguito non ne avevano, ma i loro problemi sono finiti ad Agadez, visto che il camion sul quale erano caricati i loro ricambi si è fermato. Una vera «benedizione» che ha finalmente impedito a Montebelli, Fabio Marcaccini e Giampaolo Aluigi di rimanere svegli fino a mattina per rimettere a posto la moto.

Sono sedici i temerari italiani che hanno portato a termine la gara.

Eppure anche così ce l’hanno fatta, e con risultati molto più che buoni: solo Gualini ha strappato all’erculeo Montebelli — diciassettesimo — il primato del miglior privato, e con mezzi molto superiori. Quanto a Marcaccini, problemi a ripetizione lo hanno fermato più volte in speciale, ma l’ex velocista è passato tutt’altro che inosservato una volta risolti i guai principali:imm paris dakar addirittura nella tappa di Agadez è rimasto al comando fino a metà giornata. Con una monocilindrica privata è tutto dire. Ha finito trentesimo, giusto due posizioni dietro ad Aluigi il quale, dal canto suo, è riuscito ad arrivare a Dakar alla prima partecipazione: se l’è meritato, non fosse altro perché è riuscito a costruire la moto negli ultimi venti giorni, lavorando giorno e notte assieme a Davide Goretti e Luca Elementi. Ha patito il sonno anche Batti Grassotti, che di Dakar aveva già una certa esperienza: l’unico «sopravvissuto» del GR Team (dopo il forzato arresto di Quaglino per rottura del telaio) si è esibito in una 48 ore no stop tra Nema e Kayes, saltando a piedi pari dormita e cena. Persosi come tutti gli altri nella tremenda tappa di Tidjikja, infatti, è arrivato a destinazione solo alle 7.30 del mattino dopo. Orario di partenza le 8.00. Come cedere a tre tappe dalla fine? Il povero Grassotti non si e nemmeno tolto i guanti, ha bevuto un caffè ed è ripartito. Un vero duro, che ha meritato fino in fondo la spiaggia del Lago Rosa. Franco Zotti, ventitreesimo, si è distinto per abilità e tattica. Ormai un veterano di queste maratone, il friulano è partito con passo regolare e l’ha mantenuto fino alla fine, badando bene a risparmiare una moto che — nonostante qualche ricambio trasportato dal Team Rahier – era privata a tutti gli effetti. Si è arrangiato da solo riuscendo ad arrivare bene anche in tappe lunghe e dure come quella di Tidjikja che hanno falcidiato la gran massa dei concorrenti. Il risultato lo premia anche dell’essersi licenziato per coprire con la liquidazione i debiti contratti lo scorso anno per partecipare alla gara, una pratica già sperimentata in passato. Ora restano da coprire i buchi della Dakar ’90, magari con gli sponsor di quella ’91.

L’immagine più viva che abbiamo di Luigi Algeri, invece, è all’arrivo di Agadez: distrutto, stanco e affamato, ma al traguardo in buona posizione. Il meccanico non l’aveva, ed i suoi ricambi sono spariti praticamente subito, assieme al camion cui aveva pagato il trasporto di una cassa, ritirato. Così è rimasto anche senza sacco a pelo ed ha dormito al freddo per 15 giorni, vestito; ma ce l’ha fatta, riuscendo anche ad ottenere ogni tanto qualche discreto piazzamento. Ha avuto una gran forza di volontà, ed è stato davvero bravo ad arrivare in fondo solo, che più solo non si può. Trentatreesimo. Antonio Cabini invece ha potuto contare su di un meccanico, ma non sui ricambi che hanno fatto la stessa fine di quelli di Algeri. Così se l’è cavata come ha potuto, con molta fantasia e spirito di adattamento, che gli hanno permesso di arrivare quarantunesimo a Dakar. Ci è riuscito per la seconda volta, dopo sei tentativi, uno dei quali in auto. Chiudono la fila Ettore Petrini quarantaduesimo e Carlo Alberto Mercandelli quarantaquattresimo. Il primo, toscano, non era solo un debuttante dakariano: è anche alle prime esperienze fuoristradistiche dopo aver corso nella velocità, ed ha avuto davvero un bel coraggio nel gettarsi in un’impresa del genere con un così ridotto bagaglio d’esperienza. Ma con prudenza e senso della misura ce l’ha fatta a sua volta, senza scossoni. Esattamente il contrario di Mercandelli, l’uomo-avventura di questa edizione: dei problemi di Agadez e del suo rocambolesco arrivo via cammello, camion e pullman di linea avete già letto nei numeri scorsi. Sarebbe bastato per chiunque, ma non per lui, che ha replicato con 48 ore di no stop assieme a Grassotti, e si è poi esibito nel gran finale a St. Louis, quando ha centrato in pieno un mulo che gli aveva tagliato la strada, a 120 km/h. Risultati da bollettino di guerra: il mulo morto sul colpo, la moto distrutta e Mercandelli svenuto per 10 minuti, con una frattura al metacarpo destro. Ma l’irriducibile non ha ceduto: si è fatto rimettere in sesto da una macchina dell’assistenza medica giunta sul posto ed è rimontato sulla moto, che nel frattempo era stata risistemata alla bell’e meglio dal meccanico di Villa-Delfino, sul camion Perlini. E con una fasciatura rigida ha guidato fino al giorno dopo, arrivando a Dakar. Più che meritatamente.

Fonte Motosprint

Avventura irlandese alla Dakar 1998

Ci saranno sempre quelli che affermano che la vera Dakar ha avuto luogo nel continente africano. Hanno ragione, poiché questo era, dopo tutto, il concetto originale – l’amore del fondatore Thierry Sabine per la regione sahariana e del motorsport, riuniti in unico spettacolare evento. E mentre i raduni africani non sono mai stati giorni di innocenza, quelli erano i giorni in cui l’organizzazione si concentrava più sul concorrente che sui media. Non era possibile terminare alle 15:00, quindi tutte le interviste di fine giornata potevano essere condotte alla luce del sole, in tutta comodità. La prima priorità era aiutare i concorrenti e i media dovevano semplicemente fare del loro meglio per adattarsi a questo. E quelli erano i giorni in cui un bivacco era esattamente questo, solo una manciata di tende nel deserto, non una distesa di camper, suite per i media e Hospitlity VIP.

 

“C’era una magia negli eventi africani” ricorda Nick Craigie. “La solitudine.”

 

Craigie, un appassionato enduro (allora e ora), aveva deciso che avrebbe corso per il ventesimo anniversario dell’evento. Aveva corso la 19a edizione, nel 1997, ma era stato costretto a ritirarsi dopo otto giorni con problemi al motore.

“Pensavamo che il motore CCM-Rotax funzionasse al meglio con Castrol R40, un olio vegetale. Questo era probabilmente vero per gli eventi di breve durata [tali motori erano ampiamente utilizzati nelle corse su pista piatte americane] ma con il prolungato funzionamento a caldo in Africa ciò ha portato all’accumulo di carbonio nel motore, in particolare sui piccoli terminali. Ciò ha fermato la mia moto, e quelli di Adrian Lappin e Vinny Fitzsimmons. Un disastro, ma lezione è stata appresa. ”


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Con l’edizione del 1997, sempre intesa come riscaldamento del rally del 1998, Craigie imparò la lezione e tornò l’anno seguente come membro di un team di quattro uomini tutti irlandesi su CCM. 
Craigie ricorda ancora che i primi due giorni – ancora in Europa – furono duri come nessuno. La partenza era a Place d’Armes, Versailles, in Francia, 937 km al primo giorno, sotto zero fino alla fine. Il secondo giorno furono altri 1182 km corsi in temperature gelide, prima che il terzo giorno finalmente i concorrenti arrivarono nel porto mediterraneo di Almeria.

“Ho commesso l’errore di pensare che a quel punto il freddo fosse finito. Ho rinunciato al mio kit per il freddo, è il suo grido liberatorio fu “calda Africa, arrivo!”

 

Solo che Craigie aveva trascurato la piccola questione della catena montuosa dell’Atlante…

 

“Quella terza tappa, per Er Rachidia, è stata probabilmente la mia peggior giornata in assoluto su una moto. Avevo già cavalcato per ore a temperature di -4 ° C attraverso la Francia, ma ora avevo le stesse temperature mentre cercavo di attraversare le montagne dell’Atlante in Marocco. Non avevo più la mia attrezzatura calda e con venti forti l’effetto del windchill il freddo era enorme. Passai sei o sette ore, cavalcando completamente da solo, contando solo su me stesso, cercando di ignorare le mie dita intorpidite e scuotere il corpo, cercando di andare avanti. Sono stato fortunato, abbiamo visto un po’ di sole nel pomeriggio e questo è stato come il paradiso. Il tenue tepore che mi ha offerto mi ha fatto continuare. In tutto è stato una tappa di 14-15 ore. Avrei fatto una cavalcata molto dura nel deserto nei giorni a venire, ma mentalmente giudicherei quel giorno, come peggiore in assoluto. “

 

La quinta tappa sarebbe stata il test finale. Una giornata super lunga, 1050 km di lunghezza con molte dune di sabbia, ai concorrenti toccava attraversare il famoso Erg Chebbi.

“La sabbia profonda era davvero dura e costringeva le moto a consumare tanto carburante, mediamente un litro per 7 km, che sostenuta, avrebbe ridotto la nostra autonomia effettiva da circa 450 km a soli 300 km. Gli organizzatori non avevano previsto questo problema e impostarono il punto di rifornimento troppo lontano da dove saremo rimasti a secco. Non c’era carburante in prestito da un altro concorrente – tutti cercavano di conservare ogni singola goccia che avevano.ccmrear2
“La nostra Dakar sarebbe potuta finire lì – come è successo per così tanti – ma abbiamo trovato una soluzione da parte di tre di noi, i cavalieri del team CCM. Abbiamo unito in modo efficace il nostro carburante, mettendo tutto in una sola moto (quella di Adrian Lappin) e lui è andato al rifornimento. Lì riempì ogni serbatoio che aveva e tornò indietro, percorrendo il percorso al contrario, per ripartire il carburante. Fu una strategia ad alto rischio – poteva facilmente perdersi, crollare, schiantarsi, certamente non trovarci – ma era tutto ciò che avevamo. Fortunatamente ci ritrovò, ma ci vollero quattro ore e altri incredibili 350 chilometri in più per Adrian.
“Ed è a quel punto, verso le 17:00, nel tardo pomeriggio, che la nostra Dakar cambia. Il crepuscolo arriva veloce, ed è nero come la pece prima che tu te ne accorga. Questo cambia tutto. Una distanza che che percorri in un’ora alla luce del giorno ti diventa di quattro al buio. Puoi immaginare che la navigazione sia un incubo. Alle 18:00calcolammo che avevamo ancora 450 km da percorre fino alla fine della tappa. “

 

Quando abbiamo visto spuntare l’alba, raggiungemmo il bivacco, proprio mentre i primi concorrenti partivano per la sesta tappa. Per i compagni di squadra del CCM c’è stato appena il tempo di fare rifornimento, prendere uno snack da mangiare e fare il line-up per iniziare la fase successiva.

“Siamo rimasti insieme dopo la partenza. Non è stato facile abbiamo corso tutto il giorno e di nuovo ci siamo ritrovati a correre all’imbrunire. A un certo punto le luci di Vinny Fitsimmon si accesero. Eravamo ognuno sulla nostra duna di sabbia in quel momento. Mi sono fermato, sono andato da lui per aiutarlo, quando sono tornato alla mia moto mi sono seduto e mi sono subito addormentato. Mi sono solo svegliato solo quando Vinny arrivò e mi prese a calci, dicendomi. “Se dormi ora non ti sveglierai mai”.
“Quella tappa la finimmo verso le 4 o alle 5 del mattino’, dice Craigie. “Poi, un’ora o due dopo era già il momento di ripartire.ccmstat
“Abbiamo avuto due ore preziose per dormire quella volta, ma sono state essenzialmente 72 ore in sella non-stop – dovevamo solo arrivare al giorno di riposo.
“Succedevano così tante cose, durante la corsa. Accadevano sempre. In quell’ultima tappa prima del giorno di riposo abbiamo trovato Si Pavey [anche lui su un CCM], che aveva avuto un incidente molto duro. Siamo rimasti con lui per un po’ poi lo abbiamo caricato in moto e lo abbiamo scortato fino a un posto di blocco e gli abbiamo detto di rimanere lì fino al mattino; con il giorno successivo che era un giorno di riposo, sarebbe rientrare al mattino e partecipare ancora alla manifestazione. Era il giorno nove con 11 ancora da fare!
“Ovviamente il giorno di riposo è stato tutt’altro. Abbiamo trascorso la giornata cambiando il motore della mia moto”.

I pericoli nei rally provengono da tutte le direzioni. Un pericolo particolarmente sgradevole è quello che arriva dai piloti di auto. Dato che ogni giorno le moto partono per prime, succede che le macchine più veloci che seguono supereranno una buona parte di queste qualche lungo il percorso. Essere superati da un’auto sulla strada non è un grosso problema, ma in un rally nel deserto è un’esperienza decisamente più brutta …

 

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“Se c’è un regolamento sulla sicurezza che ho piacevolmente condiviso è stato il sistema Sentinel per avvertire le moto di un’auto che ti sta sorpassando. Quando le auto ti superano è sicuramente il momento più pericoloso della manifestazione. Tirano su così tanta polvere che per tanto tempo guidi praticamente alla cieca e in quel momento potresti colpire una roccia o cadere in una buca – insomma farti male. Potresti anche rallentare, ma questo aumenta solo il pericolo dato che l’auto successiva si scaglia contro di te e sarai un bersaglio molto lento. Mentalmente lo stress di sapere che stavano arrivando, aspettando l’improvvisa esplosione di rumore e polvere accecante, era estremo, molto molto spaventoso, e una paura che avremmo affrontato ogni giorno. L’unica moto era uscire dalla pista, letteralmente a mezzo chilometro dal tracciato, fino a quando non erano passati. Certo, questo ti rallenta in maniera evidente.
“Alla fine è successo che anch’io sono stato investito! Eravamo in una sezione di dune e lì ti fai strada a zig zag. Ho visto questo Schlesser Buggy arrivare, lui ha visto me, ma mentre passavo su una duna, lui mi ha letteralmente passato sopra. Io e la moto eravamo completamente sotto di lui, stavo guardando la coppa della sua auto. Ovviamente non ero molto contento, ma lui non si è fermato, lasciandomi lì. L’ho trovato al bivacco quella notte e gli ho detto i miei sentimenti in merito!

 

Il 1998 è stato il primo anno in cui il GPS è stato adottato su tutta la linea per Dakar. Gli organizzatori hanno fornito un sistema GPS ERFT.

“Peccato che il mio non ha mai funzionato. O meglio, ha funzionato nel bivacco, fino a circa cinque minuti dall’inizio poi non ha più funzionato per il resto della giornata. Il team tecnico degli organizzatori ha tentato inutilmente di ripristinarlo: alla fine hanno pensato che fosse la frequenza del circuito elettrico della moto a fermarlo. Poco male, ho guidato scorrendo le note sul roadbook e seguendo le tracce sul terreno o le nuvole di polvere. Ammetto che non sono mai stato un ottimo navigatore. “

Anche con il GPS funzionante non sarebbe andata meglio. Un giorno Craigie ricorda che il suo roadbook aveva un messaggio che diceva “Next 358km – navigate by sight”!

“Un altro giorno stavamo soffrendo quello che immagino fosse una forma di cecità da neve. Anche con gli occhiali colorati, il sole splendente della sabbia bruciava le tue retine. Stavo cavalcando con Adrian e dovevamo fare a turno uno per condurre mentre l’altro riposava gli occhi concentrandosi sul parafango posteriore del pilota davanti a lui. Quando il dolore diventava insopportabile, ci scambiavamo.

E quando il bivacco è stato finalmente raggiunto – nel buio – non sempre trovavamo quello he ci serviva.

“Avevamo un meccanico di supporto e anche le ragazze venivano, ma ci incontravamo con loro ogni tre giorni perché ci seguivano in aereo e quindi avevano bisogno di una qualche forma di pista di atterraggio. Non c’era neanche modo che i camion di supporto potessero tenere il passo con il rally e raggiungere ogni sera il bivacco. Era troppo difficile. Quindi per la maggior parte del rally abbiamo fatto noi nostra manutenzione alle nostre moto.
“Al bivacco ci attendeva una grande tenda con i tappeti, ma quando arrivavamo tutti i top rider e piloti erano già nei loro sacchi a pelo – e quindi nessuna camera nella locanda! Quindi facevano i lavori di manutenzione, e ci coricavamo nei nostri sacchi a pelo accanto alle nostre moto con una zanzariera sopra le nostre teste. Comunque non c’è mai stato molto tempo per dormire…”

Craigie è stato fortunato che avesse avuto un solo incidente serio durante il rally.

“Era tardi. Stavo andando troppo veloce su alcune whoops, quando tutto a un tratto sono andato fondo corsa e la moto mi ha lanciato per aria. Mentre stavo volando in aria pensavo: “questo farà male, molto male“. Ma sono stato fortunato. Mi sono rialzato senza nulla di rotto, stavo bene. La moto era un po’ ammaccata e le luci puntavano nella direzione sbagliata. Ma ero ancora in corsa, di nuovo dietro a Vinny [anche questa volta al buio] per raggiungere il traguardo. “

 

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Raggiungere il traguardo di Lac Rose è il sogno di ogni pilota che prende il via della Dakar. Solo che arrivarci è stato un incubo …

“Non ti riprendi mai dagli ostacoli della Dakar. Recuperi un po’ giusto il giorno di riposo. Ma da lì in poi siamo diventati sempre più stanchi, se non dormi non recuperi. Stai in sella ignorando i chilometri, semplicemente contando i giorni. Spesso capita che stai correndo in mezzo ad una foschia, non sei molto connesso, consapevole che prima o poi succederà qualcosa per spaventarti, così almeno l’adrenalina ti entrerebbe in circolo e staresti vigile per un po’.
“Alla fine ero in uno stato di totale collasso. Avevo preso in pieno due pietre e mi ci è voluto molto, molto tempo per tornare alla normalità. Finita la gara per i successivi otto mesi sono rimasto fisicamente esausto. Le mie mani e le mie braccia erano a brandelli. Alcuni potrebbero riprendersi rapidamente ma per me è passato molto tempo prima che mi sentissi di nuovo normale. “

 

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DATI TECNICI
Motore Rotax 600cc dual start raffreddato ad aria, monocilindrico, con una potenza di circa 50 CV, con una velocità massima di circa 130 km / h. 
Telaio standard CCM ma a doppia saldatura con soffietti extra per resistenza. Una capacità di carburante totale di 45 litri. Pesato circa 240 kg

Fonte:
https://www.rustsports.com/bikes/adventure/ccm-dakar-special_3419.html

Dakar 1989 – L’indimenticabile Guinea

TAMRACOUNDA – Vista dall’alto la Guinea è uno smeraldo incastonato nel deserto. Per gli equipaggi dell’undicesima Parigi Dakar, però, è un inferno verde, solcato dalle rosse arterie che sono le infide piste di laterite, velocissime ma scivolose. Al suo terzo impatto con la giungla il rally più massacrante del mondo ha riscoperto che non è solo il Ténéré a far soffrire. La Guinea se la ricorderanno a lungo Clay Regazzoni, Claudio Terruzzi, ma anche lo spagnolo Prieto, ed i due buoni samaritani del team Assomoto Giuseppe Cannella e Davide Pollini.

Speciale disumana: in corsa per 24 ore nell’inferno verde

Sono stati questi ultimi, infatti a tirare fuori dalla sua Mercedes semidistrutta da un capottamento Clay infischiandosene di prendere penalizzazione forfettaria.
Eravamo circa al chilometro 270 della speciale – raccontano questi due ragazzi trentenni, di Brescia – quando su di una pista veloce a gobba d’asino, abbiamo visto una macchina a ruote per aria. Era in una pozza di benzina ed il navigatore che era già fuori, perdeva sangue da un braccio. Lo abbiamo riconosciuto subito: era Del Prete, Clay era ancora dentro e stava tentando di liberarsi. Incuranti che il tempo scorreva, Giuseppe e Davide hanno sistemato Regazzoni lontano dalla macchina, appoggiato ad un masso perché la sua carrozzella era andata distrutta, e medicato Del Prete.
Nessuno si è fermato a darci una mano – ricordano i due – uno ci ha buttato una bottiglia d’acqua dal finestrino.
É passata gente che non aveva problemi di classifica… non capiamo, quando si è in speciale tutti si sentono dei campioni.

Terruzzi Cagiva 1989-3

Si è fermato, invece, Claudio Terruzzi ed anche Klaus Seppi. Una storia della Dakar, un frammento che, insieme ad altri, ricostruisce una delle giornate più dure del rally.
É stata una speciale disumana – dice senza mezzi termini Terruzzi, arrivato al campo a notte inoltrata – prima di incontrare Regazzoni ne avevo viste di tutti i colori. Sono finito in un guado al chilometro 130 lo stavo facendo a piedi perché la mia Cagiva andava ad un cilindro. Improvvisamente, mentre ero con l’acqua alla vita. il motore ha ‘”preso” e sono scivolato sul fondo viscido. Ci ho messo un’ora a tirare fuori la moto dal guado, grazie all’aiuto di alcuni ragazzi che venivano da un villaggio vicino, e con loro mi sono messo a smontare la moto per tentare di farla ripartire.
Ci sono infine riuscito, ma un ritorno di fiamma ha dato fuoco al filtro dell’aria ed uno dei miei improvvisati aiutanti, impaurito, ha gettato una manciata di terra nei carburatori… per fortuna mentre ero impegnato a smontare tutto di nuovo e arrivato Savoldelli, la mia assistenza, con la macchina, che mi ha tirato fuori. Ero triste quando ha lasciato dietro dirne tutti quei ragazzi che si erano dati da fare per aiutarmi, ma non ci ho più pensato quando, nel buio mi sono trovato a dover fare la pista dietro alle auto.

Terruzzi Orioli

In un polverone che limitava la visibilità a pochi metri Terruzzi è caduto, ha centrato una vacca, e ripartito di nuovo tirando alla cieca, ma non ha potuto evitare la penalizzazione.
E dire – ricorda – che ero partito benissimo… davanti a me avevo solo due tracce. Dovevo essere terzo prima di cadere in quel maledetto guado… il road book era fatto da cani, per un pelo non ho rischiato la pelle nella secca curva a sinistra nella quale è poi caduto Magnaldi.

Savoldelli, che lo ha aiutato la sera è con lui al campo. Un altro tassello si inserisce nel rompicapo della speciale Bamako – Labè.
Ci siamo trovati tutti in un guado profondo, noi delle macchine – racconta l’assistenza veloce della Cagiva – in acqua c’era la Nissan di Prieto. Non riusciva ad uscire. Lui era alla guida, mentre il suo secondo si era tuffato per sistemare le slitte sotto le ruote. Andava e veniva, in quell’acqua limacciosa, quando d’improvviso l’ho sentito urlare. Li per li non ho capito, poi l’ho visto sorreggere Prieto, che era in acqua svenuto, per le ascelle. La marmitta sfiatava all’interno della carrozzeria e lui, respirando ossido di carbonio, si era addormentato, accasciandosi alla guida. Aveva avuto appena la forza di aprire la portiera prima di lasciarsi andare nell’acqua. Per fortuna che, in tutta quella confusione il navigatore se ne accorto.

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É l’alba del giorno dopo quando, con una macchina dei medici, arriva Regazzoni al bivacco. Sporco, con la barba lunga, è quasi irriconoscibile, ma non stanco, né disfatto. Il giorno più lungo della Dakar si chiude nel suo racconto.
Non riesco a capire – dice scuotendo la testa – eravamo appena usciti dalla parte più dura della speciale quando in un rettilineo di terra rossa, la macchina si è messa traverso. L’ho controllata per un po’, ma poi mi è partita. Si è fermato dopo quattro giravolte con le ruote in aria. Sentivo puzza di benzina e Del Prete lamentarsi. Poi sono arrivati i due motociclisti italiani che mi hanno aiutato ad uscire.

Mentre Clay parla gente continua ad uscire dalla speciale. Sono i camion che non ce l’hanno fatta ad arrivare nella notte. Rivediamo il bivacco buio, privo della luce dei generatori, e quei pochi mezzi pesanti arrivati a far da punto d’appoggio per tutti. La speciale Barnako – Labè è durata esattamente 24 ore. Nessuno se l’aspettava cosi dura.

Jean Claude Olivier e la sua Sonauto

Attorno a Thierry Sabine si era creato un cenacolo. Dell’avventura. Un drappello di seguaci che si accodavano al Messia. C’erano “Fenouil”, Neveu, 1390481_10202247482058581_718400453_nAuriol, Comte, Vassard… Tutti motociclisti, i prediletti. Chi spiccava nel gruppo era Jean-Claude Olivier. Personalità e intelligenza, una naturale predisposizione per l’organizzazione. E, come non bastasse, centauro lui stesso. Aveva dato una grossa mano a Thierry nei mesi che precedettero la prima edizione dell’Oasis Dakar.

Non erano mancati i suggerimenti e la promessa di schierare una squadra. Nato a Croix il 27 febbraio 1945, a 33 anni aveva già fatto di tutto e di più, partendo da zero. Già, una vita come fosse stata lunga un secolo. A vent’anni era stato assunto dalla Sonauto, importatore della Porsche in Francia dal 1950. Lo avevano spedito a pulire i magazzini, quella la sua prima mansione. Capelli rossicci, occhi chiari, sguardo intenso, intuitivo, il cammino verso l’alto iniziò quando i titolari dell’azienda decisero di affiancare alle gran turismo tedesche il settore dedicato alle motociclette.

Yamaha, il marchio giapponese, da far conoscere e diffondere sul mercato francese: Il problema era come. A Jean-Claude venne l’idea di andare direttamente dai meccanici in Francia a mostrare alcuni modelli del marchio ancora sconosciuto. Il progetto venne approvato. Si fece assegnare un furgone, lo dipinse con la scritta Yamaha a caratteri cubitali, caricò all’interno quattro moto della produzione: un 50, un 80, un 125 e un 250.

Battè la Francia a tappeto. Un lavoro difficile, doveva con-vincere, creare punti di servizio e vendere. Vendere, l’imperativo. Nel primo anno, 1966, riuscì a perfezionare accordi per 28 punti di assistenza e piazzare 177 moto. Tre anni più tardi toccò le mille unità. Una crescita vertiginosa per un marchio ancora senza storia in Europa. I volumi aumentarono con l’importazione degli scooter, un’altra sua intuizione. Non trascurò comunque mai la sua passione.

Continuò a correre e quando Sabine allestì la prima Dakar, JCO, ormai era chiamato con questo acronimo, schierò la prima formazione Sonauto Yamaha-BP. Quattro le 500 XT schierate per Gilles Comte, Christian Rayer, Rudy Potisek e, naturalmente, Jean-Claude Olivier. La sua squadra dominò aggiudicandosi sei tappe su dieci. La Arlit-Agadez e Agadez-Niamey, tra le più dure vennero siglate JCO.

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Della Sonauto era intanto diventato il “boss”, l’azienda in crescita continua. Come le gare. Raid e pista. Partecipò a nove Dakar, portando al secondo posto la Yamaha FZ 750 4 cilindri nel 1985 (Ndr in realtà portò sul podio una XT600, la FZ750 debuttò solo l’anno successivo).  Dietro alla Bmw di Rahier. Anche in pista, con il team che aveva allestito, non mancarono le soddisfazioni. Fu lui lo stratega che riuscì a portare Max Biaggi alla Yamaha nel 1999.

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Ma soprattutto fu lo scopritore di Stephane Peterhansel. Sei centri nel deserto africano. Il 24 febbraio 2010 passò la mano alla Yamaha Motor France, diventata un impero. Dopo 43 anni di lavoro. La sua vita da grande protagonista si concluse tragicamente. In un fine settimana del gennaio 2013 un camion invase la corsia dell’autostrada Parigi-Lille, sulla quale sta-va procedendo. Lo schianto fu inevitabile e terribile. A fianco viaggiava la figlia che riuscì, miracolosamente, a salvarsi. Non lui. La leggenda di JCO finì così. Un maledetto destino.

Tratto da Dakar l’inferno del Sahara di Beppe Donazzan