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DAKAR 1985 | La cronaca della corsa

C’è mancato veramente poco. Dopo sei edizioni della Parigi-Dakar in cui gli italiani, a dire il vero, non avevano mai brillato, quest’anno la maratona africana stava per trasformarsi in un trionfo per i nostri colori. Il trionfo non c’è stato, complice una buona dose di sfortuna, che ha messo fuori causa l’assistenza della Yamaha-Belgarda (assistenza di cui Franco Picco avrebbe avuto bisogno estremo), e complice anche una discussa decisione degli organizzatori, che hanno penalizzato pesantemente il portacolori della Belgarda nella fase cruciale della gara.

Non c’è stato il trionfo però c’è stata un’affermazione globale italiana di tutto rilievo. Picco alla fine è stato terzo, dopo aver capeggiato la classifica per circa metà gara (niente male per uno alla prima esperienza nella Dakar). Alle spalle di Picco si è piazzato Andrea Marinoni. Al traguardo finale sono giunti anche Zanichelli, Gagliotti, Balestrieri e Gualini.

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Il successo italiano è stato completato dalla Cagiva, che dopo essersi aggiudicata diverse speciali con Auriol e Picard ha conquistato l’ottava e la dodicesima posizione. Il successo è andato, per la seconda volta consecutiva, al belga della BMW Gaston Rahier, alle cui spalle è finito Jean Claude Olivier, un francese che nella vita fa l’importatore della Yamaha nel suo Paese e che va famoso per l’eleganza che lo distingue quando non è in sella alla moto e che ha mostrato di trovarsi perfettamente a suo agio in un manipolo di professionisti delle due ruote.

Ma ecco com’è andata la gara giorno dopo giorno. Inizio tutto francese, inarrestabile ascesa di Franco Picco e rimonta di Gastonpartenza 1985-1 Rahier: questa la sintesi dal prologo francese all’arrivo a Dakar, in dettaglio ecco il diario. 30 dicembre Teatro al prologo della settima Parigi-Dakar la scuola di pilotaggio di Cergy-Pontoise, una trentina di chilo-metri a ovest di Parigi. Circa cinquantamila spettatori presenti, nonostante il freddo polare, per ammirare i partecipanti e le loro evoluzioni su un percorso artificiale che ha messo subito a dura prova le capacità dei singoli.

Il migliore nel prologo è stato il francese Lalay con la Honda, seguito dai connazionali Baron, anch’egli su Honda, e Bacou, su Yamaha. Il migliore degli italiani Findanno, ottavo, seguito da De Petri e Gian Paolo Marinoni, tredicesimo e quindicesimo. l° gennaio La competizione vera e propria comincia con la tappa di trasferimento da Parigi a Sète, nel sud della Francia. Il percorso si snoda su 1.076 chilometri dalla Rue National numero 20.

Le condizioni ambientali, caratterizzate da temperatura molto rigida, non favoriscono i motociclisti alcuni dei quali addirittura rischiano il congelamento. Uno dei favoriti, il belga Rahier, viene investito dall’auto di uno spettatore; l’incidente fortunatamente non compromette la gara di Rahier che può proseguire.

2 gennaio 11 trasferimento in nave da Sète ad Algeri, che doveva essere l’ultima occasione di riposo per i concorrenti prima di affrontare l’Africa, per molti si tramuta in un vero incubo.

Le condizioni del mare provocano un generale malessere e molti, durante la notte passata in traghetto, non riescono a chiudere occhio.

3 gennaio La prima tappa africana, trasferimento da Algeri a Ourgla per 628 chilometri, parte soltanto nel tardo pomeriggio a causa del ritardo dei traghetti per le avverse condizioni atmosferiche (gli ultimi concorrenti sbarcano addirittura alle 18) . Tra l’altro i partecipanti, nell’attraversamento dei monti dell’Atlas, devono fare i conti con condizioni atmosferiche non proprio « africane » perché incontrano nebbia, freddo e ghiaccio sulle strade.


4 gennaio Con la tappa Ourgla-El Golea, e la prima prova speciale di 239 chilometri, la competizione entra nel vivo dello svolgimento. Il francese Lalay, vincitore del « prologo » parigino, si trova subito in difficoltà. Al termine del-la giornata tuttavia nei primi tre posti figurano ugualmente tre piloti transalpini: Baron, Bacou e Neveu, Bacou su Yamaha gli altri due su Honda. Buon quarto Balestrieri con Honda, mentre Marinoni e Auriol, entrambi con Cagiva-Ligier, occupano rispettivamente la quinta e la sesta piazza.


5 gennaio Quarta tappa da El Golea a In Salah e seconda prova speciale. Franco Picco, con la Yamaha del team Belgarda, conquista il terzo posto che gli consente di occupare la quarta posizione nella classifica generale. Ai primi tre posti ancora i francesi Baron, Bacou e Neveu.


6 gennaio Il percorso della quinta tappa si snoda da In Salah a In Amguel attraverso 600 chilometri di pista desertica. Nuovo acuto di Franco Picco: conquistando un altro terzo posto il pilota della Belgarda balza al secondo posto in classifica generale. Al comando passa Bacou dopo che il precedente leader, Baron, è incappato in un incidente.


7 gennaio La sesta tappa porta i concorrenti a Tamanrasset e non comporta grossi cambiamenti alla classifica. Oltre a Picco, sempre secondo, sono ben piazzati gli italiani Findanno, Balestrieri e Andrea Marinoni, rispettivamente set-timo, ottavo e nono.


8 gennaio La Parigi-Dakar si dipinge con I colori italiani, almeno per quanto riguarda i mezzi. Nella settima tappa, da Tamanrasset a Ilferouane, la vittoria va alla Cagiva-Ligier di Picard. Al comando della classifica generale è ancora Bacou, mentre Lalay scavalca Picco e si porta al secondo posto.


9 gennaio L’ottava tappa porta i concorrenti ad Agadez, ai confini del deserto del Ténéré. La vittoria di tappa è dell’americano Stearns con la Yamaha, che precede Auriol con la Cagiva-Ligier. Il capolista della classifica generale Bacou giunge quarto e Picco settimo.


10 gennaio L’aria del Ténéré fa bene a Rahier; il belga, che fino a questo momento era stato un po’ in ombra, si aggiudica d’autorità la tappa da Agadez a Dirkou e si porta al quarto posto in classifica generale. Nessun cambiamento nelle prime tre posizioni occu-pate ancora da Bacou, Lalay e Picco.


11 gennaio Per la prima volta nella storia della Parigi-Dakar un italiano assume il comando della classifica generale; si tratta di Franco Picco che guida la gara davanti al belga Rahier, vincitore del-la tappa odierna. Il successo della pattuglia italiana, nella tappa che riporta la carovana da Dirkou td Agadez passando per Ilferouane, è Ziobale: cinque piloti nei primi dieci. Bacou e La-lay si sono trovati in difficolti. nel deserto con la bussola.


13 gennaio Dopo un giorno di riposo ad Agadez la corsa riprende con una megatappa di 1244 chilometri da percorrersi in due giorni. La prima speciale tra Agadez e Tchin Tabaraden vede una nuova vittoria parziale di Stearns davanti ad Auriol. Picco e Rahier, che giungono rispettivamente quinto e quarto, hanno conservato le prime due posizioni in classifica generale.


14 gennaio A Gao, nel Mali, si conclude la supertappa partita da Agadez. Rahier si aggiudica la seconda speciale riducendo il suo distacco da Picco, ancora saldamente al comando della classifica generale, mentre Findanno è terzo. 15 gennaio Dodicesima tappa da Gao a Tombouctou e Picco ancora al comando della corsa. Il suo primato però è insidiato sempre più da vicino da Rahier, che gli rosicchia altri 9’45” portando-si a soli 13’39”.


16 gennaio Picco ristabilisce le distanze conquistando un terzo posto di tappa, mentre Rahier è solo quinto. La vittoria, nella frazione che porta i concorrenti da Tombouctou a Nema, è appannaggio del portacolori della Cagiva Auriol, mentre una brutta caduta mette fuori gara Findanno.


17 gennaio Nulla di fatto nella quattordicesima tappa. Una violentissima tempesta di sabbia costringe gli organizzatori a sospendere la gara e a fare raggiungere in gruppo ai concorrenti il traguardo di Tichit. La sospensione è propizia per Franco Picco che, pochi minuti prima, aveva accusato un guasto meccanico che avrebbe potuto fargli perdere il primato.


18 gennaio La tappa del 18 gennaio viene divisa in due semitappe per recuperare la speciale soppressa il giorno precedente. La prima speciale va alla Cagiva di Picard mentre Picco, quinto, consolida la sua posizione di leader. Va un po’ meno bene la seconda speciale dove Rahier si avvicina preoccupantemente a Picco; tuttavia il guaio grosso succede proprio all’arrivo a Kiffa, dove il pilota della Yamaha-Belgarda viene penalizzato per avere timbrato in ritardo e Rahier passa al comando.


19 gennaio Si decide una nuova sospensione per permettere ai concorrenti ancora dispersi di raggiungere la carovana. Il 20 si disputeranno nuovamente due speciali per recuperare quella soppressa.


20 gennaio Nella prima speciale vince Stearns mentre Rahier e Picco, che conservano i primi due posti in classifica, arrivano attardati dopo avere sbagliato strada entrambi. La seconda speciale è appannaggio di Baron davanti a Rahier, mentre Picco, solo decimo, vie-ne superato in classifica anche dal francese Olivier.


21 gennaio La speciale viene vinta da Baron e Rahier conserva il comando su Olivier. Picco, ormai da molti giorni senza assistenza, tenta il tutto e per tutto ma alla fine deve accontentarsi della terza posizione in classifica generale davanti ad Andrea Marinoni.


22 gennaio Si disputano ancora due speciali su sabbia prima dell’arrivo a Dakar, ma ormai i giochi sono fatti. Rahier si aggiudica la sua seconda Parigi-Dakar davanti a Olivier; Picco giunge terzo mentre Marinoni, quarto, completa il successo italiano.


La classifica delle moto
1 RAHIER Gaston (Belgio-BMW) in 88h45’01”;
2 Olivier Jean Claude (Fran-cia-Yamaha) a 57’40”;
3 Picco Franco (Italia-Yamaha) a 1h08’02”;
4 Marinoni Andrea (Italia-Yamaha) a 3h05’37”;
5 Neveu (Francia-Honda) a 3h25’48”;
6 Stearns (USA-Yamaha) a 3h25’49”;
7 Auriol (Francia-Cagiva) a 5h09’40”;
8 Charliat (Francia-Honda) a 5h12’28”;
9 Verhaeghe (Barigo) a 7h43’51”;
10 Courtois (Yamaha) a 9h55’35”; seguono altri.

Tratto da Motociclismo 1985

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Objectif Dakar, 50 Africa Twin per la Dakar 1989

“Far soffrire chi parte e far sognare chi resta” era il motto della Parigi-Dakar di Thierry Sabine, morto il 14 gennaio 1986. Due anni dopo, in occasione dell’uscita dell’Africa Twin, Honda France ha offerto a 50 di “quelli che restano di solito” di partecipare anche alla Dakar 1989.

Nel 1988, Hervé Guio, il capo di Honda France, aveva già battezzato il nuovo XRV 650 RD 03 con il brillante nome commerciale di Africa Twin (lo farà ancora con i nomi di battesimo del Transalp e del Dominator). François Charliat era allora responsabile della pubblicità e della promozione della rete. Nel suo tempo libero, all’inizio di gennaio, è stato anche un portatore d’acqua per i top rider ufficiali dell’HRC. Dopo la Dakar del 1988, che non finì, la sua NXR andò in fumo a causa di una perdita nel serbatoio, a Charliat fu offerta una posizione di leadership anche nel team Honda per l’anno successivo. “Ho rifiutato. Non mi sentivo legittimato. Ho saputo andare al 90% per molto tempo, ma non potevo andare oltre come quelli che mi precedevano. Ho preferito fermarmi. “

Una manna dal cielo per Hervé Guio, che trovò rapidamente un sostituto per lui. Non erano i Neveu e i Lalay che avevano il compito di puntare alla vittoria a Dakar, ma 50 privati! All’uscita dell’Africa Twin, Hervé Guio, in una notte di ubriachezza o non so quale occasione, disse davanti a una platea di giornalisti: “Questa è la moto della Dakar, è Charliat che l’ha sviluppata con i giapponesi, è la moto perfetta per un privato, vero François? E faremo una grande operazione 50 Africa Twin a Dakar“. Dopo questo annuncio, mi ha detto: “Bene, François, devi farlo tu stesso. Di quanto avete bisogno? Cosa ti serve per la moto?”. “

Tempi diversi, usanze diverse! Questa non è la prima patata bollente di Charliat. Ha già dovuto improvvisare un trofeo Supermotard Challenge “in seguito a un errore d’ordine sul volume della 500 CR“, la più grande moto da cross 2T dell’epoca, non è la più facile da vendere! È stato messo a capo di un’avventura che si chiamava ufficialmente Objectif Dakar. “Era un programma che dipendeva dalla R&S. C’era sempre una competizione tra i dipartimenti di R&S e l’HRC, era un po’ come gli operai contro i signori”, dice Charliat che ricorda i preparativi e le specifiche che lui stesso redigeva.

I giapponesi sono venuti a trovarci a Parigi e ci hanno chiesto cosa fare sulla moto.

Eravamo nella categoria Marathon. Quindi abbiamo dovuto cambiare alcune cose. Ho fatto modificare le cartucce nelle forcelle, l’ammortizzatore invece è stato preparato in casa,  tanto nessuno sarebbe venuto a controllare. E il serbatoio del carburante era quasi raddoppiato in capacità. La moto non poteva essere alleggerita (270 kg nella versione Marathon). Era quello che era.

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Avevamo anche rinforzato il paracoppa e ha integrato il serbatoio dell’acqua come da regolamento. La moto venne provata due volte in Giappone, poi due mesi prima della Dakar, le 50 moto vennero consegnate a Parigi. È una serie speciale, con numeri di serie del motore e del telaio che iniziano con 5. Nel parcheggio di Honda France, sembra un campo di battaglia. Tende militari sono allestite per accogliere queste 50 moto e i pezzi provenienti dal Giappone, le attrezzature di assistenza, tutto questo sorvegliato giorno e notte.

Ci siamo dovuti occupare anche di trovare i veicoli di supporto. Avevamo tre camion, due Unimog 4×4 più un Kamaz 6×6 affittato in Svizzera. Abbiamo organizzato un concorso per i meccanici della rete. Ce n’erano dieci in uno degli aerei dell’organizzazione, più uno su ogni camion. Altrettanti autisti e anche tre magazzinieri. In totale, 21 persone con il mio vice ed io per supervisionare l’operazione!

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“Tutto incluso, per 81.500 franchi all’epoca, Honda forniva ai candidati una moto completa e un pacchetto di assistenza con dieci meccanici. “Mi sono detto che i ragazzi che sono partiti per la Dakar hanno spesso dimenticato un sacco di cose. Hanno cercato di fare una bella moto, ma spesso non avevano gli attrezzi per riparare una semplice foratura, nessun cavalletto su cui lavorare la sera, non la giacca giusta in cui mettere le carte. Con i miei sei o sette anni di esperienza, mi sono assicurato che avessero un kit pronto per la gara.”

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Anche se la moto non era un missile, andava bene. Ma bisognava saperla portare, non era proprio una moto per principianti, ma i due terzi di loro lo erano. Gli è stato insegnato a leggere un roadbook. Era l’epoca dei primi scrollers. Ho anche fatto preparare dei panini a qualcuno di loro prima dell’inizio. I ragazzi non si sono occupati di nulla! “Un budget per i pezzi di ricambio di 15.000 franchi fa parte del pacchetto, ogni pezzo usato viene poi detratto successivamente.

Tratto da:

https://www.trailadventuremag.fr/50-africa-twin-a-dakar/?fbclid=IwAR373OfAVcrDNFis1m3Oa62OuiPye-vaHeiIbV0kY9Gx9CMzFevCwKbhCl0

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DAKAR 1988 | “Ma quello non è un tuareg!”

Tratto da: Gazzetta dello Sport 16 gennaio 1988
Testo di: Testo: Enrico Minazzi

TESSALIT (Mali) — II doganiere del Niger, basco verde in testa identico a quello delle nostre Fiamme Gialle, aveva appena finito di chiedere il rituale “cadeaux, monsieur” (regali, signore) nel più puro stile locale. Camicie (anche sporche ed usate), pantaloni sdruciti, adesivi, cappellini. Tutto va bene per accellerare le operazioni di dogana e guadagnare in fretta l’uscita dell’aeroporto dove si è poi assaliti da una moltitudine di indigeni e di bambini che ti offrono servizi e oggetti di ogni genere dell’artigianato locale.

Vestito da indigeno, vende souvenir ma è Claudio Torri, pilota italiano desaparecido

Alcuni sono talmente lesti nel portare le tue borse che se non li segui come uno 007 finisce che ti ritrovi al bivacco senza tenda e sacco a pelo. Ma anche questo fa parte del gioco della «Dakar». Dopo qualche giorno d’Africa questi personaggi diventano parte integrante dell’ambiente. Cosi, l’altro giorno, all’arrivo a Niamey pochi hanno fatto caso a un tipo vestito d’azzurro che, con un uccellaccio montato su uno strano supporto di legno, recitavaIMG_0836 «cadeaux, cadeaux, monsieur. Solo quando dall’uscita è transitato Serafino Valsecchi, meccanico della Guzzi a Mandello Lario, la comitiva italiana si è accorta che quel tipo vestito d’azzurro, in puro stile tuareg, non era un indigeno ma il trentasettenne bergamasco Claudio Torri.

Perché parliamo di lui? Semplice: sprofondato nella sabbia della prima speciale che da El Oued portava ad Massi Messaud del pilota lombardo si erano perse completamente le tracce. Il suo meccanico, che lo seguiva con le truppe avio-trasportate della Dakar, lo aveva invano cercato nelle classifiche, ai bivacchi, ai posti dí ristoro dell’Africatours e presso gli aerei dell’organizzazione. Per una settimana intera aveva cercato vanamente di sapere dove fosse finito il suo assistito. Poi si era quasi rassegnato: le ore e i giorni passavano e di Torri si sapeva solo che era entrato nella lista dei ritirati fin dalla prima speciale.

Insomma il buio più totale. Ora la preoccupazione accumulata in giornate trascorse ad arrovellarsi il cervello per la preoccupazione era tutto ad un tratto svanita. Un lungo abbraccio, una risata che ha attirato l’attenzione dei doganieri nigeriani ed ecco che Torri è ricomparso all’orizzonte della «Dakar•, così come vi era sparito. “Ho avuto subito problemi stupidi alla moto perché sono uno stupido — ha spiegato il bergamasco problemi che mi hanno frenato: la ruota posteriore rotta, mi sono saltati i raggi, e poi la frizione k.o. al chilometro 183 della mia Dakar ’88 hanno finito col mettermi al tappeto. Nel bel mezzo del deserto, insabbiato sulle dune”.

Torri, bergamasco che dice di fare l’architetto, era l’unico concorrente al via della «Dakar» con una moto Guzzi, una 750 bicilindrica prototipo realizzata nelle officine di Mandello sotto la consulenza diretta del pilota-amateur. Una moto che aveva incuriosito la platea italiana fin dalla partenza di Lacchiarella dove sull’elenco degli iscritti figurava: numero 66, Claudio Torri, Moto Guzzi Tap. Cosa significava quella sigla Tap? Non certo il nome dello sponsor (Tropicana, una bibita) ma più semplicemente «tut a post», vale a dire «tutto a posto» in dialetto lombardo.

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L’Africa e la sabbia poi si sono incaricate di smentire quell’ottimistica sigla: e la povera Guzzi è affondata subito e Torri ha cosi dovuto abbandonare ogni speranza di giungere a Dakar. «Ma non per questo non mi sono divertito — afferma il singolare pilota attorniato da meccanici e concorrenti italiani. — Questa è una corsa che ti fa fare esperienze stupende anche se non arrivi in Senegal. Io ad esempio ho passato tre giorni nella sabbia della prima speciale. E ne ho viste di tutti i colori. Innanzitutto sono transitati due camion-scopa che raccoglievano i ritirati ma non hanno potuto darmi un passaggio. Erano stracarichi di gente che si era ritirata. Sul cassone non c’era proprio posto. Mi hanno detto: “Ripassiamo” e mi hanno lasciato lì una razione di sopravvivenza più un po’ di acqua. E ragazzi miei, ho patito un freddo dell’accidente. Una cosa del genere non l’ho neppure sopportata quando facevo il pastore sulle Prealpi bergamasche».

Tre giorni nella sabbia, un’avventura davvero fuori dal comune, per di più in Algeria, dove gennaio è particolarmente pungente. «Mi sono ritrovato – continua il desaparecido — con un francese piantato in asso dalla sua Toyota. E ne abbiamo viste delle belle. Ad esempio è arrivata una vettura d’assistenza con due ponti rotti. Era una Range: i suoi due piloti si sono accorti che poco distante, insabbiata e con la frizione fuori uso, c’era una vettura analoga abbandonata da un equipaggio belga. Non ci hanno pensato due minuti, sono scesi, han-no smontato i pezzi che a loro servivano dalla vettura trovata, li hanno montati sulla loro e poi? E poi hanno pensato bene d’incendiare la macchina sciacallata e sono ripartiti a gran velocità».

La corsa verso il Senegal, insomma, offre quasi spaccati da codice penale. «E non è tutto! — esclama il bergamasco. — Un altro francese, in gara con una Yamaha, è arrivato col motore a pezzi. Perdeva olio da tutte le parti, non poteva più proseguire; ha aspettato il camion che gli faceva da assistenza, dove aveva caricato tutti i suoi pezzi di ricambio. Avrebbe potuto riparare la sua motocicletta invece ha pensato bene di caricarla sul veicolo che lo aiutava. Poi deve aver pensato che li in giro c’erano troppe moto di concorrenti, ritirati perché non se la sentivano fisicamente di proseguire, gente che aveva abbandonato il proprio mezzo ancora in efficienza. Questo personaggio, barba e baffi, ha tolto la propria targa e i propri numeri di gara, sostituendoli a quelli di una moto Honda.

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“Per una moto… regalata, posso anche tradire la mia amata Yamaha…” mi ha detto ridacchiando, allontanandosi nella sabbia e nella polvere». Fantascienza? Oppure Torri possiede una fantasia molto fervida, galoppante? «No, no, — ci dice il bergamasco — vi assicuro che sono scene che ho visto dal vivo: alla Dakar, scene del genere, capitano ad ogni tappa.. Resta poi da raccontare la singolare avventura che il pilota italiano ha vissuto per raggiungere la capitale del Niger, Niamey, ed uscire dalle sabbie della prima speciale.

«Dopo tre giorni sono finalmente riuscito a salire sul camion-scopa, abbiamo percorso una quarantina di chilometri, incontrando uno di quei giganteschi autocarri che fanno le prospezioni petrolifere, camion 8×8. Ero sul cassone con Fossati e con Consonni, piloti in gara con il Mercedes Unimog che curava l’assistenza della Honda Italia. Siamo scesi dal camion-scopa, preferendo passare su quell’altro mezzo. Un veicolo che marciava al massimo a 10-15 chilometri ora. E non vi dico che avventure: forature, rotture di ingranaggi vari: per recuperare la mia Guzzi Tap, la Range dello spagnolo Canellas e l’Unimog della Honda, abbiamo impiegato tre giorni.

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Quegli algerini, con quel camion vecchissimo, quando arriva la Dakar, interrompono il lavoro per gli statunitensi che cercano il petrolio e si dedicano al recupero dei veicoli abbandonati lungo le piste. Fanno anche buoni affari». Sembra insomma che questa Dakar offra la possibilità di divagazioni o di esperienze anche senza arrivare sulle bianche spiagge del Senegal: «E’ vero — fa il bergamasco — la gara ti offre mille storie, mille spunti. Quei tuareg sono stati davvero simpatici con noi: ci hanno preparato il couscous, hanno cotto il pane nella sabbia, ci hanno dato da bere. E’ stata davvero una bella esperienza. Anche un’impresa. Perché per loro l’interpretazione del tempo è bellissima, soprattutto nei confronti di noi europei che siamo abituati a correre sempre. Qui una simile mentalità non esiste.

E forse, travolto dai piaceri dei ritmi africani, Torri non si è preoccupato di dar segni di vita presso la carovana della Dakar e neppure a casa sua. «Avevo pensato di rimettermi in viaggio con la moto verso Algeri, una volta che l’avessi riparata. Poi ho cambiato idea, e sono venuto qui con l’aereo. La moto l’ho lasciata a Massi Messaud per qualche giorno. Ho avvisato casa? Si, ho telefonato l’altro ieri, ho parlato con mia moglie, poi con mia figlia, che ha appena compiuto sei anni. Ho salutato Valentina. Mi ha detto che sono il solito… scemo». Torri si dilunga a parlare della moglie Sandra, che a suo dire l’anno scorso si sarebbe risentita perché il marito non era partito per la Parigi-Dakar: «Ma voi le capite le donne? Un anno partecipi alla Dakar e ti fanno una testa così perché vieni in Africa; l’anno dopo non ci vieni, e si arrabbiano per il motivo inverso. Quest’anno, comunque, avevo deciso di partecipare. Ed eccomi qui, tra vecchi amici».

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1986-2021 | Sono passati 35 anni dall’addio di Sabine

L’elicottero glielo invidiavamo tutti. Lo sentivano arrivare da lontano mentre noi si arrancava sulla pista. Buche, salti, polvere. Soprattutto polvere. Quell’impalpabile fech fech attraverso il quale non solo non si vede, ma neanche si respira. Lui passava e dalla pancia dell’Ecureil dell’Aerospatiale una scritta a caratteri giganti sparava: Thierry Sabine.

Non era possibile confonderlo. Sia fosse stato il biondo, magro, simpatico Francois Xavier Bagnoult a guidarlo che lui stesso, volava bassissimo. Sfiorava le piste divertendosi, a volte a prenderci di mira. Se ti voleva fermare per qualsiasi motivo, lo faceva sfrecciandoti sul tetto e piazzandosi poi più avanti librato nell’aria. Gli altri elicotteri volavano più alti, pronti ad intervenire in caso di incidente, ma lui era il cane pastore di un gregge sparso, a volte, per un migliaio di chilometri.

Se lo vedevi alzarsi sulla verticale potevi immaginarlo con lo sguardo fisso lontano su un punto all’orizzonte. Magari decine di nuvolette di sabbia disseminate nel deserto che lui avrebbe cacciato, riunito, guidato. Se non erano bestemmie quelle che gli volavano incontro, certo, non si trattava di complimenti.

 

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Ed il sentimento che tutti provavano per lui in quei momenti era identico: odio; ma anche amore per ciò che riusciva a fare; spingerti dove, da solo, non saresti mai andato.
Neanche pagato a nessun prezzo. Ce lo confidavamo la notte, al bivacco, pelle poche ore concesse per il sonno prima dell’immancabile “briefing” delle sei, quando sarebbe riapparso, inappuntabile, sornione, istrione ad arringare il rally: alla Parigi-Dakar noi tutti giornalisti, fotografi, piloti, meccanici saremmo andati anche gratis.

E dietro a lui eravamo pronti a correre per un mese di fila. Finché Thierry si fosse presentato all’alba per darci le notizie sulla prossima tappa non ci avrebbe mai lasciato indietro. Non gli perdonavamo solo l’elicottero. Quell’aggeggio che sfotteva tenendolo lontano dalla polvere. Lontano inavvicinabile, come qualsiasi Dio che si rispetti. e per
questo motivo ad ogni fine “Dakar” lo punivamo, noi reduci, sulla spiaggia che da Sali Portudal porta alla capitale del Senegal: volava immancabilmente in acqua appena sceso dal suo elicottero.

1465160_10202535770305607_1163106290_nOrmai era un rito ed una tradizione insieme. Ma in quel momento parlava anche la voglia di una seppur parziale vendetta che lo avrebbe purgato di quel suo sbeffeggiarci dai cieli. Una purificazione che gli permetteva, ad ogni 22 gennaio dell’anno, di uscire dal suo ruolo di carnefice delle sabbie per ridiventare, il 1 gennaio dell’anno successivo, il generale di un esercito che per tre settimane non si sarebbe fermato se non dietro suo ordine.

Un ordine che lui, comunque, non avrebbe mai dato. Neutralizzare una tappa si poteva, era una maniera di rallentare la gara quando la tempesta di sabbia sbandava la carovana e costringeva i piloti al riparo, sottovento, delle proprie auto o moto, ma fermare la corsa mai. Non era proprio nella sua mentalità. II bello, il duro, il bestiale della Dakar è che il rally sarebbe comunque continuato, nonostante tutto.

Era l’unica certezza di una corsa altrimenti imponderabile. E anche il punto fermo di Sabine la cui ostinazione nel tentare di pareggiare in conti fra privati ed ufficiali si esprimeva principalmente nel rendere il raid più duro. Anno dopo anno, come se ciò potesse aiutare i1000370_10202535774785719_1168520339_n gentleman della corsa, invece di penalizzarli ulteriormente.

Ma questa era sopratutto la sua fissazione: l’uomo doveva prevalere sui mezzi, per cui negli ultimi tempi le tappe percorse con il solo aiuto della bussola erano aumentate. Dapprima c’era stato il solo Ténéré. Poi era stata la volta della Mauritania. Quest’anno addirittura Thierry scovava l’infernale Bilma-Agadem con i suoi 75 cordoni di dune e, non contento, riesumava anche la Guinea.

Al momento del tragico schianto, in cui oltre a Sabine hanno perso la vita altre quattro persone, tutto era al limite alla Dakar. Probabilmente anche lui stesso. Non erano solo i mezzi in gara ad essere provati, né solo i piloti, ma anche la sua organizzazione, e certamente Thierry Sabine “Le Magnifique”, “Jesus”, l’uomo dai molti soprannomi non si risparmiava.

Viaggiava in elFRANCE-SOIR N° 12.885 DU MERCREDI 15 JANVIER 1986icottero, è vero, ma era la sua voce un po’ stridula, metallica all’uscita del megafono che ti svegliava ogni mattina alle 6 per il “briefing”. Tu potevi avere ancora la polvere agli angoli degli occhi, sentirti stralunato, lui non lo sarebbe stato. Il suo trono mattutino era la sponda di uno dei camion dell’Africatours, e man mano che la gara proseguiva, e sempre di meno erano i concorrenti, più il discorso diveniva un motteggiare fra amici.

Un botta e risposta con i concorrenti sul filo di un umorismo sottile, tutto suo, tipicamente francese. Intraducibile. Ed introdotto, anche se ormai da due anni Thierry andava ripetendo che avrebbe ripetuto il briefing anche in inglese. Lo aveva accennato anche quest’anno, sul Tepasa, la nave che porta da Sete ad Algeri, ma nessuno gli aveva creduto.

Poi lui stesso, più tardi, vedendo Hubert Auriol parlare con un gruppo di giornalisti nella lingua di Albione gli aveva confidato: “Ma come fai? A me proprio non riesce”.
Una debolezza quella di non parlare le lingue. Se ne vergognava. Ma anche una cosa incredibile che il rally, nato come un avvenimento francese, fosse riuscito così relativamente in fretta ad espandersi, farsi conoscere come l’unica, l’ultima avventura degli anni 80′. Una cosa che la gente amava. La gente della strada, non solo i piloti. Chissà se gli sopravviverà.

Testo di Paolo Scalera
Tratto da “Dakar-Dakar 2”

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Dakar 1996 | Il richiamo alla Dakar di Winkler

Erano 4 anni che non facevo più la Dakar, mi mancava, finalmente riesco a organizzarmi meglio e sistemare gli impegni lavorativi. Nel 1991 Nikon ha deciso di assegnare la distribuzione al nostro gruppo, e si e dovuto fare una nuova società la Nital sulle orme della Swa, sono stati anni di fuoco dove ovviamente non si e potuto fare altro che mettere tutto l’impegno in questo progetto. Ma mi mancava qualcosa. Mi mancava l’adrenalina dell’avventura della Dakar. Dopo 4 anni praticamente di solo lavoro me lo sono meritato, e quindi decido: vado a farla.

Mi metto in contatto con Bruno Birbes e Pollini del team Assomoto con i quali avevo partecipato l’ultima volta. Oltre a provare sentimenti di forte amicizia per loro, con Bruno ci siamo conosciuti alla Dakar 1988, lui correva con una BMW e praticamente siamo stati insieme per metà gara, dividendo ansie e felicita, cosa che ci ha legati profondamente anche dopo la gara. Il loro team era perfetto: un’assistenza, una logistica, e Fatichi, il suocero di Bruno, grande meccanico che si e messo subito in opera allestendo per me un Kawasaki 650. La scelta della moto era facilmente dettata dal fatto che Bruno era concessionario Kawasaki.

Libero da impegni organizzativi e di preparazione della moto mi dedico all’allenamento fisico e in moto, facendo una grande preparazione. A dicembre ero in splendida forma!

La moto non la provo nemmeno, ma devo dire che era bellissima: semplice, piccola e maneggevole.

Prendo l’aereo per Granada dove mi aspettano tutti e dove si devono fare le verifiche tecniche e amministrative. Piccolo inciso: il taxi che dall’aeroporto mi portava all’albergo buca una gomma, sotto una pioggia torrenziale e da vero gentleman mi offro di aiutare l’autista donna. Inizio bagnato, inizio fortunato. Al mattino si parte per due prove, la prima viene subito annullata per il maltempo. La pioggia torrenziale della sera prima non accennava a calare neanche per un momento. Nemmeno il tempo per prendere confidenza con la nuova moto che e diventata un blocco di fango.

 

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Dopo un trasferimento arriviamo al porto per l’imbarco. Tutto procede bene, ci sono le cuccette e si dorme. Fattore non secondario, visto che in passato si dormiva per terra e non c’erano le cuccette per la traversata in naveda Sete ad Algeri. Che comodità! Prima coricarmi prendo l’Ariam, il medicinale per la malaria. Questa volta decido per questo farmaco perché si assume una volta alla settimana, e non tutti i giorni. Chiaramente il dosaggio è maggiore e mi viene un mal di testa terribile e una nausea spaventosa. Al risveglio sembra di essere passato sotto un camion. Sarà l’ultima volta che prenderò un antimalarico.

Finalmente in Africa, è sempre un’emozione sbarcare in questo continente pieno di fascino e avventura.

Partiamo per la speciale, ed è importante prendere confidenza con la moto nelle prime tappe. E’ una speciale molto tecnica tra le montagne, non sono in forma e mi stanco tantissimo, sicuramente mi porto ancora addosso l’effetto dell’antimalaria misto alla tensione. Non comincio troppo bene perché tutti e due i trip si guastano, scopro che è l’attacco della calamita sulla ruota. Poco male tanto non c’era navigazione. A metà speciale sono senza freno posteriore. Probabilmente non ancora abituato alla moto, ho tenuto il piede troppo appoggiato sul pedale e visto il ripetersi di molte curve è entrato in ebollizione l’olio.

Questa è la mia prima esperienza con il GPS. A parte la necessità di capirlo bene, da sicurezza, ti dice la direzione giusta ed è molto rassicurante. Senza l’ansia che ti assale quando non sei certo della rottura giusta, (prima te lo dicevano le tracce degli altri piloti). Però mi pento subito, seguendo le tracce ovviamente dritte per il waypoint, tutti seguono la via diretta, ma mi trovo nel bel mezzo di una salita degna di un mondiale di trial. Mi sono sempre chiesto dove portassero quelle tracce.

 

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Il GPS si ti dà la direzione, ma usandolo per strada e una cosa,  usandolo nel deserto ti porta in direzioni che ti portano ad incontrare difficoltà estreme. Continuano ad esserci delle tracce segnate da altre moto, ma questa volta decido di tornare indietro e seguire alla lettera il roadbook. I bei vecchi metodi di navigazione sono una sicurezza, seguendo le indicazioni trovo una pista bella e facile. Purtroppo la sera controllando la classifica mi accorgo che sono molto indietro e con davanti a me molti piloti molto piacere lenti. Mannaggia a me che ho seguito il road book. Imparando ad usare questo infernale GPS molti piloti hanno avuto agevolazioni sulla navigazione sopravanzandomi in classifica. Comincio un pò a maledire queste nuove diavolerie.

Il giorno dopo parto per la tappa. Mi sento bene, tiro parecchio e tutto procede bene, rimonto molte posizioni.

Ad un certo punto la pista ha una strozzatura, si stringe, si rallenta leggermente, raggiungo un altro pilota ma c’è tantissima polvere e non c’è modo di superarlo. Gli sto dietro per parecchio tempo, ma mi spazientisco e rischio il tutto per tutto, voglio passarlo a tutti i costo, ma della polvere prendo un grosso pietrone. A momenti mi cappotto ma sto in piedi per miracolo, mi vengono le formiche ai piedi per lo spavento.  Mi fermo per fare un check dei danni, vedo che il cerchione anteriore è tutto bollato e storto. Do una tirata ai raggi e con la coda tra le gambe finisco la speciale piano piano. Arrivo al bivacco e solo qui mi rammentano che la tappa era “marathon” ossia senza assistenza. Non posso sostituire il cerchione e mi trovo costretto a partire il giorno successivo nelle stesse condizioni in cui sono arrivato.

Si entra in Mauritania, conoscevo quelle piste, le avevo già percorse nelle precedenti edizioni, ma causa dei disordini nella zona a causa del fronte belisario si corre in una specie di corridoio transennato da balize, dove l’organizzazione si è fortemente raccomandata di non uscire per non incorrere nel rischio di entrare in un campo minato. 

Ai bordi della pista ci sono molte camionette dell’ONU.

La tappa è molto lunga e impegnativa con tante dune difficili, incomincia a calare il sole. In passato ho fatto parecchie tappe di notte e ne sono terrorizzato, tiro più che posso, ad un certo punto il GPS perde il segnale, seguo le tracce fin che posso e poi seguo semplicemente la stessa direzione. Che ansia. Maledico continuamente il GPS, che finalmente riprende il segnale e mi segnala che sono a soli 3 km dall’arrivo.

 

 

La mattina dopo mi aspetta una tappa dura. Si deve attraversare un erg di dune molto lungo, mi insabbio parecchie volte e consumo tantissima benzina. Faccio due calcoli, e i risultati mi dicono che non arriverò mai alla fine. Vado piano per non consumare e per fortuna la pista diventa più scorrevole e arrivo con un goccio solo di benzina nel serbatoio. La gara comincia a farsi davvero dura. Parto per una tappa difficilissima, praticamente un pianoro enorme di pietre grosse che mi mettono a dura prova. Mi stanco moltissimo, non puoi mai procedere seduto per riposare le gambe. Procedo in piedi sulla moto, sono cosi stanco che a volte mi siedo andando a passo duomo, arrivo col buio.

 

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Il giorno dopo la tappa prevedeva di percorrere la pista in senso contrario del giorno precedente. Le tracce sono ancora evidenti e senza nessun problema di navigazione tiro come un matto, raggiungo parecchi piloti. Tutto andava da favola, ero veramente messo bene in classifica, un solo piccolo inconveniente deriva dal GPS che segnava la rotta leggermente verso sinistra. Preso dalla bagarre e confortato dal fatto che parecchi altri piloti stavano procedendo in quella direzione, si va avanti. Che errore da principiante. Ci accorgiamo dopo diversi chilometri che non seguendo il GPS ci eravamo allontanati dalla pista. Cosi torniamo indietro fino a Zouerat. Siamo in sette, facciamo il punto, la pista si biforcava a V, e noi abbiamo seguito le tracce del giorno precedente. Uno decide di tagliare dritto, lo seguono in quattro, io e un altro decidiamo di tornare indietro, io del GPS non mi fido. Non più. Torniamo al famoso bivio, ci rendiamo conto che con i km fatti in più non saremmo mai arrivati al rifornimento di benzina.

 

 

Arrivano pero le macchine, e mannaggia a loro se ne fermasse solo una. Finalmente due giapponesi si fermano, gli chiediamo della benzina, ma è veramente difficile tirarla fuori dal serbatoio e perdiamo tantissimo tempo. Riparto sulla strada giusta, quanto tempo ho perso, mi metto a tirare più che posso, sapendo che ogni km fatto in più con la luce sono ore in meno regalato al buio. Viaggiare di notte è veramente una cosa brutta non si vede nulla, la pista è rovinata dal passaggio di tutto il rally ed e facilissimo cadere. Inoltre le dune, già difficili di giorno, di notte non ti perdonano e ti insabbi così tante volte non avendo il riferimento della fine della duna. Sono profondamente arrabbiato con me stesso per un errore cosi stupido.

Faccio parecchi km con Alberto Morelli forse e lì ci conosciamo meglio gettando le basi per una profonda amicizia e correremo insieme tanti rally futuri. Ovviamente arriva la notte, di conseguenza cado parecchie volte, per fortuna ci sono poche dune ma tantissima erba a cammello,(sono delle montagnette di sabbia dura con sopra dei ciuffi di erba the devi zigzagare, me se ne prendi una il volo è inevitabile). Arrivo all’una e naturalmente come una buona legge di Murphy scopro che è una tappa Marathon. Pulisco il filtro e controllo l’olio, ero a secco, me lo faccio prestare e crollo in braccio a Morfeo.

Per la cronaca, i 5 motociclisti che tagliarono dritto non sono arrivati e si sono ritirati tutti.

Al mattino si riparte, la moto si avvia in una nuvola di fumo. La sera prima al buio avevo messo troppo olio, ne tolgo un po’ e riparto. Il percorso è veramente duro, sabbia molle alternati con pietroni grossi. Si fa il pass di Nega (un posto infernale, lo avevo già fatto al contrario in salita, una pendenza infernale ed è rimasto famoso perché le auto si son quasi fermate tutte tanto era ripido). Ma in discesa la musica è cambiata.

 

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A 30 km dall’arrivo di tappa prendo una buca abbastanza forte, nulla di speciale ma sento un rumore metallico. Rallento per vedere cosa sia successo: niente freno. Mi fermo e guardo meglio, vedo il tubo dell’olio tranciato di netto e il forcellone dalla parte destra si è staccato di netto dall’attacco girandosi all’indietro.

Piano piano riparto e arrivo.

Birbes mio amico e compagno di tante avventure mi accoglie all’arrivo, ero disperato per il mio forcellone. Decidiamo di andare nel paese vicino per vedere se per caso c’era un meccanico. Troviamo un “saldor” come li chiamano da quelle parti. Questo prende subito il cannello, Lo blocco! E’ alluminio, non puoi saldarlo cosi! Bruno cerca di ingegniarsi, vede una sedia e si accorge che le gambe sono perfette per risolvere il problema, si incastrano perfettamente dentro al forcellone, avendo forma rettangolare e le infiliamo dentro e poi ce ne torniamo al bivacco. Tutta la notte aspettiamo i camion assistenza, ci vuole assolutamente il una saldatrice al tig per l’alluminio.

Arriva il camion Honda France, loro hanno il tig ma la proverbiale simpatia transalpina non si smentisce mai, nonostante la nostra insistenza non ci prestano la saldatrice. Alle tre del mattino arriva la Yamaha e loro sì che sono gentili e mi promettono che ci daranno una mano. Io però ero stanchissimo e vado a dormire, Bruno mi rassicura ci penserà lui ad effettuare la riparazione. Effettivamente al mattino trovo il forcellone saldato e con un fazzoletto di alluminio che chiudeva la parte rotta.

Saluto Bruno, che era aviotrasportato, parto e ad un ritmo di tutta sicurezza arrivo a Kaies.

Anche questa era una tappa Marathon quindi le moto si portano al parco chiuso ed è vietato toccarle. Mentre vado a farmi timbrare il passaporto perché siamo entrati in Mali, vedo passare un camion scopa e vedo che su ha una moto verde. La guardo meglio ed è una KLR come la mia! Mi viene l’idea di cambiare il forcellone, lo smonto tutto felice sapendo che forse cosi avrei potuto finire la gara, e mi preparo per la sostituzione, ma mi beccano subito. I commissari mi cacciano a male parole, decido di mangiare un po’ al buio e aspetto che si allontanino per ritentare più tardi.

 

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Non sono un bravo meccanico ma con pazienza e con logica si fa tutto, solo che ci metto tanto tempo a fare le cose. Anche perché al buio e molto difficile e non si vede nulla, ma ovviamente non potevo accendere la pila altrimenti i commissari mi avrebbero scoperto. Riesco a montarlo, ero stanchissimo ma non riesco a montare la pinza del freno e mi accorgo che era diversa e diversi erano gli attacchi. Ritorno alla moto ritirata e prendo anche la pinza, il tutto facendo un giro lunghissimo per non farmi vedere. Riesco a montarla resta solo di montare la ruota, tocca al perno e scopro che anche lui era diverso rispetto alla mia. Mi accorgo che la mia moto era dell’anno precedente, mentre quella ritirata era dell’ultimo anno e chissà perché Kawasaki aveva cambiato così tanti particolari. Ero stanchissimo e probabilmente mi è venuta una crisi di nervi, mi sono messo a piangere come un bambino.

 

 

Vengo scoperto dal commissario e probabilmente vedendomi in quelle condizioni ha provato pena per me, e intenerendosi mi ha aiutato a finire il lavoro che non sarei più stato in grado di finire. Cominciano a vedersi le prime luci dell’alba. Appena finito l’ho abbracciato e baciato per dimostragli la mia gratitudine. Una veloce colazione e si riparte, stanco ma felice di essere sulla mia moto perfetta come nuova.
(NB: a Dakar ho poi risostituito il pezzo con il mio rotto, ho scoperto che la moto ritirata era di un italiano e ora il Kawasaki è nel mio garage tra le moto a cui tengo di più e dentro al forcellone ci sono sempre le gambe della sedia.

Avevo già fatto questa speciale e me la ricordavo come una tappa lunghissima e difficilissima. Il paesaggio è cambiato e corriamo all’interno di una foresta, dopo tanta sabbia fa piacere vedere un po’ di verde. Si vedono animali, molte scimmie. Si deve anche guadare un corso d’acqua profondissimo, Auriol mi aiuta e spinge la moto che si era spenta. Lungo la sponda del fiume c’era una ecatombe di moto, tutte con problemi, filtri intasati, marmitte piene d’acqua. Per una volta ho la fortuna dalla mia parte, il kawa riparte quasi subito, dopo aver asciugato il filtro.

 

 

Si attraversano tanti paesini, la gente si vede ai bordi, sorridono tutti, esprimono gioia nel vederti. Che contrasto con la grande città, qui siamo praticamente blindati nel campo. L’indomani parto per una tappa di montagna, la stanchezza accumulata era tantissima, ma si comincia a sentire un certo profumo di arrivo. Arrivo in un punto di fesh fesh (sabbia borotalco che non vedi il terreno). Cado. La pista era stretta, sopraggiunge un’auto, era sicuramente tra le prime in classifica (ma nel trambusto riesco ad identificarla). Si ferma e si mette a suonare come un pazzo, affinché liberassi il passaggio. Cerco di fare il più in fretta possibile, ma ero davvero stanco, stanchissimo. Rialzo la moto, che non parte, e per premura la spingo a lato. 

Il pilota dell’auto, spazientito mi spinge e mi butta a terra al lato della strada. La sua fortuna è stata che sia riuscito a passare velocemente. Ero talmente arrabbiato che gli ho detto tante di quelle parolacce e maledizioni da vergognarmi. Nella caduta si è rotto il faro e il serbatoio dell’acqua del radiatore di recupero. A fatica ritorno in pista in un punto molto ripido. Quel pilota è stato fortunato, perché se lo avessi riconosciuto al al bivacco non so cosa avrei fatto.

 

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L’ultimo giorno ci sono due speciali da percorrere e tanta tensione. L’obiettivo è arrivare. La moto è allo stremo, non ce la fa più. Nell’ultima speciale che porta al Lago Rosa c’è una sabbia mollissima, e sentire urlare il motore agonizzante mi stringe il cuore. Sale l’ansia. Ho in mente il povero Angelo Cavandoli che ruppe la moto a 3 km dall’arrivo.

 

 

L’arrivo è una liberazione! Arrivato! Stava diventando un’ossessione, gareggiare 20 giorni con questo unico scopo riempie di gioia ma al tempo stesso si avverte anche un vuoto interiore. Per me il post Dakar è una situazione da metabolizzare. Si deve recuperare una stanchezza micidiale che rimane per un po’ di tempo, ma mi viene anche un po’ di crisi esistenziale. La Dakar da. La Dakar toglie. Tutte le volte.

 

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Questa Dakar 1996 è un premio, mi ha dato tanto e si è presa tanto, senza al Team Assomoto e a Bruno Birbes non ce l’avrei mai fatta.  Ho anche ho conosciuto una persona meravigliosa, grazie Alberto.

Fonte foto e testi: pagina facebook di Aldo Winkler

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Dakar 1985 | Beppe Gualini. Ritirato sarà lei!

di Nicolò Bertaccini

E adesso basta, questo sassolino è giusto toglierselo dalle scarpe, anzi, dagli stivali. Perchè in giro ci sono mille documenti, tutti ufficiali e su questi compaiono solo sentenze: fuori tempo massimo, ritirato, squalificato, settanduesimo con ventidue arrivati al traguardo (!?). Invece, sul Lago Rosa e a Dakar, nel 1985 Beppe Gualini c’è arrivato. Eccome. Certo, a modo suo. Però se rompi un motore, ti fai trainare, cadi in mare, ti tirano i ricambi manco fossi Jeeg robot, allora è giusto che ti venga riconosciuto quanto hai fatto.

Dicevamo, anno 1985, il nostro Buon Samaritano Gualini è in sella ad una Yamaha Tenere allestita con un kit Byrd. É giunto alla penultima tappa, il Lago Rosa ed il traguardo sono ad un passo. Manca poco, si tratta di gestire quel che resta della moto, un occhio ai fuori tempo ed è fatta. Succede l’imprevisto, anzi, l’ennesimo imprevisto. La moto si ferma. Beppe fa mille controlli, mille check ma la moto non ne ha più, il motore è andato, cotto. Manca poco, si sente già l’odore di acqua salata ma non basta. Beppe non demorde. Ci prova. Da lì a poco incredibilmente passa il camion assistenza Byrd (Belgarda Yamaha Racing Division) che “non si sono neppure fermati, mi han buttato giù un motore e sono ripartiti”.

Il camion era preso dal seguire i piloti ufficiali Belgarda ma si ferma per capire di cosa avesse bisogno Beppe. Serve un motore, ad una tappa dall’arrivo c’è la possibilità di scaricarne uno al volo e lasciarglielo perché provasse a montarlo e farlo funzionare. Un motore non nuovo, anzi un po’ sfatto. Però con un grandissimo pregio: si accendeva e funzionava. Per Beppe parte una corsa contro il tempo, smontare e rimontare per poter arrivare entro il limite. Quindi, dopo una ventina di giorni di competizione, con la moto che ormai si regge assieme solo per miracolo ed una stanchezza fisica che difficilmente si può immaginare, il nostro si mette a sostituire il motore della sua Ténéré. Roba complessa in una officina.

 

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Ma Beppe ha metodo, conoscenze, pazienza e una forza disumana. Sostituisce il motore e riparte. Certo, la moto riparte alleggerita di alcune inutili infrastrutture, come si può vedere in alcune foto. D’altronde non è che potesse mettersi a rifinire le virgole, l’importante era arrivare al bivacco con la moto accesa, poi avrebbe potuto rattoppare ulteriormente in vista dell’ultimo giorno di gara. E siamo al fatidico ultimo giorno, l’ultima tappa, quella in cui nella testa di ogni pilota riecheggia una sola frase “non fare cazzate”. Eppure, come abbiamo visto succedere per tanti, l’ultimo km è sempre il più insidioso.

Beppe corre con la sua Yamaha che ormai sembra uscita dal film Mad Max. Corre lungo il bagnasciuga, dove la sabbia è più compatta e più agevole da attraversare. Succede ovviamente un imprevisto, altrimenti non sarebbe la Dakar. Sta procedendo assieme ad altri due piloti, sono abbastanza ravvicinati. All’improvviso un’onda anomala o comunque spinta un po’ più in avanti sulla battigia ed ecco i tre che si ritrovano in terra. Beppe fa un bel tuffo. Si rialza biascicando qualcosa in bergamasco e prova a riavviare la moto scaricando sul pedale di avviamento rabbia e frustrazione. Nulla. Riprova e nulla. Riprova con sempre più rabbia fino a quando rompe il kicksarter.

É finita, la moto non parte più. Anche se ormai è fatta, potrebbe caricarsi la moto in spalla e arrivare al traguardo. Il destino però non ha finito con Beppe e gli mette sulla pista un altro partecipante. Legano la moto e la Yamaha si fa trascinare per qualche metro. Un centinaio ne serviranno prima che un borbottio ed uno scoppio annuncino la ripartenza. La manovra non rientra fra quelle vietate, farsi aiutare per avviare la moto è concesso. É fatta, la moto riparte e Beppe può portarla fino al traguardo, trattenendo il fiato. Ventitreesimo recita il documento nelle sue mani. Ed alla fine, fra mille siti, mille reportage, mille documenti ufficiali l’unico che contiene la verità, per noi, è quello di Gualini. Lui nel 1985 a Dakar ci arrivò, entro il tempo limite.

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Dakar 1992 | Patrizio Fiorini: quando persino Peterhansel mi chiese chi fossi…

È vero, alla Dakar ci sono persone speciali. Ne ho conosciute tantissime e con grande stupore, anche tra i piloti ufficiali. Tanti, anzi, tutti quelli coi quali ho avuto a che fare, anche per uno scambio di battute, sono stati tutti gentili, disponibili e per nulla superiori. Franco Picco non ha esitato a smontarmi sella e serbatoi per trovare il motivo di un piccolo inconveniente. Anche quando mi investì l’ubriaco a Montpellier, lui e Edi Orioli si fermarono per aiutarmi a ripartire con una pacca sulla spalla “dai tieni botta che ce la fai” che fece più effetto di qualsiasi antidolorifico. Franco mi diede gli strumenti senza esitare… “me li paghi poi a casa”.

Danny La Porte alla Le Cap fece il mio tempo al prologo e ci scherzammo su in fila per la cena al primo bivacco in Africa. Meoni non avevi neanche bisogno di cercarlo, ti salutava prima lui e ti chiedeva come va. In Passato il “Bogio” Andrea Marinoni mi diceva “bravo, vai piano…” ed io “non c’è problema, più di così non vado!!”

Ma chi mi ha fatto persino sorridere è stato il grande Stèphan Peterhansel. Alla Le Cap mi accompagna sul suo furgone camperizzato “Tullio Provini”, con Chicco Piana e rispettive signore. La moto infilata metà in bagno e metà in corridoio. Una tirata fino a Rouen dove erano allestite le verifiche. Passo la parte amministrativa e entro in un capannone affollato di gente coi piloti in fila per marche. Io spingo la mia moto e mi accodo, tutte Yamaha, private e ufficiali, in testa Motor France e Byrd.

Arrivo e già mi guardano, unico coi meccanici al seguito e due signorine che mi aiutavano a tenere documenti, casco e tuta, mentre Tullio e Chicco si prodigavano a fissarmi le luci obbligatorie posteriori che avevo ignorato. Pochi istanti e nel capannone irrompono dieci (10!) miei amici con un urlo da stadio “FIOREEEE” partiti da Bologna senza dirmi nulla, tutti in un camper da sei. Una vergogna incredibile, pure i tifosi!

Poi finalmente si parte! Con i road book di metà gara infilati ovunque nella giacca, vestito come un palombaro dal freddo che c’era. Due giorni di statali e provinciali fino a Marsiglia, passando da Parigi e la Borgogna. In un tratto di montagna, nevicava e l’ansia di arrivare in ritardo mi fece saltare diversi punti di ristoro dove i locali avevano allestito delle vere e proprie feste di paese con rampe, archi, striscioni e interviste. In un paesino mi diedero un caffè ustionante e mi appoggiarono due croissant sulla cassa filtro, via al volo anche lì con la merenda in bilico sui serbatoi.

Così raggiunsi un gruppo e mi accodai, c’erano persino le due Yamaha ufficiali e il passo era buono per me, in terra c’era uno sottile strato di neve compatta. Arrivati ad una grossa area di servizio vedo che entrano tutti per una sosta e il pieno, mi accodo, ma prima di entrare Peterhansel, probabilmente ingannato dal mucchio di neve a lato strada, non vede il marciapiedi e scivola in terra. Lo sento smadonnare, il suo assistente (su moto stradale) lo aiuta a sollevare a fatica, allora scendo e gli afferro il codino e in tre tiriamo su al volo la moto.

Appena entrati, insieme al distributore, un’altro urlo da stadio “FIOREEEEE”, quattro amici ubriachi, in giro per cantine a festeggiare il capodanno! Appena hanno visto delle moto sono corsi urlando ad abbracciarmi. Sento una mano sulla spalla ed era lui, Peterhansel, che mi guarda dietro la schiena per leggere il nome e mi dice: “excuse moi Fiorini, ma tu chi sei in Italia con tutti si tifosi che ti porti dietro?” La mia risposta fu: “nessuno, non ho mai vinto niente, ma ho un sacco di amici”. E ancora risate!

Fenouil 1979

Ve lo siete mai chiesti: perchè proprio Dakar?

Perchè Dakar? Vi siete mai fermati a pensare perchè Sabine abbia deciso di far terminare la sua avventura proprio nella capitale del Senegal? Diverse volte abbiamo provato a risalire all’origine della scelta, cercando informazioni certe. Le uniche cose che si trovano sono ipotesi.

Certo, Sabine avrà sicuramente cercato una città affacciata sul mare, con un porto che agevolasse la logistica del rientro, una città francofona. Però Dakar non è la sola. Avrebbe potuto scegliere Algeri e pensare al suo raid in modo differente, rendendo ancora più agevole il rientro in Europa.

Insomma, dopo anni di studio della corsa africana la risposta non saltava fuori. Solo ipotesi. Sensate, legittime, ma ipotesi.

Come spesso accade la soluzione del problema la si trova ponendo attenzione a come si formula la domanda, a dedicare tempo a capire cosa cercare e cosa chiedere, prima ancora di iniziare a cercare e chiedere.

Quindi dal chiederci “perchè Dakar” siamo arrivati a riformulare la domanda e a chiederci: chi potrebbe saperlo? Chi era in contatto con Sabine ed è ancora oggi raggiungibile. Con una risposta univoca che manco la Cavallina Storna il nome è saltato fuori subito: Jean-Claude Morellet, noto a tutti con il nome di Fenouil.

Fenouil è un giornalista, fotografo e motociclista francese, uno di quelli che ha partecipato sin dalla prima edizione alla pioneristica gara organizzata da Sabine e che in seguito ne è stato anche Direttore Corsa.

Gli abbiamo scritto e gli abbiamo chiesto se si ricordasse il perchè di Dakar, se ci fosse un motivo, se Sabine gliene avesse mai parlato.

I due si conobbero durante la seconda edizione della Abidjan-Nizza, quella in cui Sabine rischiò di perdersi e che gli fece venir voglia di creare una gara che avesse direzione opposta, dall’Europa all’Africa.

Fu lo stesso Fenouil, stando a quanto ci riporta lui, a suggerire a Thierry Sabine di andare a Dakar. Fenouil aveva già raggiunto la capitale del Senegal nel 1973 in sella ad una Kawasaki Big Horn (il viaggio è raccontato in “In moto a Dakar nell’inferno del Sahara” edizioni Mare Verticale).

Quindi il mistero circa la scelta della destinazione è questo. La volontà di un avventuriero irrequieto e temerario come Sabine di organizzare una gara che partisse in Europa ed arrivasse in Africa e l’esperienza di un amico fotografo, giornalista ed avventuriero che gli suggerì la capitale senegalese.

Probabilmente fra gli ingredienti che hanno reso mitico ed immortale questo raid c’è l’intuizione di partire dall’Europa, la visibilità della partenza da Parigi hanno contribuito a rendere leggendaria la gara.

Testo di Nicolò Bertaccini

 

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Dakar 1987 – Belgarda, fiducia nel mono

Dopo il forfait di Marinoni è Picco il caposquadra 

Dopo il successo di Franco Picco nel Rally dei Faraoni le credenziali della Yamaha – Belgarda sono altissime; il valore dei piloti è fuori discussione: scenderanno in gara Picco, Medardo e Grasso a sostituire Andrea Marinoni che non potrà DAKAR 87 Piccocorrere a causa dei postumi di un incidente.

Resta un solo neo: la moto a disposizione è sempre la 660 monocilindrica. Leggera, maneggevole ed affidabile, lamenta il problema della potenza, e di conseguenza della velocità massima, nel confronto con le bicilindriche BMW ed Honda e con la stessa Yamaha 900 quattro cilindri utilizzata dai francesi.

Ultimamente la Paris-Dakar è stata dominata dalle grosse pluricilindriche. moto che permettono d’andare a quasi 200 Kirih negli immensi rettilinei di sabbia del deserto e guadagnare tempo nei confronti delle più piccole monocilindriche. La scelta della Belgarda, invece, cerca di sfruttare le doti di maneggevolezza e di maggior semplicità ed accessibilità meccanica.

Un progetto legato anche alla commercializzazione dei mezzi: seppur modificate direttamente dal reparto corse Yamaha in Giappone, le Tenere 660 rispecchiano le caratteristiche del prodotto di serie. La potenza è stata aumentata ad oltre 50 CV, la capacità dei serbatoi è di 55 litri mentre il peso a secco supera di poco i 150 Kg.

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Caratteristiche che nei piani stessi della Yamaha dovrebbero consentirle di fronteggiare le varie pluricilindriche e recuperare nei sentieri della savana il tempo perso sui lunghi tratti rettilinei desertici.
Della stessa opinione è anche Picco: «Per riuscire a vincere la Dakar non basta poter disporre di tanta potenza. Gli altri Picco_Auriol_Neveu_1987potranno andare più forte, ma la guida di una moto più pesante richiede anche maggior impegno fisico. Dopo molte tappe, la fatica può giocare un ruolo determinante per non aumentare i rischi di cadute ed arrivare in fondo».

Hai un pò di rimpianti per non poter correre con la FZ 900 che useranno Bacou e Olivier?
«I francesi stanno portando avanti il progetto del motore derivato dalla FZ da alcuni anni, ma finora non sono riusciti a raccogliere dei risultati positivi. Mi auguro, poiché la marca da difendere è la stessa, che sia l’anno buono, ma io non l’ho mai provata e quindi non posso dire nulla. Aspettiamo che finisca la Dakar, ne riparleremo per quella dell’88». 

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DAKAR 1998 | YAMAHA domina, ma gli Austria Korps incalzano

peterhanselE’ stata la gara della vittoria – la numero 6 ed un record – annunciata e scontata di Stéphane Peterhansel e della sua Yamaha 850 bicilindrica. Se per il pilota francese c’è la soddisfazione di avere sorpassato Cyril Neveu, fermo a 5, per la Casa giapponese è l’affermazione numero 9. E probabilmente sarà l’ultima poiché la Yamaha ha annunciato il ritiro dalla “più dura gara al mondo”.

Lascia lo spazio alle monocilindriche, alla KTM e alla BMW e, probabilmente, al ritorno della Honda. Di fatto la supremazia di questo fantastico duo è stata evidentissima sin dall’inizio della gara. Lasciati sfogare gli animi in Europa, nelle tappe in Francia e in Spagna dove l’avvicinamento all’Africa è stato un fatto di routine più che una gara vera e propria, “Peter” ha accumulato subito un notevole vantaggio, un distacco che ha saputo amministrare con la consueta intelligenza nella seconda settimana.

Solo piccole incertezze in un percorso trionfale: qualche caduta, lievi problemi tecnici alla velocissima bicilindrica Yamaha XTZ 850 TRX; insomma, niente che davvero potesse preoccupare questo grande campione che potrebbe, però, non schierarsi più alla Dakar con una moto: «Se la Yamaha lascia – così ha detto all’arrivo – abbandono anch’io. Sono troppo legato a questa Casa per accettare un’altra offerta. Potrei tornare in Africa solo guidando un’auto».

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Ci ha provato a insidiare questo strapotere lo squadrone KTM: una specie di armata motorizzata diretta dall’ex pilota Heinz Kinigadner, composta da dieci piloti ufficiali e da una numerosa schiera di privati. Le KTM LC4 660 non hanno potuto reggere la stessa andatura della bicilindrica giapponese ma si sono difese benissimo vincendo la maggior parte delle prove speciali (12 su 19). Su 55 piloti arrivati sulle spiagge di Dakar ben 31 erano in sella a una KTM.

Nonostante Peterhansel fosse inavvicinabile – lo dicono gli stessi uomini della Casa austriaca – l’avere piazzato Fabrizio Meoni alle sue spalle, con un distacco non proprio impossibile su 18 giorni di gara, è stata un’ottima performance. Il pilota italiano è stato il vero avversario del francese: attento nella navigazione nonostante i continui malfunzionamenti del suo GPS, un vero duro nel sopportare prima di tutto i suoi 40 anni e poi l’infortunio alla spalla sinistra, capace di trovare la giusta via in una tempesta di sabbia e di riuscire da privatissimo ad arrivare al terzo e al quarto posto nelle Dakar del ’94 e del ’95.

E anche lui potrebbe non essere più al via il prossimo anno poiché, pur essendo un “ufficiale” a tutti gli effetti, non ha un contratto con la KTM che lo tuteli per il futuro. Rientrando in Italia ha ritrovato la vita di tutti i giorni e una concessionaria di moto da mandare avanti. Alle sue spalle, sempre con la KTM 660, Andy Haydon un pilota australiano sicuramente abituato ai grandi spazi e già a suo agio alla prima Parigi-Dakar. E poi un sudafricano, Alfie Cox, già pilota di valore nell’enduro. Questi due piloti, al di là della loro ottima classifica, dimostrano come anche dei novizi della maratona africana possano far valere le loro capacità nella guida fuoristrada.

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La mancanza di veri trabocchetti nella navigazione ha quindi fatto emergere chi va davvero forte al di fuori dell’asfalto, ovvero i piloti da enduro. Non dimentichiamo che lo stesso Peterhansel è un protagonista dell’enduro Mondiale. Anche il nostro “Giò” Sala, più volte iridato della categoria, è andato fortissimo, trasformando la gara in una lunghissima mulattiera. Si è piazzato al 17esimo posto per qualche errore di lettura del road-book e per qualche problema di accensione della sua KTM. Ha rischiato anche di non finire la gara a soli 2 km dall’arrivo a Dakar per una caduta che lo ha lasciato senza conoscenza per pochi attimi e con la moto quasi distrutta.

GLI ALTRI ITALIANI Onore anche agli altri italiani che hanno terminato la durissima gara: 24esimo Guido Maletti (ben 11 partecipazioni) con la Maletti 1998-1sua Kawasaki KLX 650R, ma poteva arrivare più in alto nella classifica se non avesse preso la penalità forfettaria di nove ore per il malfunzionamento dell’accensione elettronica. Non si è perso d’animo e ha continuato a risalire nelle posizioni. Gian Paolo Quaglino e la sua Honda XR400R si sono classificati al 29esimo posto. Quaglino è alla Dakar numero 5 ed è la terza che finisce. Subito dietro, Aldo Winkler con la KTM 660. E’ uno dei veterani con le sue otto partecipazioni. Il torinese vince il premio fair-play perché, come un gregario d’altri tempi, ha generosamente dato a Giò Sala, bloccato da guai elettrici e “ufficiale” KTM, la centralina elettronica di scorta della sua Kappa.

E poi viene Roberto Boano (38esimo ma con 47 anni alle spalle), una volta crossista di buona fama e ora conosciuto come il padre di Jarno e Ivan, molto più che giovani speranze dell’enduro. Ha fatto la Dakar con la fida Honda Africa Twin, che è pur sempre una bicilindrica ma è lontana anni luce dalle prestazioni della Yamaha che ha vinto; non fosse altro che per il maggiore peso, la minore potenza e le diverse, e meno sofisticate, sospensioni. Al cinquantesimo posto Lorenzo Lorenzelli con la sua Suzuki DR 350. Ha fatto tutto da solo, senza un meccani-co ad aiutarlo, arrivando qualche volta tardissimo ai bivacchi, ma sempre spin-to dalla solidarietà degli altri piloti.