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DAKAR 1989 | Girardi e il favore inaspettato

Testo di Nicolò Bertaccini

La Paris-Dakar, quella che tutti abbiamo amato e che ancora amiamo, non smette mai di restituirci racconti. La passione di ognuno permette di tener vivi i ricordi e ogni tanto fa riaffiorare un ricordo, un aneddoto. Questo viene dalla Spagna e ci viene riportato da Joan Marti Utset, un amico del nostro sito, che ringraziamo per la condivisione. Come tutti i racconti che risalgono ad oltre trent’anni fa non tutti i punti sono chiari, non tutti i ricordi sono nitidi. Però gli elementi sono sufficienti per ricostruire la storia.

Siamo nel 1989, undicesima Dakar. Joan è al seguito della carovana in un team che accompagna un gruppo di giornalisti. Stanno seguendo la gara, la documentano, la raccontano. Ad un certo punto, siamo all’ottava tappa, poco prima della metà della gara, la Termit – Agadez, vedono una moto a terra. Si fermano e vedono il pilota tramortito: ha subito una botta alla testa e non è presente a se stesso. Con lui c’è uno dei compagni di squadra. Il pilota a terra a Alessandro Girardi, pilota del team Assomoto in sella ad una Honda XR600.

 

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Il suo compagno di avventura, di conseguenza, deve essere uno fra Canella, Pollini o Viziale. Il compagno si assicura che Joan e gli altri prestino il dovuto soccorso e gli raccomanda di caricare la moto, dopodiché parte. Nel gruppo di giornalisti c’è anche un medico, cosa abbastanza frequente allora. Si rende conto che Girardi non è in condizione e lo carica in auto. Qui comincia la cosa incredibile.

Joan prende la moto di Girardi e, nonostante il manubrio storto e qualche altra ammaccautra, la porta fino al bivacco di Agadez, tappa fissa della gara di Sabine. Appena arriva cerca il team cui consegnare la moto e poi si ricongiunge ai suoi. Il suo compiuto è terminato, può rientrare in Spagna. C’è un particolare. Quando arriva ad Agadez, all’arrivo di tappa, l’organizzazione gli chiede la carta di controllo.

Joan dice di averla persa e la direzione gara, all’epoca ancora molto flessibile, si annota il numero di tabella della moto, numero 17.

Joan torna a casa, attraversa l’Algeria e arriva a Barcellona. Ovviamente continua a seguire la corsa, raccoglie informazioni ed immagini come può, come tutti noi che eravamo a casa. Ci sono però le immagini dell’arrivo, gli ultimi km e la festa. Joan è davanti al suo televisore e qualcosa attira il suo sguardo: una tabella numero 17. Girardi ha ripreso la moto ed è arrivato sul Lago Rosa, alla fine della corsa. Probabilmente il giorno di riposo ad Agadez gli ha permesso di rimettersi in sesto e di continuare la sua avventura nel deserto.

Non sappiamo come arrivare a Girardi, però ci facciamo portatori del messaggio di Joan che a distanza di oltre trent’anni vuole complimentarsi con lui e raccontargli del suo piccolo aiuto.

Ndr: Alessandro Girardi è classificato in 42* posizione alla Dakar 1989, unica volta sul Lago Rosa in 3 partecipazioni.

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DAKAR 1989 | Il diario di Aldo Winkler

La decisione di partecipare alla Dakar andava presa entro giugno. Presa la decisione c’era il tempo sufficiente per organizzarsi e prepararsi, a 360 gradi e anche oltre. Io ero reduce dall’edizione 1988 in sella ad una Honda ufficiale monocilindrica. Honda era campione in carica, grazie al trionfo di Orioli con il bicilindrico. I rapporti fra Honda ed il team di Ormeni che si occupava di gestire il team italiano si erano rotti. Così ricevetti da Honda Italia il diktat di non restituire la moto con cui avevo partecipato ad Ormeni.
Quando prendo la decisione di partire la moto è ancora nel mio garage. Penso che sarebbe un ottimo punto di partenza poter contare su di lei e mi azzardo a chiedere al dottor Manicardi, presidente di Honda Italia, il permesso di riportare la moto sulle piste africane. Lui non solo acconsente ma mi dice di prendere anche le moto utilizzate da Kasmakers ed Everts (il papà) per poterci ricavare un set di ricambi


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Non mi pareva vero. Certo, le moto e le varie componenti avevano un passato tribolato alel spalle, erano tutte segnate da partecipazioni alla Dakar, quindi ci ricavai molto poco (un motore e…mezzo). Però smontare e rimontare pezzi con sopra i nomi di Orioli, De Petri, Balestrieri, Terruzzi, Everts e Kasmakers è stato forte. Mi sentivo un po’ come il dottor Frankenstein del romanzo di Mary Shelley.

Non riuscii ad inserirmi in nessun team e partecipai quindi da privato e in solitaria. Ingaggiai Mario Barbiero come meccanico aviotrasportato e approntai 3 casse di ricambi che caricai su 3 camion diversi, per precauzione. L’edizione precedente ero giunto 19° sul Lago Rosa con il rammarico di una penalità di tre ore per un salto di controllo orario in Francia. Nutrivo la segreta ambizione di poter entrare nei dieci. Onestamente però, l’obiettivo primario era quello di arrivare in fondo.

I mille preparativi fanno volare i mesi, si fa il tempo di partire molto velocemente.

La gara è subito segnata da un incidente mortale: un pilota Giapponese muore durante il trasferimento in Francia centrato da un ubriaco. Gli incidenti e anche la morte sono elementi con cui indubbiamente sai di dover fare i conti quando partecipi a certi eventi, però quando poi accadono colpiscono nel profondo fino a minare la voglia di proseguire. In Tunisia ho saltato un timbro, come accaduto l’anno precedente in Francia, ma me ne sono accorto e sono tornato indietro, perdendo però parecchio tempo.

Nella tappa che arrivava a Tumu (Libia) mi ero fermato su un pianoro di sabbia, assieme ad alcuni altri piloti che come me si erano persi. Mentre cercavamo di capire la giusta direzione miwinker11-1989 rendo conto che un altro pilota, Francese, anche lui senza più la giusta rotta, mi sta puntando. E’ girato di lato, distratto nel cercare la giusta via e non mi vede. Da qui cominciano i miei guai! Fortuna vuole che nessuno si sia fatto male, ma il retro della mia moto si è piegato e i serbatoi posteriori toccano la ruota. Ci mettiamo in tre sulla moto per far leva a provare a raddrizzarla quel tanti per consentirmi di concludere la tappa. L’arrivo a Tumu aveva due caratteristiche: era la sera del 31 dicembre, non era previsto il supporto degli aviotrasportati. Quindi, mentre tutti festeggiavano il Capodanno con un cenone luculliano e tanto di fuochi d’ artificio, io sono stato costretto a lavorare per risistemare la moto con il crick preso in prestito da un concorrente in auto.

Dirkou – Termit: Niger. Tappa di puro deserto con tantissime dune difficili da interpretare. Faccio buona parte assieme a Boano che arrancava tantissimo con il suo Africa Twin. Termit è un posto sperduto nel cuore del Niger, con solo un rudere di casa. L’Africatours (I’organizzazione che si occupa del catering), non c’è, quindi non troviamo nulla da mangiare. Ci danno bottiglie d’acqua e razioni di sopravvivenza. Assieme ad alcuni altri motociclisti siamo andati da un gruppetto di locali dai quali siamo riusciti ad acquistare un pollo. Se chiudo gli occhi ne sento ancora il sapore, uno dei piatti migliori che abbia mai mangiato, meglio di qualsiasi piatto di un ristorante con stelle Michelin. L’organizzazione ci comunica anche che la tappa Dirkou del giorno precedente è stata tagliata fino al punto del primo timbro. A quel punto la classifrica dice 14°. Si riaccendono le mie segrete speranze di chiudere fra i topten.

Termit -Agades: Sin dai primissimi km la moto non è a posto ed iniziano i miei guai. Ancora oggi non ho capito cosa non funzionasse: probabilmente benzina sporca. Ad ogni modo sono stato costretto a fermarmi più volte per pulire il carburatore. Per accedere al carburatore dovevo però smontare il serbatoio ogni volta. Ad un certo punto, durante una di queste soste in pieno Ténéré, dal nulla sono sbucati due ragazzini sui 15 anni. Non gli preso molta attenzione perché sono preso dalla mia pulizia quando improvvisamente mi rubano il casco e la borraccia a forma di marsupio. Li inseguo, raggiungo quello con il casco, me lo riprendo e lui scappa via. Finisco di montare la moto e riparto. Faccio nuovamente una decina di km, dopodiché la moto si ferma di nuovo. Questa volta il problema è che il pezzo di ottone che tiene il getto del massimo è caduto giù dal corpo del carburatore. Un disastro! Non ho mai capito se si è rotto per lo stress subito dal materiale o perché a forza di avvitare e svitare il getto si è danneggiato. Ad ogni modo sono esausto e frustrato. Spero che arrivi un camion in gara e che mi carichi la moto così magari arrivo ad Agades. Molti piloti hanno avuto questa fortuna. Scende la notte e mi capita di notare in lontananza i fari dei mezzi, purtroppo tutti molto distanti.

 

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Al mattino passa un aereo, mi vede e mi lancia un messaggio: “non ti muovere, il camion scopa passerà. Sei sulla pista. Scrivi tuo numero sulla sabbia. Coraggio!”
In quel preciso momento mi è stato detto che è iniziata la mia (dis)avventura. Infatti, la persona a bordo dell’aereo che mi aveva visto invece di segnalare “localizzato” ha scritto “recuperato”. Ignaro di tutto ciò, mi metto con pazienza e fiducia ad aspettare.
In quei momenti non sai mai da dove arriveranno le risorse per farcela. Avevo letto un libro in cui un tuareg era sopravvissuto mettendosi una pietra in bocca e diventando lui stesso una pietra con la sola forza della mente. Ho cercato di imitarlo. Avevo però parecchia sete anche perché le continue operazioni sulla moto mi avevano consumato. Passa anche la seconda notte che nessun camion compaia all’orizzonte. Questa volta, però, riesco a dormire e mi ricordo di aver fatto tantissimi sogni con tante forme di acqua (vasche, fontane, docce…).winker18-1989

Al mattino mi risveglio con un profondo senso di angoscia, dato da due fattori: in primis la consapevolezza di essere fuori gara, in quanto gli altri erano già ripartiti; in secondo luogo mi assale un dubbio “perché non sono ancora arrivati quelli del camion scopa? Ma arriveranno?”.
In questo stato di angoscia passo tutta la mattina e penso ai due ragazzi con cui avevo avuto quel diverbio. “Sicuramente, se torno indietro troverò qualcuno”, pensai. A questo punto dovevo prendere una decisione importantissima: tornare indietro alla ricerca di qualcuno, con tutte le insicurezze di trovarli veramente, stare lì e magari nessuno sarebbe più arrivato. D’altra parte, se mentre gironzolavo come uno stupido nel deserto fosse arrivato il camion scopa dove mi aveva localizzato l’ aereo, non avrebbe trovavano nessuno e se ne sarebbe andato via.

La mai testa era affollata di tutti questi pensieri. Forse questo è stato il momento interiormente più drammatico di tutta la vicenda. Alla fine decido di partire anche perché temevo che il giorno dopo non avrei avuto più la forza di camminare. Prima di partire, faccio il testamento con un messaggio per Paola attraverso il quale provo a trasmetterle il mio amore. Parto a metà pomeriggio con molta titubanza e torno indietro sulle mie tracce, cammino e cammino. Ad ogni passo mi sentivo sempre più debole ma passo dopo passo proseguivo, ormai il corpo non rispondeva ai segnali di fatica che gli trasmetteva la testa, andavo avanti, quasi per inerzia, sarei potuto morire mentre camminavo. Ormai era notte e non vedevo più nessuna traccia, in un momento di lucidità mi salì ancora più angoscia. All’improvviso mi parve di vedere in lontananza una lucina. Sembrava vicina ma per raggiungerla a piedi mi ci volle un’infinità.

Mi faceva andare avanti la consapevolezza che cresceva avvicinandomi: qualcosa, laggiù, c’era. Questa nuova speranza mi rasserenava, più mi avvicinavo, più mi tranquillizzavo. La lucina che avevo visto nel mezzo della notte desertica era un fuoco attorno al quale si scaldava una famigliola composta da due genitori e sei bambini. Mi accolgono con molta premura, probabilmente rendendosi conto dello stato in cui ero. La prima cosa che chiedo è “l’eau”, loro invece mi hanno offerto una brocca di latte cagliato talmente denso che faticavo ad ingerirlo, nonostante la sete. Subito dopo per fortuna mi hanno offerto anche il loro mitico thè. Senza dubbio la cosa più buona che abbia mai bevuto, solo che i bicchierini erano piccolissimi e nonostante continuassero a darmeli, continuavo ad aver sete. Il “trattamento” dava i suoi primi frutti, il mio fisico si era ripreso.

 

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Con loro era difficile comunicare riuscivamo gesticolando e con un po’ di francese che mi pareva potessero comprendere. II capo famiglia parlava tantissimo ma io non capivo molto. Abbiamo comunque iniziato a dialogare. Ho cercato di fargli capire cosa mi era successo, spiegandogli che la mia moto si era rotta e che avevo anche necessità di essere accompagnato al “Gudron”, ovvero una strada asfaltata. Lui mi fa capire che occorrono cinque giorni per arrivarci con il cammello, e che sarebbe disposto a portarmi. Dopodiché, come un sasso, mi sono addormentato. A parte la moglie ed il figlio piccolo gli altri dormono rannicchiati all’aperto, fuori dalla capannina. lo mi infilo nel mio fido sacco a pelo e mi addormento. Al mattino come prima cosa li vedo alzarsi, rivolgersi verso la Mecca e pregare.

Tutta l’alimentazione della famiglia consisteva esclusivamente in tè, latte che mungevano dalle pecore e un pastone di miglio. II latte al mattino era buonissimo, fresco e appena munto, al contrario della sera. Sempre al mattino vedo la mamma che preoccupata per il bambino piccolo che piangeva sempre. Mi faceva dei cenni sulla testa del bambino. Decido così di offrirgli un’aspirina. Ingerita l’aspirina, mi sono reso conto della leggerezza commessa, non avevo pensato che magari potesse avere reazioni allergiche. Fortunatamente, dopo 10 minuti di urla forsennate in cui sono stato anch’io malissimo, si è calmato e come per miracolo si è addormentato. Immagino che bomba potesse essere stata per un bambino di 6 o 7 mesi cresciuto in quell’ambiente. Da quel momento la mamma cominciò a prendermi in considerazione rivolgendomi la parola. Probabilmente ero entrato nelle sue grazie. Durante le giornate che ho passato insieme a loro, nonostante fossi in mezzo al Ténéré, uno dei deserti più aridi del mondo, rimasi colpito da quanta gente ci fosse: praticamente ogni due o tre ore qualcuno passava di lì, chi faceva solo un cenno di saluto, e chi, per la maggior parte, si fermava a fare una sosta di saluto.

 

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Era come una specie di rito e io ho notato che il “mio Tuareg” raccontava con fierezza la mia presenza e il passaggio della Dakar qualche giorno prima. Era incredibile vedere quest’uomo così appassionato nel raccontare, immagino, sempre la stessa storia, a tutti questi passanti. La vita era molto semplice: la donna schiacciava il miglio; l’uomo costruiva corde con l’erba e comandava a i suoi ragazzi di tenere nelle vicinanze tutti i cammelli che erano legati per le due zampe anteriori. Mi spiegò che la sua occupazione era quella di allevare i cammelli, farli crescere e una volta all’anno andava a vendere quelli grandi, e ne comprava altri piccoli.

Sempre durante il periodo passato insieme riuscii a risultare anche utile. Mentre preparavamo l’acqua per il viaggio, vedo che per trasportarla utilizzava due grosse camere d’aria di camion ormai molto vecchie e piene di buchi. I fori erano tappati con dello spago. A quel punto, avendo con me la trousse per riparare le forature, mi offrii di riparargliele. Come per l’episodio dell’Aspirina, anche questo mio intervento mi mise in ottima luce ai loro occhi. Ormai il nostro gesticolare si era affinato e riuscii anche a spiegargli che mi era stata rubata la borraccia. Questo lo scosse, si era convinto mi avessero derubato quando già non ero più in forza. Il mio racconto l’aveva completamente trasformato: era agitatissimo, nervoso. Si è legato un coltello alla spalla e si è allacciato la spada alla cintura. Poi mi ha fatto capire che dovevamo andare.

Ero molto preoccupato di infilarmi in qualcosa di pericoloso, il suo atteggiamento non prometteva nulla di buono. Per prendere tempo gli feci capire che non ero in grado di camminare perché ero stanchissimo. Nulla, sempre più deciso e fermo, prese un cammello lo sellò e mi spinse sopra. Dopo due passi la corda che teneva la sella si ruppe e come un sacco di patate caddi tagliandomi il palmo della mano. Sanguinavo e lo supplicai di fermarsi. Nulla! Sembrava che se non mi avesse portato dove voleva avrebbe perso la faccia, I’onore. Non c’era nulla che l’avrebbe potuto far desistere. Dopo un’ora di cammino, arrivammo presso un raggruppamento di capanne (come quella del mio Tuareg), con almeno 4 gruppi di famiglie.

218023_1035085411577_8413_nIo ero preoccupato, non tirava una grand’aria. Il Tuareg mi mise in disparte e si unì a quello che sembrava il capo. Arrivò un ragazzo che stese un tappeto al suolo e tutti, io compreso, ci sedemmo in cerchio a 10 metri di distanza. Seduti uno di fronte all’altro, i due personaggi si misero a discutere tra loro con animosità. Non so quanto tempo durò questa discussione, a me sembrò un’eternità. Ad un certo punto uno dei due alzò un braccio e un altro ragazzino corse verso di lui, porgendogli la famosa borraccia (cercai di vedere se riconoscevo i ragazzi del primo incontro, ma non c’erano, il tutto rimase per me un mistero).

Quando l’altro capo famiglia consegnò la borraccia al mio Tuareg, l’atmosfera si rasserenò e improvvisamente si calmò. Dopo i saluti, il mio Tuareg venne verso di me gonfio di fierezza e mi porse la borraccia, soddisfatto. Ovviamente lo ringraziai e salutammo tutto il gruppo di persone lì presenti e tornammo presso la sua capanna. Finalmente arrivammo e di fronte all’ennesimo tè, ripresi l’argomento: avevo necessità che mi portasse all’asfalto. Così mi promise che l’indomani mattina saremmo partiti. A questo punto riuscii per la prima volta a dormire sereno. Al mattino ovviamente avevo molta fretta, ma la proverbiale lentezza adesso si stava esprimendo al massimo. Sembrava che non volesse partire e me lo faceva capire con tantissime scuse, almeno così io le interpretavo. Credetti anche che volesse avere un compenso. Dopo che ebbi insistito per un bel po’, mi fece dei segni portandosi il dito all’orecchio.
Nel frattempo l’aereo dell’organizzazione mi stava cercando con il metodo a scacchiera (così mi fu riferito). Dopo un paio d’ore sentii anch’io il rumore dell’aereo e tutto eccitato tirai fuori i razzi che avevo con me in dotazione di sicurezza e cominciai a usarli. L’aereo mi vide, così si avvicinò lanciandomi un altro messaggio insieme a una razione di sicurezza. Il messaggio diceva: “L’elicottero ti verrà a prendere fra un’ora e mezza. Coraggio!” e si allontanò. Offrii a tutta la famiglia il contenuto della razione di sopravvivenza in cui vi erano dei dolci, delle noccioline, un succo di frutta e parecchie porzioni energetiche, certo che avrebbero gradito. Invece, la rifiutarono. Non capii mai il perché ma ci rimasi male.

Decisi di dargli ugualmente i soldi che gli avevo promesso. Però non conosceva il valore del Franco francese. Sono sicuro che quando ha portato i soldi a cambiare ha avuto una bellissima sorpresa. Gli spiegai che presto sarei andato via con le persone che mi sarebbero venute a prendere, e qui cominciò una lunga discussione, perché lui insisteva che voleva portarmi a tutti i costi all’asfalto di persona. Anche qui, un po’ per la difficoltà di comunicazione, un po’ perché insisteva, non riuscii a fargli capire che non era necessario e che dovevo andare via con gli altri. Questa discussione continuò finche non arrivò l’elicottero. Il saluto mi dispiacque perché dovetti quasi scappare a causa delle sue insistenze. Ho in mente la scena in cui lui mi trattiene per i vestiti e io quasi con forza mi mi svincolo per raggiungere l’elicottero.

 

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Avrei veramente voluto dargli un abbraccio, ringraziarlo dandogli la mano e rendere onore al grande uomo che era, salutarlo così mi lasciò l’amaro in bocca. L’elicottero partì e guardai quelle persone che mi salutavano, sentivo un po’ di tristezza nel lasciarti. Dall’alto vidi anche la mia moto e anche qui provai un sentimento di tristezza. Era strano: avrei dovuto essere felice, finalmente in salvo ma ero quasi malinconico.

Arrivammo ad Agades, e qui alcuni membri dell’organizzazione mi sottoposero ad un controllo fisico. Quindi mi imbarcarono su un aereo in direzione Niamey, dove la gara stava arrivando a fine tappa. Tutti i miei amici mi fecero grandi feste e subito riuscii anche a fare il primo pasto serio dopo tanto tempo. Riuscii anche a telefonare a casa a Paola, rassicurandola che tutto era a posto e che stavo bene. Voglio approfittare di questa occasione per ringraziare Beppe Gualini e Andrea Balestrieri e molti altri piloti, perché insistettero molto spiegando e insistendo con l’organizzazione affinché venissero a cercarmi, dato che ero ancora in mezzo al deserto. Se non fosse stato per loro sicuramente nessuno sarebbe venuto a prendermi. La Dakar intanto il giorno successivo partì e da Niamey, insieme a Bebbe Gualini, ci organizzammo per prendere il primo aereo per Parigi.

Al mio ritorno mi accolsero con tante feste tutti i miei amici. Personalmente, avrei preferito essere festeggiato per un bel risultato. Avvisai l’Honda Italia del fatto che la moto era dispersa nel deserto e che in ogni caso mi sentivo in dovere di recuperarla. Mi fu risposto che la moto ormai era persa e che non dovevo recuperarla, a quel punto gli chiesi di poterlo fare ugualmente e di tenermi la moto. Nella stessa tappa Picard, pilota ufficiale Cagiva, si ritirò. Contattai quindi Azzalin, responsabile del reparto corse, per poter fare il recupero insieme. Mi diede il numero di telefono di Manu Daiak il quale era stato amico fraterno di Thierry Sabine e che era una potenza ad Agades. Fu molto disponibile e mi promise che col camion che andava a prendere la Cagiva sarebbe andato a prendere anche la mia e che I’ avrebbe anche spedita a Marsiglia. Manu Daiak morì qualche anno dopo in un misterioso incidente aereo. Alcune voci dicono che fu un attentato, conseguenza del suo ruolo nella ribellione dei Tuareg di cui si diceva fosse il capo.

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DAKAR 1987 | 12.000 km invece di 15.000 scompare la notte

Soppressione delle tappe notturne; limitazione a 800 Km per la lunghezza massima delle tappe giornaliere. Nonostante le limitazioni e a dispetto del fatto che la lunghezza totale sia scesa di circa 3000 chilometri passando a Km totali, per Rene Metge, vincitore ’86 e da quest’anno tracciatore del percorso per conto degli organizzatori, la Paris-Dakar avrà ancora il fascino terribile della durezza che è poi la ragione del suo successo.

Questo perché è aumentata la lunghezza delle prove speciali, cioè di quei tratti di percorso in cui il tempo impiegato dai piloti è cronometrato e discriminante ai fini della classifica. Sono calati invece i lunghi trasferimenti giornalieri, quelli che servivano ai piloti per spostarsi da una p.s. all’altra Dopo un via simbolico a Milano, presso il centro II Girasole il 27 dicembre, e il prologo a Cergy il 31, la gara partirà il 1 gennaio da Versailles. Salvo l’imbarco che si effettuerà da Barcellona invece che da Sete, in omaggio alla città spagnola sede delle Olimpiadi 1988, le prime tappe algerine attraverso El Golea e In Salah saranno simili alle passate.

Poi a Tamanrasset, nel cuore dell’aAlgeria, cominceranno le prime grosse difficoltà con una tappa molto difficile tra gole montuose strette e gli ultimi 350 Km su tolé onduleé che mette a dura prova la resistenza meccanica delle auto. Tutto ciò per scremare il gruppo dei 500 partecipanti. Tamanrasset-Arlit sarà la prima p.s. tutta nuova, con alternanza di deserto e montagna. Da Arlit, il 8 gennaio si andrà all’ex albero del Tenere ribattezzato albero Thierry Sabine da quando le ceneri del fondatore della Dakar furono sparse proprio in quel luogo mitico. E proprio all’ombra (teorica) dell’albero la gara farà tappa di notte.

Per proseguire, attraverso il deserto del Tenere, verso Dirkou senza l’aiuto delle balise di segnalazione che nel deserto tutto uguale aiutano a non perdere la pista. Il riposo è previsto ad Agadez, il 11 gennaio. Dopo Agadez, a 90 Km da cui gli oganizzatori annunciano una «sorpresa» (che non si preannuncia piacevole), la gara entrerà nel Sahel, ovvero la savana. Finisce il deserto, resta la sabbia tra arbusti e cespugli dove è ancora più difficile orientarsi perché i punti di riferimento e le tracce invece che mancare sono troppi e fanno confondere le idee. Qui i piloti cominceranno a prendere in mano bussola e cartina per orientarsi nei 70 Km di vegetazione da Niamey a Gao, nel Mali.

Da Tombouctou a Nema, al confine con la Mauritania, ancora navigazione a bussola per almeno 300 Km e gli unici riferimenti per orientarsi saranno le tracce degli animali. A Tidijka gli organizzatori prevedono che molti passeranno un giorno intero attorno a un villaggio per trovare la strada giusta. A Richard Toll si esce dal deserto mauritano per le ultime difficoltà (l’anno scorso si decise qui la gara dei camion) e l’arrivo sarà il 22 gennaio sulle sponde del lago rosa di Dakar. La piantina del percorso: di nuovo c’è l’imbarco a Barcellona, la scomparsa delle dune di Agadem nel Tenere, l’esclusione della Guinea ed il passaggio da Tombouctou

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DAKAR 1991 | Matti, matti da legare

Come definire diversamente i piloti che prendono parte alla Dakar da privati, spendendo di tasca propria per sottoporsi a fatiche e sacrifici? Ma la passione che li spinge è superiore a qualsiasi freddo calcolo. È la stessa passione che ha portato alcuni di loro a prendere il via in condizioni anche più difficili della media, con mezzi che decisamente non sono il massimo per una maratona del genere.

Ma la Dakar è bella anche per questo, perché prima ancora della gara viene il confronto con se stessi e con la propria moto. Di questo esercito di pazzi scatenati il re è sicuramente Jean Gilles Soupeaux, un francese che per tre anni ha guidato i camion della TSO e che per la tredicesima edizione della corsa ha deciso di passare dall’altra parte della barricata, da concorrente.

Per il suo debutto come motociclista non ha scelto un mezzo consueto: alle verifiche di Parigi si è presentato con una Harley Davidson. La Casa americana però non ha gradito l’iscrizione in forma privata di una delle moto da essa costruita, la prima nella storia della Dakar: ha chiesto senza successo alla Thierry Sabine Organization che nelle classifiche non risultasse il suo nome, ma ha ottenuto almeno che il suo marchio non venisse apposto sul serbatoio del «mostro».

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Il mezzo di Soupeaux è stato ritenuto troppo lontano dalla serie per essere «degno» di portare il nome Harley. Del resto quello con cui il quarantenne parigino ha preso il via era uno strano ibrido dotato sì del bicilindrico americano, ma con una ciclistica della Honda Africa Twin allungata ad hoc ed un look fantasioso realizzato all’aerografo. Perfettamente in carattere con la sua moto, Soupeaux è partito con un giubbotto nero con le frange, pure decorato ad aerografo.

Non è però andato molto lontano: 113° ed ultimo nel prologo, in Africa non è riuscito a completare nemmeno una tappa ritirandosi nel trasferimento su asfalto da Tripoli a Ghadames: con una moto terminata solo la settimana prima era da prevedere.

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Dakar 1992 | Le brutte abitudini giapponesi

Testo di Nicolò Bertaccini

Le storie che riguardano la Dakar non sono mai storie singole, non sono mai accadimenti isolati, c’è sempre un intreccio, un effetto domino che crea diverse leggende. La Paris-Dakar negli anni ha avuto diverse forme. Anche prima di arrivare alle ultime versioni, fra Sudamerica e penisola araba, i percorsi sono stati diversi.

In particolare, l’edizione del 1992 si caratterizzò per l’arrivo a Le Cap, Città del Capo.

Si decise di arrivare a Le Cap per evitare potenziali pericoli. L’Africa è da sempre un continente inquieto e in quell’anno il padre del compianto Sabine decise che il percorso classico, fino alla capitale del Senegal, non dava garanzie. Si optò quindi per l’attraversamento dell’Africa, si spinse la carovana lungo un coast to coast Nord-Sud. Questo creò non poche difficoltà, anche perché l’Africa australe ha caratteristiche completamente diverse, è boschiva. Quindi i piloti si ritrovarono a correre in sentieri attraverso i boschi, oltre alle classiche piste desertiche.

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Quell’anno Beppe Gualini partecipava ovviamente come privato. Aveva però un accordo con il team Belgarda per fungere da supporto veloce. Beppe doveva garantire al team una prima assistenza sul campo. Aveva quindi la moto uguale a quella dei piloti del team ma non aveva le stesse colorazioni, la sua era gialla con la livrea Camel.

Al termine della quindicesima tappa, Gilles Lalay, pilota Belgarda, incappa in un incidente, incredibile e drammatico. Il pilota francese perde infatti la vita scontrandosi con un’ambulanza che procedeva in senso contrario su una pista in mezzo ad un bosco. Lo scontro fu terribile. Il team Belgarda decise di ritirarsi, come segno di cordoglio. Il team manager disse però a Beppe che lui può continuare, che può portare la moto a Le Cap e che anzi, sarebbe un bel omaggio per il collega scomparso. In cambio, gli dicono i vertici Belgarda, potrà tenersi la moto, una volta terminata la gara.

 

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Beppe ce la fa, spinto dalla sua incredibile ed inesauribile forza d’animo arriva a Le Cap. A vincere la gara fu Peterhansel, proprio su Yamaha, mentre Beppe si classificò sedicesimo, un risultato impensabile. Quindi torna in Italia, portandosi dietro la moto. Dopo qualche tempo bussano alla sua porta dei funzionari Yamaha che gli chiedono indietro la moto. Beppe replica che ha un accordo con Belgarda e che la moto è sua. Purtroppo Belgarda ha terminato la sua corsa, i libri sono in tribunale a da nessuna parte c’è scritto che la moto è di Gualini. La moto è di Yamaha. Beppe a malincuore se ne distacca. Ma il peggio deve ancora arrivare.

Dopo qualche tempo lo contatta uno sfascia carrozze. E’ risalito a Beppe dalla tabella porta numero che era su una moto che ha dovuto pressare. I Giapponesi, infatti, avevano l’abitudine di pressare tutte le loro moto, tutti i loro prototipi. Quindi a Beppe non resta che ammirare un cubo di lamiere giallo Camel che una volta era stata la sua compagna africana. Una nota a proposito di questa usanza nipponica: nel museo Yamaha di IWATA sono esposte un paio di moto di Peterhansel. Guardando il colore del telaio di una delle due però si vede che la moto non è la sua ma si tratta di una moto privata, riconoscibile dal telaio bianco invece del canonico blu delle ufficiali, quella di Stéphane è stata probabilmente pressata.

 

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DAKAR 1991 | Diario africano di Aldo Winkler

Lo sostengono in tanti e lo penso anche io, la Dakar è una malattia che non ti molla più. Ed eccomi pronto a ricascarci di nuovo! Ogni Dakar mi ha portato grandi amicizie: Batti, Maletti, Birbes, in futuro Morelli durante la gara. Ma mai ero partito con una persona con la quale già prima eravamo amici. Il fatto che si fosse iscritto Brenno Bignardi è stato la spinta finale per parteciparvi. Brenno ed io condividemmo la comune passione per la moto fuoristrada, entrambi corremmo cross ed enduro ed ancora oggi ci divertiamo moto insieme. Cosa c’è di più stimolante che fare la più bella avventura insieme?

 

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Ghadames — Ghat Una tappa bestiale più di 1.000 km. suddivisa in due tappe. A1 mattino, un freddo intenso, avremmo potuto aprire un’ edicola con la carta sotto i vestiti!E’ una delle tappe mitiche della Dakar, veramente difficile ,ma il tutto appagato da paesaggi incredibili. La Dakar sta cambiando diventando più umana, il cibo è più buono, servito sui vassoi, c’è disponibilità di acqua, viene distribuita la razione al mattino, si può dormire in tenda Tuttavia è più importante essere in un team di amici con una assistenza impeccabile. La sola nota stonata era la moto poco potente e difficile da guidare.

 

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Gossololom Un posto sperduto, motivo per cui non si capisce perché abbia un nome ,visto che non c’è nulla ed è in mezzo al Tenerè. Esattamente qui mi era successa la disavventura qualche anno prima , esattamente nel ued Egaro. Il giorno dopo questo bivacco, a 40 km., anche se ero in speciale, mi sono messo alla ricerca dei Tuareg , magari avrei rivisto i mei amici che mi hanno salvato.Avro’ fatto 15 km. a est, poi sono ritornato e poi sono andato15 km. a ovest percorrendo in tutto 60 km. Di più non avrei potuto per mancanza della benzina. Purtroppo non ho visto anima viva , come mi sarebbe piaciute rivederli!

Son già partiti?
Questa è la classica barzelletta cavallo di battaglia di Brenno. Era mitica e gli abbiamo chiesto di raccontarcela mille volte, durante tutta la Dakar.
Il Sig. Rezzonico, quasi novantenne, soffre di demenza senile avanzata e importanti stati confusionali con evidenti perdite di memoria e lucidità. Suo figlio ha cercato di aiutarlo facendolo visitare da diversi geriatri nella speranza di trovare una soluzione. Uno dei dottori che ha avuto l’occasione di visitare il padre, gli suggerisce di portarlo in una clinica sperimentale che si trova in Ticino dove sembra che si possa trovare una soluzione.
Accetta il suggerimento, prende un appuntamento e raggiunge la clinica con il padre. Vengono gentilmente accolti al ricevimento dal Dottor Bernasconi che li fa accomodare nel suo studio. Una volta visitato il padre, il dottore invita il figlio a fare un giro in clinica per mostrargli la struttura e gli dice: La nostra clinica è all’avanguardia nella cura di questa malattia, abbiamo guarito quasi il 100% dei pazienti, ora facciamo un giro al primo piano dove i pazienti sono appena arrivati e mostrano ancora evidenti segni di pazzia.
Rezzonico, su invito del dottore, apre la porta di una stanza e si rende conto che la situazione è simile a quella di suo padre: pazienti che corrono sui muri, chi crede di volare, chi nuota sul pavimento, urla, pianti, sguardi persi nel vuoto. Rimane molto colpito da questa situazione. Il dottore lo rassicura e a questo punto lo accompagna al secondo piano dove le cose sembrano andare meglio. Rezzonico, aprendo una porta si rende conto che i pazienti sembrano più tranquilli, sempre un po’ strani ma tranquilli, uno di loro per esempio si sta pettinando con un pesce. Il dottore dice che questi pazienti hanno trascorso almeno due settimane nella struttura e già mostrano evidenti segni di miglioramento. È giunto il momento di salire al terzo ed ultimo piano. Nel corridoio c’è silenzio e anche le infermiere sembrano più rilassate. Rezzonico guarda stupito il dottore che gli dice: può entrare in qualsiasi stanza, si renderà conto di persona dello stato di salute mentale ottimale raggiunto dai nostri pazienti, sono entrati due mesi fa e si renderà conto di persona dei nostri risultati. Entrano quindi in una stanza e sono tutti tranquilli, chi nel letto, chi seduto, chi chiacchiera, chi legge, chi dipinge. Rezzonico rimane piacevolmente sorpreso e il dottore gli suggerisce di parlare direttamente con alcuni di loro. Si avvicina al primo signore seduto in poltrona e gli chiede: buongiorno, cosa sta facendo? Risposta: sto leggendo un libro, non si vede? Ripete questa domanda agli altri ospiti e tutti gli danno risposte logiche. Alla fine raggiunge un signore che sta tenendo un grosso coniglio sulle ginocchia e quindi chiede al dottore: sono ammessi gli animali in clinica? Il dottore risponde: certamente, sono una parte integrante delle nostre terapie, a seconda della tipologia del paziente scegliamo l’animale più adatto. Rezzonico a questo punto decide di fare la solita domanda a questo tranquillo signore con il coniglio sulle ginocchia: buongiorno, cosa sta facendo? Il signore risponde: buongiorno, sto accarezzando un coniglio, mi sembra evidente, perché me lo chiede? Rezzonico: mah….glielo chiedo perché al secondo piano mi sembrano un po’ partiti. II signore con il coniglio: son già partiti? Bastardi! Afferra le orecchie del coniglio come fosse un manubrio, si mette in carena e urla uaaaaaaaaaa
La terapia in questo caso non ha funzionato non funziona sempre.

Agades – Giornata di riposo, giornata di lavori sulla moto un pò di relax .Riposarsi un pò fa bene anche se rompe il ritmo, e riprendere è difficile. Noi avevamo affittato, come tutti i team , una villa chiusa. Da quando siamo partiti non abbiamo mai fatto una doccia, non solo a causa della difficoltà nel farla, ma sopratutto perché il freddo non lo permetteva.
Finita la speciale dopo tanta sabbia , abbiamo attraversato il fiume Niger, Vedere acqua è stata una festa e ci siamo fermati tutti a festeggiare e farci le foto.

 

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La moto era una Gilera assolutamente di serie, molto diversa da quelle ufficiali in termini di potenza e di maneggevolezza.La chiamavamo “la scrivania” tanto era largo e grosso il serbatoio anteriore, la posizione di guida era tutta arretrata e mettersi in piedi era una tortura, nelle curve si derapava ma con la ruota anteriore. Al contrario, visto che è stata la compagna di parecchi giorni, il motore non ha mai tradito, ci ha portato al fondo e e per questo motivo ci siamo tutti affezionati.

Un altro aspetto terribile era che il serbatoio in fibra di vetro, quindi delicatissimo, se cadevi da fermo si rischiava di bucarlo, e di riparazioni ne abbiamo fatte tante al volo con sapone, attack, etc. Eravamo talmente terrorizzati che quando si rischiava di cadere quasi ci si buttava sotto la moto per proteggere i serbatoi. Visto che consumavamo I’ anteriore per primo e il posteriore era di riserva ,una volta il posteriore si era bucato e così sono rimasto senza benzina perché non mi sono accorto che perdeva.

 

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TELAIO ROTTO l’ attacco del forcellone al telaio si è rotto staccandosi di netto da una parte. Brenno ed io ci siamo fermati a Tichit, piccolissimo paese in Mauritania dove abbiamo cercato un “saldeur” ovvero un saldatore. Dopo parecchio lo troviamo ma non aveva la corrente elettrica fino a sera. Tiro fuori le mie magiche cinghie , le lego sperando che il forcellone non si sposti e andando piano piano ,ormai di notte, finii la tappa.

 

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ARRIVO L’arrivo a Dakar è sempre una grande emozione, quasi una liberazione, è raggiungere l’obiettivo per cui hai tanto sudato e sofferto per tanti giorni pensando solo ed esclusivamente solo a questo. Al tempo stesso però, cominci già a sentire la mancanza di questo focus così coinvolgente, è come avere pace della fame di vivere esistenziale. Le due speciali, una con la spiaggia in riva al mare (rappresentando il viaggio dal mare del nord Francia all ‘Africa del Senegal come diceva Sabine il suo creatore) e la seconda speciale con arrivo al famoso lago Rosa cosi colorato dall’altissima densità di sale.

 

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Brenno Brignardi e i suoi “guai” alla Dakar 1991

Penultima tappa: Kiffa-Kayes – Tambacounda.
Sono stanco e come tutti, sono consumato dalla fatica e dallo stress di questa gara. L’ho voluta fortemente, sentivo di dovermi regalare questa avventura. La vivevo come un modo per chiudere un cerchio aperto tanti anni prima, nel 1976.
Un cerchio legato ad uno sport stupendo fatto di natura, motori, amici. Uno sport che era un mondo. In questa avventura africana ero in compagnia di un carissimo amico, amico sin da quando questo sport si chiamava regolarità.

La sua presenza mi dava forza e serenità. Alla vigilia della penultima tappa ero felice, dopo settimane di km, sabbia e difficoltà manca solamente una tappa. Ero quasi riuscito a portare a termine la gara più dura del mondo. Ovviamente, come tutti gli outsider, navigavo nelle retrovie della classifica ma la Dakar a quei tempi non era solo classifica, per alcuni era sicuramente importante arrivare davanti ma per molti era importantissimo e sfidante arrivare al lago rosa, al traguardo.
Fino a quel punto ero riuscito a portare a termine tutte le giornate di gara senza incorrere in penalità dovute a eccessivo ritardo al traguardo di tappa. Questo anche grazie anche all’aiuto di Aldo, grande esperto dakariano.

Nella vita, come nelle gare, mai dare niente per scontato, a maggior ragione alla Dakar. La tappa prevedeva 572 km totali, 283 km di prova speciale. Alla fine della prova speciale, il trasferimento prevedeva un percorso su una strada di laterite molto polverosa. Decidiamo di viaggiare separati fino a Tambacounda per evitare di riempirci di polvere. Ognuno di noi parte in solitaria e ci diamo appuntamento all’arrivo. Ricordo che sto viaggiando tranquillo quando a 180km dalla destinazione si rompe il mono ammortizzatore. In mezzo ad una gara così selettiva ci possono essere tanti tipi di rotture. Purtroppo il mio mono si ruppe in modo tale che non riuscii a bypassarlo collegando i leveraggi direttamente al forcellone.

Mi avrebbe permesso di avere una moto con un assetto normale, pur senza la funzione ammortizzante. Invece, è fatta: la moto è completamente sdraiata, quindi decido di continuare il mio viaggio in questo modo sperando che il copertone posteriore regga. Ma nel deserto ogni problema ne richiama altri, la ruota tocca il parafango e si consuma. Mentre viaggio mi sono voltato spesso a guardare indietro ma vedevo solo polvere e pezzi neri di copertone. Ancora oggi non so perché, non c’erano molti appigli ma lo stesso speravo in un miracolo, che ovviamente, non accadde.
Ad un certo punto, come normale succeda, rimango senza copertone.

Sensazione unica difficile da fraintendere. Mi fermo, scendo dalla moto. Osservo quel che rimane, due grossi anelli di metallo che costituivamo la spalla del copertone. Devo rimuoverli ma fra i miei attrezzi non ho quello adatto. Almeno non mi trovavo nelle dune del deserto ma lungo una strada, la carovana Dakar stava per passare di qua. Mi metto a pensare, a provare a trovare soluzioni. Sono troppo vicino alla fine per non tentare di tutto. Penso di poter aspettare la mia assistenza, di sicuro hanno una ruota e un ammortizzatore sul camion che risolverebbe la situazione. Questo significa attendere chissà quanto. Fino a quel momento ero riuscito ad evitarla, decisi quindi di arrangiarmi da solo. Mi sono fatto prestare un attrezzo per tranciare i due anelli di metallo da un equipaggio in auto che gentilmente si era fermato per aiutarmi. Alla fine, in qualche modo, sono ripartito.

Ho fatto gli ultimi 60 chilometri sul cerchione e senza ammortizzatore, cercando di guidare il più possibile in piedi con il peso in avanti, saltando e rimbalzando ad ogni minima buca, cercando di sedermi solo quando non ne potevo più. La moto era difficile da direzionare andando piano perché era il lato del cerchione a comandare la direzione e quindi dovevo cercare di tenere un’andatura sostenuta. Non ricordo le volte in cui sono caduto. Ad un certo punto ho perso anche la sella. Sono andato avanti, sostenuto da non so quale forza di volontà. Quando sono arrivato a soli quindici chilometri dal controllo orario, ormai era buio ma sentivo di avercela fatta.


Sono arrivato, come una cometa, al controllo orario. Un cometa formata dalle scintille provocate dallo strisciare della marmitta sull’asfalto, come mi hanno riferito gli allibiti testimoni oculari: uno spettacolo pirotecnico inaspettato a Tambacounda. I commissari, anche loro divertiti dal mio arrivo scenografico, mi hanno assicurato che per pochi minuti non ho preso la penalità forfettaria per essere arrivato tardi al controllo. Ero arrivato. Ero l’uomo più felice del mondo. Al bivacco, dove la mia assistenza mi stava aspettando, neanche il tempo di salutarli che mi trovo con una birra fresca in mano e vengo battezzato immediatamente dal Team Assomoto “le motard de l’impossible”.

Tratto dai ricordi di Aldo Winkler su fb

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Dakar 1985 | storia di un ritrovamento dakariano

Testo di Nicolò Bertaccini
Nonostante siano stati su tanti poster appesi in camera o in garage, i piloti della Paris-Dakar sono sempre state persone normali, vicini di casa, compagni di scuola, amici di infanzia. Hanno tutti alle spalle storie simili a quelle di tutti noi, solo che ad un certo punto hanno perseguito con grande convinzione un sogno. Una bellissima poesia dice che “prendersi sul serio è l’unica arma di chi non sa costruir talenti da doti”.

I nsotri “eroi” sono stati capaci di riconoscere le proprie doti e trasformarle in talento, ecco perché non hanno bisogno di prendersi troppo sul serio e restano persone alla mano, genuine.
Nel corso degli anni abbiamo raccontato storie che li hanno riguardati, alcune delle quali riportate direttamente da loro. Questa che segue è una storia simpatica, che ci è capitato di facilitare, in qualche modo.


Tutto parte con l’incontro con Beppe Gualini ad inizio 2019, secondo step che ha portato alla realizzazione di Obiettivo Dakar. Beppe è stato uno dei primi a confrontarsi col potenziale ritorno di immagine di certe imprese. Lui che era partito quasi elemosinando sponsorizzazioni ed è finito per costruirci una carriera. Come molti, sopratutto all’inizio, quello che avanzava da una edizione diventava parte del budget della successiva. Quindi venivano vendute attrezzature, moto e quant’altro per finanziare l’impresa successiva, almeno l’inizio.

 

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Quando abbiamo parlato con Beppe ci ha confidato che pian piano aveva recuperato molto del materiale che lo riguardava, risalendo fra compratori e collezionisti.
Ma la passione per la Paris-Dakar ci ha messo in contatto anche con appassionati e innamorati della gara. Uno di questi, forse quello più iconico, è sicuramente Pietro Manganoni, amante della corsa africana e guzzista fino al midollo.

Un giorno ci invia delle foto di una tuta da gara che ha ritrovato in un mercatino, una tuta che il venditore dice essere appartenuta ad uno che “ha fatto la Dakar”.
Ci manda le foto ed è chiaro che si tratta di una tuta di Gualini, quella del 1985 in sella ad una Yamaha Ténéré.
Giriamo le foto a Beppe che conferma che quei pantaloni e quella giacca sono proprio i suoi.

 

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A quel punto Pietro contatta nuovamente il venditore ed opziona il completo. Lo vedete in foto, bianco e rosso con le patch di tutti gli sponsor che il buon Beppe aveva raccolto, da Acerbis a Brembo.
Il passo successivo è semplice mettere in contatto Pietro e Beppe per un rendez-vous a Bergamo, città natale di entrambi. Per l’occasione Pietro coinvolgerà anche Claudio Torri, riunendo una parte di quel battaglione bergamasco che dava l’assalto alla Dakar negli anni Ottanta.

Meoni 2002

DAKAR 2002 | La seconda di Fabrizio

Testo di PIERO BATINI – (MOTO.IT)

Quando Fabrizio Meoni vince la sua prima Dakar, nel 2001, la storia della celebre maratona africana gira pagina per aprire uno dei suoi capitoli più belli. Fabrizio regala alla KTM la sua prima vittoria, e nella Fabbrica di Mattighoffen esplode l’entusiasmo per la Dakar, sino ad allora alimentato soprattutto dalla passione di Heinz Kinigadner. Stefan Pierer, il proprietario di KTM, vola a Dakar per abbracciare il suo Campione sulla Spiaggia del Lago Rosa, e con le lacrime agli occhi per la commozione si lascia andare, annunciando non solo che la Fabbrica si impegnerà  ancor di più sul fronte della leggendaria competizione ma anche che KTM scenderà  addirittura sulle piste della Moto GP.

Stiamo parlando di ventina d’anni fa, e solo ora possiamo dire che quella del Boss austriaco non era stata una spacconata fine a sè stessa, ma l’aneddoto serve solo per farci capire quale entusiasmo generò quella vittoria di Fabrizio Meoni. Tornato in Italia, Meoni si aspettava di essere confermato in una Squadra con lo stesso assetto di quella che aveva vinto per la prima volta la gara, e invece ricevette la proposta di sviluppare una moto destinata ad una nuova serie di KTM stradali. Un progetto ambizioso, ancor di più se accostato alla Dakar di cui Meoni era diventato l’emblema.

 

WRP Controls-Meoni

 

Il compito primario di Fabrizio era quello di collaudare la robustezza e l’affidabilità  di soluzioni da sviluppare in fretta, e di dare alla bozza di telaio, nel quale alloggiava un nuovissimo bicilindrico a V di 75° e 950cc, progettato da Claus Holweg, una forma funzionale definitiva. Il lavoro di sviluppo era svolto da Meoni insieme al tecnico storico di KTM, Bruno Ferrari, detto Ferro, e al meccanico/pilota Arnaldo Nicoli, che si alternava con Meoni nei test. Non c’era fretta, e, credo, neppure troppa certezza di esito, nella proposta di Stefan Pierer, ma ce ne fu totale nella sfida raccolta da Meoni e il Ferro. A ottobre la KTM 950 Rally era pronta.

Meoni la portò al vittorioso debutto in Egitto, e fu pronto a giocarsi il Titolo in quell’edizione della Dakar che partiva da Arras il 28 dicembre, per terminare il 13 gennaio sulle rive del Lago Rosa. Batini insieme a Meoni Con la monocilindrica KTM vinsero, uno dietro l’altro, De Gavardo, Roma, Arcarons, fino all’ottava tappa, quando la Dakar entrava in Mauritania. Tra Tan Tan e Zouerate, Meoni portò alla vittoria per la prima volta la sua grossa e pesante, ma anche molto potente e sfruttabile, 950 Rally. Con la monocilindrica continuarono poi a vincere De Gavardo, Cox e Roma, ma Meoni rimase in testa al Rally, seppure con Roma a un minuto soltanto di ritardo.

 

Meoni Sala 2002

 

La Dakar numero 24 diventò un affare privato tra Meoni e Roma, che si avvicinava sempre più. La tappa tra Tichit e Kiffa fu il capolavoro di Meoni che riuscì a beffare Roma, a fargli perdere la testa e la direzione, e a costringerlo alla resa e, infine, al ritiro. KTM vinse tutte le Speciali della Arras-Madrid-Dakar, Meoni solo due tappe e, per la seconda volta consecutiva, la mitica gara. Si trattò di una vittoria memorabile, e per Meoni forse ancor più significativa della prima, ottenuta l’anno precedente. Fu, infatti, una vittoria morale ancor più grande di quella sportiva, con la quale Meoni dimostrò come fosse possibile, a patto di possedere una forza di carattere e una determinazione certamente non comuni, vincere qualsiasi sfida, compresa quella di una moto sulla carta improbabile.

Tale esclusività  della forza di Meoni fu dimostrata anche dalla brevissima carriera sportiva della LC8 950 Rally. Roma la scelse per la stagione di Campionato del Mondo, vinse in Tunisia ma poi, spaventato dalla difficoltà  di controllare la  belva, rifiutò poi di guidarla ancora. Quella moto, infatti, poteva essere guidata con padronanza completa solo da Fabrizio Meoni e Giovanni Sala.

Fonte La Stampa
https://www.lastampa.it/motori/moto/2016/01/07/news/magia-dakar-edizione-2002-la-seconda-volta-di-meoni-1.36547084?refresh_ce

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DAKAR 1991 Piloti privati e pubbliche vergogne

Articolo di Nico Cereghini

Due immagini per mettere a fuoco lo spirito dei piloti privati alla Dakar Il tedesco Brunner che spinge la sua Suzuki fin sotto il traguardo del Lago Rosa il viso ridotto ad una maschera di sangue. l’avantreno della sua moto distrutto nell’ultima caduta. E ancora Brenno Bignardi a Tambacounda dopo gli ultimi 50 chilometri percorsi su una Gilera senza ammortizzatore, senza pneumatico e senza sella: quindi seduto sul resto di quello che era stato un telaio e correndo sul cerchione posteriore. L’importante è arrivare, l’ultima pagina del road-book dice “la spaggia: bravo!” ma vale soltanto se hai un posto in classifica. Ventuno sono stati i motociclisti italiani che hanno preso la partenza a Parigi da privati: sei i piloti ufficiali, se consideriamo tale anche Roberto Boano, iscritto dalla Honda

Bonacini e Cabini

Ermanno Bonacini e Antonio Cabini

Europe sulle più evolute Africa Twin 750 Ebbene. di quei ventuno soltanto otto hanno concluso, compresi in classifica tra il ventesimo posto di Massimo Montebelli ed il trentaseiesimo di Antonio Cabini.

Ma c’è privato e privato. I piloti del team Assomoto sono ad esempio, dei privilegiati. “Si — conferma Aldo Winkler — perché possiamo contare sull’ottima organizzazione messa in piedi da Bruno Birbes: un camion ed un auto sulle piste, meccanici aviotrasportati. D’altra parte. il privato che fa tutto da sè e corre con i ricambi nello zaino non esiste più”. Non è un caso: quest’anno, con poco più di cento motociclisti iscritti alla gara, la Parigi-Dakar ha toccato il minimo storico.

Quali le ragioni della crisi? I costi. naturalmente: quei privati che puntavano ad avere il minimo indispensabile (cioé un meccanico. magari in consorzio. trasportato sugli aerei di Transair ed una cassa di ricambi affidata ad un camion in gara) hanno dovuto fare i conti con cifre proibitive. Tanto che Sabine, per arginare l’emorragia. ha promesso che l’anno venturo TSO allestirà un paio di camion per il trasporto dei ricambi dei motociclisti privati.

La quotazione ’91 per il trasporto di una semplice cassa era arrivata a dodici milioni di lire Bruno Birbes, bresciano. quarantenne, tre Dakar disputate in moto, è però del parere che le promesse dell’organizzatore sortiranno poco effetto Perché l’evoluzione naturale della gara – analizza Birbes – premia quei team. anche piccoli che sono avanzati verso la professionalità. Noi ci facciamo un vanto di portare i nostri piloti a Dakar mi resta dunque il cruccio di aver perso troppo presto Mercandelli.

Ma ho anche la soddisfazione di aver visto giusto nell’abbinare quest’anno la mia organizzazione alla Gilera. Non serve correre al limite. ma puntare su una valida meccanica e sull’affidabilità dell’assistenza al seguito. Winkler poi Walter Surini e Brenno Bignardi hanno cosi potuto correre una gara relativamente serena. E come loro anche Giampaolo Quaglino, che all’Assomoto si e appoggiato per tenere in ordine la sua Gilera privata.

Brenno Bignardi

Brenno Bignardi

Ma sono tutti piloti che possono disporre di un notevole budget, personale o raccolto attraverso gli sponsor tale da poter impostare un programma quasi garantito. Più dura ancora, quindi, e stata la bella impresa del brasiliano De Azevedo. che ha portato la sua Yamaha XT 600 alla vittoria tra le Marathon (moto strettamente di serie) ed al ventunesimo posto assoluto: chiedendo assistenza un po’ da tutte le parti ed elemosinando un pneumatico posteriore (alla Byrd) quando si è accorto a Kiffa, di guidare una moto con gli slick.

Spiegano Massimo Montebelli e Fabio Marcaccini, con le Yamaha 600 costituiti nel team Wild – anno dopo anno siamo cresciuti: da puri amatori a privati dotati di una minima organizzazione. La Dakar e sempre la gara piu dura del mondo, ma quest’anno per noi è diventata accettabile. I piazzamenti lo dimostrano. Mario Pegoraro, unico superstite di un terzetto, ha concluso al trentatreesimo posto con la Honda Dominator. Trentanovenne, era curato a vista dalla TSO dopo la squalifica del compagno Domenico Magri per assistenza-pirata. Ha concluso con un cambio che non conosceva altri rapporti oltre alla prima e alla seconda.

Pecoraro

Mario Pegoraro

Tra quelli che non ce l’hanno fatta, i più sfortunati sono Paolo Paladini e Giampaolo Aluigi, fermati a due giorni dalla conclusione da altrettante cadute nella polvere. “Ho dovuto abbandonare anche la moto — si rammaricava il primo — perché la lussazione della spalla mi ha costretto a salire sull’auto dei medici. Ora la mia Africa Twin farà la gioia di qualche nero in Mauritania”.

L’avventura di Paladini, compresa la moto, l’iscrizione e l’assistenza offerta da Honda France, era costata poco più di trenta milioni di lire. Molto di più aveva investito il veterano Beppe Gualini (aveva anche un Unimog personale di assistenza), fermato da una caduta prima di affrontare il Ténéré. Insomma la Parigi-Dakar costa cara: sarà impensabile l’anno venturo iscriversi alla gara senza prevedere una spesa di almeno quaranta milioni di lire.

Però, nonostante tutto, questo raid resta la gara africana ambita da ogni privato: perché la sua fama è grande (e per questo è un pò meno arduo racimolare tra gli sponsor il capitale), perché vedere il Lago Rosa equivale ad una laurea. Anche un esordiente ha discrete probabilità di riuscirci: bisogna però che si affidi all’organizzazione di quei team che ormai vantano una notevole esperienza dakariana. “Avventurieri del 2000 seguitemi!” diceva Thierry Sabine.

E a chi rispose all’appello di quel primo gennaio 1979, dettò le regole. Che suonavano pressapoco così. lo — diceva — vi porto dove da soli non arrivereste mai; io e soltanto io conosco quei Paesi africani, i governi e la gente. Dunque sono io che stabilisco le regole, quelle studiate a tavolino ed anche quelle che, necessariamente, andranno improvvisate giorno per giorno. Ma c’è una parola d’ordine da tenere in mente: “demerdez-vous”; e cioé — tradotta con effetto migliorativo — “sbrigatevela da soli’.

Paolo Paladini

Paolo Paladini

“C’EST L’AFRIQUE”

Era probabilmente l’unico modo per governare quel centinaio di “avventurieri”, nella gran parte sprovveduti; Thierry Sabine sapeva di doversi assumere il ruolo di “padrone” della corsa, ma sapeva anche che non avrebbe potuto arrivare dappertutto. Né gli garbava di diventare anche il “padre” dei partecipanti: sarebbe stato sommerso dai problemi individuali, dalle lamentele, dalle proteste di chi non aveva trovato il carburante nel punto stabilito, o criticava la tale nota del road-book, o ancora disprezzava la razione giornaliera delle gallette e dei succhi di frutta.

Demerdez-vous: fuori dalla cacca per conto vostro. E Thierry seppe portare avanti la sua gara senza troppi problemi: aveva una forte personalità, gratificava quelli buoni e rideva in faccia agli altri buttando lì due sentenze celebri: “c’est l’Afrique, c’est la Dakar”. Ma oggi, per suo padre Gilbert, i nodi stanno venendo al pettine. Ha due problemi, l’ex-dentista: primo, non ha la personalità del figlio; secondo, la Fisa e la Fim gli hanno cucito addosso una serie di limiti, togliendogli di fatto la paternità della corsa.

E così, mentre la sua Parigi-Dakar si è progressivamente allontanata dall’avventura per assomigliare sempre di più ad una gara, vera, Gilbert non può più cavarsela con la celebre sentenza del demerdez-vous. Perché non c’è più nessuno disposto a cavarsela da solo quando ci sono tre direttori di gara, quattro membri di giuria, regolamenti grandi come un libro, cinque elicotteri, quindici auto dell’organizzazione, duecento addetti della TSO, venti ragazze con incarichi teorici e tanto tempo da dedicare all’abbronzatura. E quando, soprattutto, i concorrenti hanno l’impressione di pagarlo tutto loro, questo faraonico carrozzone.

“EROI” SENZA NOME

Una volta c’era soltanto Thierry, a far passerella con la sua bella tuta bianca come se stesse recitando un film. Adesso ci sono dieci, venti Thierry con la stessa prosopopea e la medesima aria sognante da eroi delle dune; e neanche sai come si chiamano né cosa ci stanno a fare. Ma la cosa più irritante è un’altra: la TSO è senza dubbio più efficiente, ma non è affatto più vicina ai partecipanti ed ai loro problemi. Se un team manager è allarmato per il mancato arrivo di un suo pilota, dovrà rivolgersi a un amico giornalista per essere benevolmente accolto dal responsabile delle ricerche; se un fotografo vuole sapere esattamente dove si trova l’arrivo della prova speciale, per andarci a lavorare, otterrà risposte romantiche del tipo “segui il vento” e nessuna indicazione precisa.

E così via: quelli dell’organizzazione sembra che vivano sospesi a mezz’aria tra la campagna d’Africa e la lirica pura. Una mentalità che contagia. Gli stessi medici francesi, raccolti dalle due associazioni AMS e SOS Assistance, ne soffrono in termini allarmanti. Quando il corpo dello sventurato Charles Cabane è stato trasferito sull’aereo del rimpatrio, tolta la tenda dei medici è rimasta una larga pozza di sangue sul cemento dell’enorme hangar dell’aeroporto di Gao, lì nel mezzo nell’incredulità generale.

A chi non voleva credere che fosse proprio il sangue del povero camionista, un medico confermava alzando le spalle con indifferenza e lanciando un’occhiata distratta. Un medico che certamente, nel suo ospedale di Nantes o di Lyon, svolge coscienziosamente il suo lavoro da febbraio a dicembre; ma quando arriva la Parigi-Dakar, parte per l’avventura calandosi nella parte del guerriero dei deserti: dimenticando il rispetto per i vivi e per i morti, le più elementari norme igieniche e di convivenza civile.