Dakar 1988 | La Dakar sbagliata di Luca Roberti

Non so se nella vita vi sia mai capitato che a un certo punto DEVI fare una cosa che ti è entrata nel cervello e che sai non se ne andrà fino a quando non l’avrai fatta. Be’, a me è capitato…

Siamo nella metà degli anni 80, per l’esattezza fine dicembre 1984. Avevo deciso insieme alla mia allora fidanzata e attuale moglie Luisa di passare il Capodanno a Parigi. Non ricordo più se il tarlo fosse già presente prima della partenza e visitare Parigi fosse solo una scusa, o se una volta lì decisi di trascinare l’ignara fidanzata a Versailles. Probabilmente le avrò detto che la reggia era sicuramente da vedere e che, mentre ci si trovava lì, avremmo potuto dare un’occhiata al parco chiuso della Parigi Dakar che sarebbe partita il 1° gennaio.
Se solo Luisa avesse intuito cosa sarebbe derivato da quell’innocente deviazione a Versailles, probabilmente mi avrebbe trattenuto a forza, oppure lasciato per sempre. Chi lo può sapere.

Folgorazione. Avete presente cosa vuol dire per un appassionato di moto, con preferenza per quelle con le ruote artigliate, avere sotto gli occhi in sequenza la BMW G/S di Gaston Rahier, lo squadrone ufficiale Yamaha Belgarda con Picco e Findanno, le Yamaha France con Olivier e Stearns, le Honda Italia con Balestrieri, De Petri. Praticamente una sbornia mai vista. Forse però la cosa più bella fu vedere tutte le decine di altre moto di perfetti sconosciuti che avevano deciso di avventurarsi nel deserto seguendo quel visionario di Thierry Sabine.
Ricordo perfettamente la Guzzi gialla di Claudio Torri con un post-it sul serbatoio lasciatogli da amici italiani che gli auguravano fortuna, poi le Honda 125 ( !! ) dei fratelli Barbezant o nome simile.

Ancora prima di rientrare a Parigi la sera stessa avevo già deciso: prima o poi da Versailles sarei partito anch’io (ma non credo di averlo detto a Luisa).
Rientrato a Torino compro riviste su riviste per saperne un po’ di più. All’epoca i rally raid africani andavano per la maggiore così mi cadde l’occhio sul Rally di Tunisia giudicato come un assaggio non troppo impegnativo per chi avesse voluto cimentarsi in quel genere di competizioni.
Rapida sequenza: compro da un’amica che non riusciva a farla partire con la pedivella, una Honda XL 500, prendo la licenza FMI per enduro internazionale (mai fatto una gara in vita mia) e detto fatto mi iscrivo al Rally di Tunisia che si sarebbe tenuto tra marzo e aprile di quell’anno. Allenamento specifico molto poco, per temprare il fisico decido di andare all’Elefantentreffen partendo da solo a mezzanotte da Torino. Arrivo nel pomeriggio successivo sotto la neve, quindi pernottamento in tenda canadese dentro al circuito di Salisburgo. Mi intrufolo insieme ai sidecar (gli unici ai quali era consentito di girare nel circuito ghiacciato) faccio N giri con N al quadrato cadute, ma che goduria, Al rientro inizio la preparazione specifica della mia fida Honda per le sabbie africane: Serbatoio Acerbis da 22 litri, copertoni Michelin Desert, costruzione artigianale di supporto al manubrio per il road-book (credo fosse un contenitore tipo tupperware da cucina), catena O-Ring con pignone e corona nuovi e … stop.

Arriva il grande giorno della partenza al porto di Nizza, adrenalina a palla incoscienza non dosabile. Con mio grande stupore scopro che tra i partenti ci sono anche Serge Bacou (già ufficiale Yamaha in sella a un prototipo 4 cilindri da 200 Km/h) Chuck Stearns su Yamaha Sonauto (fresco reduce da un 4° o 5° posto alla Dakar appena conclusa), Gilles Picard con una Cagiva, Pierre Poli con un prototipo Motobecane. Credevo che a questi rally “minori” partecipassero solo degli amatori… L’ansia sale a livelli di guardia poco controllabili. Dimenticavo di dirvi il corredo di ricambi per la gara: zero assoluto a parte una tanica di benzina supplementare da 5 litri tipo militare fissata in malo modo al portapacchino posteriore (la perderò alla prima tappa..)
Si parte alla volta di Tunisi, durante la traversata faccio conoscenza con un gruppo di fiorentini che partecipano alla gara con delle fiammanti KTM 600 Rotax. Le loro moto, molto più preparate della mia, facevano una bella figura sul molo una di fianco all’altra anzi, incutevano un certo timore. Diventeremo amici nel corso del Rally, mantenendo poi i contatti per molti anni a seguire.
Finalmente si parte dal viale principale di Tunisi (Avenue Bourguiba all’incirca), c’è molta gente che applaude, io sono mooolto emozionato. Siamo una sessantina di moto e alcune decine di fuoristrada.
I ricordi delle singole tappe sono confusi (sono passati 35 anni…). Quello che ricordo perfettamente è la prima caduta “seria“, di quelle normali ne avrà fatte decine. Se non sbaglio il secondo giorno, il primo sulle dune di sabbia, arrivo un po’ troppo veloce su un panettone, per cui prendo il volo e atterro sulla ruota anteriore. Le sospensioni della mia Honda sono fatte per altre attività, infatti vengo sbalzato in avanti, mentre la moto mi rimbalza sopra la testa e fa una serie di loop completi rimbalzando ora sull’anteriore ora sul posteriore (nel senso di 360 gradi) per poi fermarsi finalmente a una decina di metri davanti a me.

Mi alzo e, strano ma vero, mi accorgo di essere tutto intero. La moto invece è un po’ malridotta: faro anteriore, contaKm porta road-book completamente distrutti, telaio storto (da quel momento in avanti lascerò due impronte differenti sul terreno per il disallineamento della ruota anteriore con la posteriore….) danni meno ingenti sul posteriore, telaietto piegato, parafango rotto e poco più.
Si riparte con la manopola del gas un po’ meno aperta…
Avendo distrutto il contaKm, da quel momento in avanti e fino alla fine del Rally seguirò il road-book a naso e, in caso di dubbio, accodandomi ad altri concorrenti. Facendo meno l’asino con la mano destra, non sbagliando mai strada, alla fine della gara mi ritroverò 15° assoluto. Non male per un debuttante senza assistenza e senza un ricambio.
Rientrando in Italia (già sul traghetto), sicuramente ubriacato dal brillante risultato ottenuto, mi metto subito a fantasticare sulla prossima avventura e, poiché lo scopo è la Dakar, la mia attenzione va immediatamente alla Baja 1000 spagnola perché le tappe africane sono molto lunghe e io devo abituarmi a fare molti Km in sella alla moto possibilmente in fuoristrada.
La Baja 1000, per chi non lo sapesse (non so se la facciano ancora), è una gara no-stop in terra spagnola nella provincia di Saragozza di 1000 Km appunto, tutta in fuoristrada tutta in prova speciale, fatta nel mese di luglio  con un bel caldino. Si parte scaglionati la mattina presto con il buio e si fanno 1000 Km. Semplice no? Si può scegliere di farla in coppia o per i più dementi da soli. Indovinate come scelsi di farla? Ovviamente da solo, da buon stakanovista della moto. Fino a quell’anno, e siamo sempre nel 1985 , nessuno dei pochi partenti in solitaria aveva mai concluso la prova, la qual cosa avrebbe dovuto insospettirmi e invece no, intrepido mi presento al via anche di questa avventura. Mi trovo a fianco di Rahier con la fida BMW G/S alleggerita rispetto a quella della Dakar e i soliti squadroni ufficiali Honda, Yamaha, Cagiva, KTM e soci. La mia moto è sempre la stessa, rimessa in sesto e in parte preparata dalla ditta Proma di Brescia (il cui titolare Franco Gianotti, morto poi tragicamente pochi anni dopo era mio cugino alla lontana, quindi probabilmente si era impietosito e aveva deciso di darmi una mano).

Per farla breve, anch’io non riuscii a completare la corsa causa caduta dopo circa 730 Km, dovuta sicuramente alla stanchezza accumulata dopo tante ore di guida con un caldo soffocante. Resta comunque un bel ricordo di una corsa unica e un po’ di rammarico di non aver tenuto duro fino alla fine e essere stato il primo concorrente a finire la corsa in solitaria. Tra parentesi avevo anche un bel numero di corsa, 100 tondo tondo, come se non sbaglio la Cagiva di Auriol alla Dakar.
Nei due anni successivi parteciperò a un po’ di Rally nazionali e al Trofeo Motorally e per scommessa con un amico mi iscrivo a una delle numerose gare di durata locali, (nella fattispecie la Sauze 400 organizzata da Batti Grassotti, titolare della GR moto di Torino, anche lui appassionato di rally africani fatti in compagnia con Aldo Winkler) la scommessa era la seguente: io avrei fatto la gara con una Gilera Regolarità 125 d’epoca e sarei riuscito a finire la gara di 400 km appunto tutta su strade militari sterrate attorno a Sauze d’Oulx in val di Susa. Vinsi io (non la gara che vinse Orioli, ma la scommessa) ed ebbi anche la soddisfazione di avere una foto a colori su Motosprint dell’epoca . Altre volte invece presi parte a rally solo come assistenza sanitaria in moto (di mestiere faccio il chirurgo) al Rally di Sardegna, alla Sestriere 1000.

Ma ritorniamo a bomba.

Decido che è già passato troppo tempo e il tarlo continua a fare il suo lavoro giorno dopo giorno, metto da parte un po’ di soldini e finalmente mi iscrivo alla Dakar 1988, la decima edizione.
In quegli anni a Torino anzi a Rivoli, nelle prima cintura, c’era una concessionaria non ufficiale Honda, la Sport Auto Moto Import, che aveva messo su anche una piccola squadra corse di amatori come me, quasi tutti in sella alle Honda XR 600, con le quali il sabato pomeriggio andavamo a fare scorribande in giro per gli sterrati della provincia di Torino, duellando fra di noi, manco fossimo alla finale dei campionati mondiali di enduro. Mitiche le battaglie sulle strade militari tra la val Chisone e val Susa. Nella foga qualcuno ci ha anche rimesso alcune ossa.
I titolari della SportAuto, saputo del mio insano proposito, inizialmente tentarono di dissuadermi, poi vista la mia testardaggine decisero di aiutarmi in qualche modo, mettendomi a disposizione la loro officina per la preparazione della moto, il loro meccanico di fiducia ( mi pare si chiamasse Giuseppe, molto scorbutico ma sicuramente competente).

Moto di partenza Honda XR 600 usata.


La mia idea era quella di modificare la moto il meno possibile, un po’ per questioni economiche, un po’ per semplicità e per mancanza di tempo. Ho iniziato a lavorarci agli inizi di ottobre 1987, la partenza era come noto il 1° gennaio successivo. In pratica avevo 3 mesi di tempo in più dovevo lavorare e anche allenarmi … decisamente in ritardo su tutta la linea.
Avrei voluto, anche da privato (disperato), senza assistenza a seguito (vedi meccanico aviotrasportato) senza casse di ricambi per la moto (motore di scorta, ruote, sospensioni e via discorrendo) partecipare nella categoria Marathon, quella in cui la moto doveva essere rigorosamente di serie e non era consentito sostituire nulla a parte le gomme e, presumo, il gruppo corona pignone catena.
Alla partenza la moto veniva punzonata dappertutto e controllata alla fine della gara.
I miei amici della Sportauto mi convinsero (ma io feci male ad ascoltarli) che con le minime modifiche da me pensate, non sarei neanche arrivato a Sete (porto in Francia dove ci si imbarcava per l’Africa dopo aver attraversato tutta la Francia)
In pratica io volevo semplicemente montare un serbatoio maggiorato da 44 litri della Acerbis , una tanica da 5 litri (obbligatoria) per l’acqua (allora in commercio ce ne era una sempre dalla Acerbis) magari delle sospensioni rinforzate e null’altro. Invece diedi retta ai consiglieri che erano anche tra i pochi che in qualche modo mi stavano aiutando, quindi mi sentivo un po’ obbligato ad ascoltarli. Morale mi imbarcai in una serie di modifiche anche strutturali della moto che mi portarono via un sacco di tempo prezioso, anche perché tutta una serie di lavori venivano fatti personalmente da me. Il risultato estetico (parliamo di più di 30 anni fa) fu molto soddisfacente, a parte il posteriore della moto, un po’ troppo “ importante”. Molto meno positivo il risultato tecnico ma andiamo con ordine.

Riassumo la trasformazione:
– Sostituzione del motore originale con quello di una XL LM 600 meno performante ma più robusto al quale venne tolto il motorino di avviamento per questioni di peso e per non dover montare la batteria, quindi avviamento rigorosamente a pedale. Errore madornale fu quello di lasciare lo statore del motore dell’XL con cablaggio centralina ecc. dell’ XR. La moto in condizioni normali (in garage, sul cavalletto, con pilota riposato) partiva abbastanza facilmente ma comunque mai al primo colpo. Tutt’altra storia farla partire sulla sabbia, con il cavalletto che sprofonda, dopo la 15° caduta, dopo aver dormito 2 ore dentro il sacco a pelo sulla sabbia, aver mangiato poco e male e amenità varie.
– Dopo aver tagliato di netto il telaietto reggisella, rifacimento totale dello stesso in tubi quadri, sufficientemente robusto (e pesante) da poter reggere una struttura unica comprendente serbatoio supplementare da 20 litri circa per la benzina che sommando ai 24 litri del serbatoio dell’ XL LM (altra modifica per gli attacchi sul telaio XR) portavano ad avere una buona autonomia. Ricavato nelle struttura unica c’era anche il serbatoio (5 litri) per l’acqua , il vano per la sella , il portapacchi per alloggiarvi un capiente porta attrezzi in cuoio. Tutto questo lavoro rigorosamente in lamierino di ferro (non in alluminio) pesava uno sproposito, a suo vantaggio si poteva però rimuovere in toto per poter accedere all’ammortizzatore o per eseguire altri lavori sulla moto. Fece questo immane lavoro un bravissimo meccanico/restauratore di moto che evidentemente era anche un mago delle saldature, perché fece un lavoro, magari esteticamente e funzionalmente discutibili, ma sicuramente difficilissimo e a prezzo irrisorio. Aveva la sua officina in bassa val di Susa, ma purtroppo non mi ricordo più il suo nome.
– A questo punto, per una questione puramente estetica bisognava riempire la parte anteriore della moto, optai quindi per il cupolino con doppio faro che allora produceva la Stilmotor associato al parafango basso sempre della Stilmotor. La ditta toscana, una volta interpellata non esitò a fornirmi gratuitamente non uno ma ben due cupolini completi oltre a numerosi altri ricambi più abbigliamento vario. Non finirò mai di ringraziarli . Si meritarono sulla parte più visibile della moto un bell’adesivo della loro ditta.
– Aggiunsi un bellissimo paramotore in alluminio della Ricky cross, pagato caro, niente sconti ahimè
– Ammortizzatore White-Power posteriore in sostituzione di quello originale
– Gomme Michelin Desert con mousse (quella che in teoria non ti da mai problemi…)
– Colorazione bianca blu e gialla (i colori di Torino).



Finita la moto, non ebbi il tempo di provarla neanche per 100 metri, perché era ora di partire.
Per inciso all’epoca (adesso penso che sia cambiato tutto) per gli squilibrati come me , privati/disperati/fai da te, la Dakar iniziava mesi prima e si arrivava alla partenza, almeno io arrivai così, già stremato dalla preparazione, dalla preoccupazione di aver fatto una enorme stronzata, solo come un cane e chi più ne ha più ne metta. Tutt’altra cosa è fare la gara da privati ma con una organizzazione alle spalle che si occupa di quasi tutto, dalla preparazione della moto, alla assistenza in gara e così via. Ma io non potevo permettermi una simile organizzazione per problemi di budget .
Comunque si parte alla volta di Parigi, gentilmente accompagnato con furgone dagli amici della Sport Auto.
All’epoca la Dakar in Francia era davvero un evento che mobilitava e riversava sulle strade una miriade di persone festanti nonostante il freddo polare, ma a noi concorrenti , specie i motociclisti un po’ in cuore te lo riscaldava.
Per far divertire i parigini e far soffrire da subito i piloti c’era il prologo che si teneva il 30 dicembre a Cergy Pentoise, un’area militare dove veniva tracciato un circuito di una quindicina di Km, ricco di insidie in qualità di antipasto prima della gara vera e propria.
Bene 3, 2 ,1 via si parte uno ad uno per il prologo, fango come se non ci fosse un domani, ma non quel bel fango che ti fa anche divertire a guidare una moto no il fango parigino era un surrogato del pongo con un po’ di colla, appiccicoso a tal punto che dopo poche centinaia di metri mi ritrovo con le ruote completamente bloccate in un morsa mortale, cado una due tre volte, divento una maschera di fango anch’io, devo strappare gli attacchi del parafango basso per poter far girare la ruota anteriore, sfriziono come un disperato e miracolosamente riesco ad arrivare alla fine del prologo … iniziamo bene.

Alla fine del prologo mi ferma un giornalista di Motospint che deve scrivere il profilo dei piloti italiani da riportare sul suo giornale.
Quanti anni hai ? (30)
Da dove vieni ? (Torino)
Risultati in gare precedenti ? (pochi)
Perché hai deciso di fare la Dakar ? (in quel momento non ho una risposta adeguata, ma più che altro non la so nemmeno io)
E’ la prima Dakar? Si dico io ma sarà anche l’ultima aggiungo (il mio stato d’animo in quel momento non era dei migliori come avrete capito).

Finalmente arriva il 1° gennaio, notte insonne, sveglia all’alba, freddo cane. Parco chiuso, monto in sella, credo di essere in trance, mi chiedo ripetutamente se so quello che faccio, l’altra parte del cervello mi dice: ma non era quello che volevi fare a tutti i costi ? Non sono molto lucido lo ammetto. Mi metto diligentemente in fila, ho un numero di gara basso, il 23 quindi parto tra i primi. C’è una marea di gente sotto il palco, siamo tutti degli eroi,  tra due ali di folla procediamo a stento con il rischio concreto di essere buttati a terra dalla foga della gente, molti ancora in preda ai fumi dell’alcol dell’ultimo dell’anno. Si passa sotto la torre Eiffel dove c’è un primo controllo e poi via verso il sud della Francia fino a Sete dove ci aspetta il traghetto. Anche qui non è come dirlo, fare 1200 km di fila con temperatura prossima allo zero non è così agevole , ti conforta il calore delle migliaia di persone che ai lati delle strade ti applaude chiunque tu sia, ti chiede un autografo tutte le volte che ti fermi anche se sei un perfetto sconosciuto. Bellissima sensazione.
Imparo a mie spese che la mousse non va usata quando guidi su asfalto perché si surriscalda e alla fine si fonde. Togliere la mousse rovente bella appiccicata al copertone (posteriore tra l’altro) e sostituirla con una camera d’aria lungo la strada con le dita mezze congelate non è una esperienza che auguro ad un amico. D’altronde stai o non stai facendo la Dakar ? Non sei un duro che non si spaventa di fronte a nulla? Sarà così. Intanto i Km. scorrono e Sete si avvicina, però sento che qualcosa non va nella moto.

Le sfrizionate del prologo presentano il conto e nei pressi di Sete in coda, in mezzo alla folla urlante la mia frizione esala l’ultimo respiro. E’ già buio, sono un po’ stanchino come dice Forrest Gump, non ho un pacco frizione di ricambio ovviamente. Un concorrente mi vede in difficoltà e non so come mi procura un pacco frizione nuovo. Ogni tanto un gesto ti riconcilia con il mondo o meglio con il genere umano.
Nel frattempo mi appare davanti mia sorella che insieme al suo fidanzato mi viene incontro del tutto inaspettata, ha deciso di farmi una sorpresa e ci riesce eccome, mi ospita nel suo camper e mi rifocilla per bene anche se intravedo dalla sua espressione una viva preoccupazione per il mio precario equilibrio psico-fisico.

A Sete sotto lo sguardo preoccupato di mia sorella

Saluto la sorella e mi dirigo al molo dove stanno già caricando i veicoli, ma io devo cambiare la frizione, perché non credo che una volta arrivati al Algeri ci sarà poi del gran tempo per poterlo fare. Inizio a smontare , ma è buio, non mi ricordo di averlo mai fatto prima quindi ci metto un po’ di tempo, intanto la nave sta per partire, merda! Finisco appena in tempo per imbarcare. Giornatina impegnativa.
La traversata del mediterraneo dura un giorno e mezzo, il traghetto è una schifezza sotto tutti i punti di vista, il mare ovviamente è molto mosso per cui si riesce a mangiare poco e male con una nausea persistente. La cabina, prenotata con mesi di anticipo e a caro prezzo, all’ultimo momento non è più disponibile, si è costretti a bivaccare dove capita. Qualcuno può immaginare in che condizioni si arriva ad Algeri?
Al porto di Algeri troviamo ad aspettarci belli puliti e riposati i piloti ufficiali e i privati ricchi che hanno preso l’aereo e sono lì dal giorno prima. Questa è concorrenza sleale.
Dissento dalla opinione comune che la Dakar inizi solo adesso, come penso di aver spiegato nelle pagine precedenti, mi pare che sia già iniziata da un pezzo. Comunque sia, siamo finalmente in terra africana. Questa è la 10° edizione, Thierry Sabine non c’è già più, al suo posto al timone della gara c’è suo padre (il nome non me lo ricordo) che di mestiere fa il dentista (?) e da bravo dentista bada molto al soldo (non mi insultino i colleghi odontoiatri …). La Dakar è all’apice della sua popolarità, ci sono richieste di iscrizioni da tutto il mondo, ogni iscrizione porta nelle tasche della TSO (Thierry Sabine Organisation) una bella quantità di soldoni. Mai come quest’anno sono state accettate tante iscrizioni. Ci sono 200 moto 350 auto e non so quanti camion, praticamente un esercito. Non è pensabile portare tutta questa gente molto avanti nella gara, troppo complicato e costoso. Bisogna dar loro da mangiare, garantire un minimo sindacale di assistenza sanitaria, organizzare i rifornimenti e mille altre cose che, in terra africana risultano tutte molto più complicate che altrove. Ricordiamoci che siamo ancora in era pre-tecnologica, con tutte le difficoltà che ciò comporta.

Algeria in prova speciale


Comunque pronti via per la prima tappa africana Algeri – El Oued non mi ricordo di quanti Km fosse, comunque praticamente tutta di trasferimento fino a dentro il deserto algerino. Si arriva al bivacco che è già buio, ci sono già alcuni ritiri tra le moto, disperati come me che hanno avuto problemi in Francia e non sono riusciti a imbarcarsi perché in ogni tappa, anche quelle di solo trasferimento come Parigi – Sete, c’è un tempo limite, altrimenti sei fuori gara. Alcuni sono arrivati in Africa ma non sono riusciti a proseguire e se ne ritornano mestamente indietro.
Verifico la classifica, un po’ per curiosità e un po’ per capire la griglia di partenza. Nella tappa successiva si partirà a gruppi di 10 moto per volta in ordine inverso alla classifica (chissà poi perché). Nonostante i problemi al prologo, la foratura, la sostituzione della frizione non sono nemmeno ultimo. Mi pare di ricordare un 160° posto su 195 moto. Chissà che razza di problemi hanno avuto quei 35 motociclisti che ho messo dietro a mia insaputa e soprattutto senza merito alcuno.

Ma torniamo al bivacco, è tutta una coda: per fare il pieno alla moto, per la “ cena” se così si può chiamare, per fare scorta d’acqua. Poi finalmente si prova a dormire, sacco a pelo tecnologico gentilmente fornitomi dalla Ferrino di Torino, disteso sulla nuda terra anzi sabbia, già finissima tipo borotalco. Dormire alla Dakar è un optional. Per tutta la notte quei simpaticoni dei meccanici della scuderia BMW Ecureil (moto bellissime con scocca in fibra di carbonio credo) non fanno altro che provare le moto che come noto sono prive di silenziatore … dando delle sgasate impressionanti.
Sveglia (si fa per dire) obbligatoria alle 4,30 perché c’è il briefing mattutino alle 5.00
Il buon Sabine senior ci comunica che questa tappa sarà durissima, dovremo affrontare una serie infinita di dune con sabbia finissima, dove si sprofonda con le ruote che è un piacere. Ci conforta anche dicendoci che almeno un terzo di noi non riuscirà a finire la tappa … croce e delizia per i veri dakariani. In previsione della tappa cerco di alleggerire il carico personale per essere più sciolto ( !! ) nella guida. Dimenticavo di sottolineare che, oltre ad avere sotto il sedere la mia poderosa Honda da 200 Kg. avevo sulle spalle lo zaino con gli “ effetti personali “, forse qualche ricambio (cavi, camere d’aria etc.) sul portapacchi oltre alla borsa di cuoio con gli attrezzi avevo il mio prezioso sacco a pelo che però non agevolava molto la guida in fuoristrada .
Cerco qualche anima pia che me lo tenga fino a fine tappa in modo da essere più libero per la guida. Chiedo a uno dei privati italiani ricchi, quelli con assistenza con camion Unimog, meccanico a seguito, non dico il nome ma per dare qualche indizio correva con un BMW. No è la risposta, io ho speso un sacco di soldi per mettere su tutto questo, arrangiati (si trattava di portarmi il sacco a pelo del peso di 2 kg. al massimo all’interno del suo lussuoso Unimog). Fortunatamente un altro concorrente italiano (Maurizio Traglio per l’esattezza) che correva nella categoria camion fu invece molto più disponibile e si prese in carico il prezioso bagaglio.


Si parte , la tappa è El Oued – Hassi Messaud, prima parte tutta prova speciale tutta su sabbia soffice, tutta dune ( troppe…) non ricordo i Km. ma pur sempre qualche centinaio. Poi un bel trasferimento su asfalto sempre di alcune centinaia di Km.
Come detto si parte in ordine inverso alla classifica a gruppi di 10 o 20 moto non ricordo bene Non sono nel primissimo gruppo ma nel secondo. Essendo gli ultimi della classifica siamo tutti dei peones, prima del via ci guardiamo con aria sperduta, davanti a noi il deserto algerino poche tracce di quelli partiti davanti a noi (peones anche loro) che chissà se hanno preso la via giusta. Si parte con molta circospezione, nessuno spalanca il gas (le immagini che di solito si vedono in TV riguardano i top drivers che scatenano i cavalli delle loro moto dal primo metro di prova speciale). Noi no, sembra che ognuno voglia lasciar passare avanti qualcuno che si prenda la responsabilità della via giusta e gli altri dietro. La sabbia è molto soffice, le ruote affondano però si va avanti, dopo non molti Km. arrivano in massa i piloti ufficiali che come delle furie ci sorpassano a velocità folle per scomparire rapidamente all’orizzonte. Che manici ragazzi . Riconosco dalla moto i vari Rahier, Orioli, Balestrieri, De Petri, Malherbe e compagnia. Come faranno ad andare così forte è un mistero, è anche vero però che più vai forte e meno affondi nella sabbia , concetto facile a dirsi ma molto più complicato da applicare.
Altri pochi Km e iniziano le dune, sono già piene di tracce sulla sabbia delle moto passate prima di me, vanno in tutte le direzioni, quale devo seguire ? Il road – book mi dice di seguire un determinato CAP , ma mi sembra troppo complicato come concetto da applicare, devo andare avanti e non affondare. Fortunatamente sono in buona compagnia e questo mi conforta, gli altri motociclisti attorno a me sono tutti della mia forza, per quanto possibile ci si aiuta in caso di caduta o insabbiamento. Cado troppe volte, per fortuna non vado molto forte e tutte le cadute sono senza conseguenze, ma la mia moto è troppo pesante per me che sono “ gracilino “ di costituzione. Inoltre la mia Honda special è sbilanciata indietro dal serbatoio supplementare troppo a sbalzo sulla ruota posteriore. Non riesco bene a farle fare la traiettoria giusta, in pratica è lei che decide dove deve andare, ma spesso non è la soluzione migliore. Cado ancora, fatico a rimettere in piedi la moto, devo liberarla dalla sabbia. Ogni volta l’avviamento (vi ricordate lo statore?) è difficoltoso e io comincio a essere molto stanco. Su una duna particolarmente ostica mi pianto con la ruota anteriore, smadonno il giusto per liberare la moto dalla sabbia, comincio a scalciare e la moto non parte. Decido di fermarmi un po’ e cercare di prendere forze con un paio di cucchiai di miele che avevo nello zaino . Dopo circa un’ora la moto decide di partire, ma intanto il tempo passa e io sono in ritardo. Da dietro sento dei rumori sospetti. Sono in arrivo lo sciame di fuoristrada che, partiti dopo le moto stanno raggiungendo gli ultimi come me.
Con buona approssimazione i piloti delle Jeep sono tutti dei fuori di testa, vanno a velocità assurda, se ne strafregano dei moscerini (leggi motociclisti) che incontrano sulla loro strada, ti passano di fianco a 1 cm anche se sei fermo in panne anzi soprattutto se sei fermo in panne, ti riempiono di sabbia dalla testa ai piedi, in pratica dei gran signori.

Intanto passano le ore e i km. ma la fine tappa è ancora lontana, mi pianto per l’ennesima volta subito dopo una duna, cado, cerco di sollevare la moto ma non ci riesco, comincia a fare caldo, sono sudato marcio. Mi sfilo lo zaino e mi tolgo il casco sedendomi un po’ di fianco alla moto adagiata sulla sabbia. Lo sconforto si fa largo tra i miei pensieri. Ciliegina sulla torta, arriva veloce un Mitsubishi Pajero, non mi vede dopo la duna, la salta e atterra esattamente sul mio zaino ma soprattutto sul mio casco che ovviamente ha la peggio rompendosi praticamente in due e riducendosi a una frittella. I due lord alla guida del fuoristrada pur accorgendosi del casino che avevano combinato manco si fermano e proseguono per la loro strada . Che Allah li strafulmini.
Recupero il casco, cerco di ricomporlo per potermelo reindossare, cosa che riesco a fare ma a questo punto sembro finito sotto un treno. Umore? Lasciamo perdere. Riesco miracolosamente a ripartire e proseguo per la mia strada (sempre dune, dune, dune). Passano le ore , da dietro arrivano anche i camion, avete presente i DAF di quel tizio olandese che voleva arrivare primo, anche davanti alle Peugeot ufficiali di Vatanen? bene per loro sei una nullità assoluta, devi spostarti tu altrimenti … ti passano sopra. Si fa sera credo di essere poco oltre la metà della prova speciale e ci ho messo tutta la giornata. Sono veramente sfinito, finisco in una specie di cratere di sabbia circondato dalle solite dune. Basta, non ne posso più, mi fermo, mi sdraio per terra per recuperare le forze che mi hanno abbandonato. E’ chiaro che non riuscirò ad arrivare in tempo al bivacco. Mi devo rassegnare la mia Dakar è finita. Rapidamente viene il buio, comincia a fare un bel freddo, il mio fido sacco a pelo viaggia tranquillo sul cassone di un Unimog lontano anni luce da me. Vago con la pila attorno alle dune alla ricerca di qualcosa da bruciare, trovo altri disgraziati come me sia in auto che in moto con lo stesso mio umore. Raccolgo un po’ di sterpaglie secche e qualche rametto un po’ più grosso, accendo un bel fuocherello utilizzando qualche foglio del road-book , mi sdraio attorno al fuoco alla Tex Willer e crollo definitivamente.

In lontananza vedo roghi di auto e camion che avevano abbandonato la corsa e che per qualche motivo erano andati in fiamme, qualcuno spara in cielo i razzi di salvataggio. A giudicare dal numero, ci deve essere un sacco di gente nei guai qua attorno. La cosa non mi riguarda, non ho la forza per fare qualsiasi cosa ne’ pensare a nulla. I ricordi sono vaghi, in altra occasione forse passare una notte da solo nel deserto potrebbe inquietare non poco, di fatto evidentemente il fatalismo prende il sopravvento e ci si abbandona al proprio destino. Avete presente i naufraghi che a un certo punto non fanno più nulla e si lasciano trascinare dalla corrente? Bene penso che a me sia successa la stessa cosa.
Arriva il giorno e con esso un po’ di tepore, non provo neanche a far partire la moto, aspetto che qualcuno mi salvi.
La salvezza arriva dopo alcune ore, quante non so, nelle fattezze del camion scopa della gara, che nel suo capiente cassone recupera i feriti della guerra in corso. I mezzi (auto e moto) vengono tristemente lasciati sulla sabbia. Per fortuna, evidentemente ero sulla strada giusta perché mi fossi perso il mio recupero sarebbe stato un pelino più complesso. Salgo sul cassone e mi trovo decine di altri concorrenti che si erano ritirati e che erano stati già recuperati . Mal comune mezzo gaudio dicono i saggi. Questi camion scopa sono dei mostri a quattro ruote motrici , enormi , che non si fermano davanti a nulla. All’occorrenza riescono a tirar fuori dalla sabbia dei camion in panne e, agganciandoli a dei cavi d’acciaio grossi come un braccio li tirano fuori dai guai. Il viaggio dura un giorno e una notte, con innumerevoli soste per recuperare i ritirati. A distanza di più di trent’anni, se chiudo gli occhi e mi concentro un po’ sento perfettamente il rumore del motore di quel bisonte a quattro ruote motrici mentre affronta le dune e le supera con disinvoltura maggiore di quanto non facessi io. Scoprirò che nella “mia “ tappa si ritirarono quasi la metà delle moto e non so quante auto. La strategia del dentista stava dando i suoi frutti. Quella sera stessa avrebbe speso molti meno soldi per sfamare la truppa.
Ci scaricano, come si fa con il bestiame, ad Hassi Messaud, un paesino sperduto nel deserto, nelle cui vicinanze ci sono solo dei pozzi petroliferi con rispettive raffinerie. Trovo una bettola dove rinchiudermi e stramazzo su una branda modello caserma della seconda guerra mondiale. Finalmente si dorme. Mi alzerò dopo un numero indefinito di ore tipo 18/20 finalmente con anche un po’ di appetito. Esco fuori e mi trovo in compagnia di decine di motociclisti che evidentemente avevano avuto problemi analoghi ai miei. Molti sono francesi, alcuni italiani ma ci sono anche finlandesi tedeschi e alcuni giapponesi. Molti sono anche concorrenti che erano alla guida di auto e camion .
Sono tutti, ma proprio tutti inferociti con Sabine senior per la tattica adottata di scrollarsi di dosso più gente possibile nelle prime tappe della gara. Sarebbe stato bello e anche elegante permettere anche a quelli meno preparati di poter fare qualche tappa meno impegnativa all’inizio, anche solo per acclimatarsi alla gara e dare loro un po’ di soddisfazione personale, visto i sacrifici fatti. Poi selezionare la truppa un po’ più avanti.

Tutti concordi che il vero Sabine mai avrebbe fatto una cosa del genere.

Intanto si sparge rapidamente la voce che qualcuno sta organizzando il recupero dei mezzi abbandonati nel deserto che altrimenti sarebbero stati miele per i predoni del deserto. Gli abbandoni erano stati talmente tanti che era più pericoloso lasciare i mezzi abbandonati nel deserto piuttosto che andarli a recuperare, anche perché le compagnie petrolifere avevano in dotazione degli enormi mezzi a 6/ 8 ruote alte più di due metri con vano carico semplicemente mostruoso sul quale potevano caricare sopra anche i trucks della gara.
Alcuni concorrenti, stufi di stare ad aspettare il quel paese sperduto nel nulla, decidono di ritornare a casa e di abbandonare lì il loro mezzo. Io in questa avventura ci ho già messo troppe energie e soldi, se riesco vorrei recuperare la moto che, in teoria dovrebbe ancora funzionare se non è stata ancora cannibalizzata da qualche predone.
La pazienza e la speranza vengono premiate quando finalmente, insieme a una miriade di Pajero, Range Rover, Unimog, Yamaha, Honda, Bmw varie vedo sul cassone di uno dei “ mostri “ la mia bella Honda bianca blu e gialla.
La scarico, verifico che sia tutta intera e insieme ad altri concorrenti italiani che nel frattempo avevo conosciuto e con i quali avevo trascorso quei giorni, lascio la ridente cittadina algerina e mi avvio verso il mediterraneo dove spero di trovare una nave che mi riporti in Italia. Passo il confine Algeria-Tunisia e infine arrivo a Tunisi dove dopo alcuni giorni mi imbarcherò per Genova.
Tale è stata la delusione di questa partecipazione alla Dakar che è la prima volta dopo trent’anni che la racconto nei dettagli. Persino mia moglie, leggendo queste note è rimasta stupita di tutte le peripezie che dovetti affrontare in quella gara e ovviamente anche un po’ risentita per non avergliele raccontate prima. Ma al mio rientro in Italia, ho voluto rimuovere quello che speravo fosse un sogno realizzato almeno in parte (mi sarei accontentato di arrivare a metà gara) e invece si rivelò un incubo.


Sicuramente una parte consistente della colpa fu mia che sottovalutai la gara o forse sopravvalutai me stesso. Di fatto andò così. Non mi sono mai vantato di aver corso la Dakar, le poche volte che qualcuno ne parla (sempre per iniziativa altrui) dico che non ho fatto la Dakar ma che ho provato a farla e non ci sono riuscito. Quindi non mi ritengo un dakariano.
La mia fida Honda è rimasta in fondo al garage per 30 anni sommersa dalla polvere , alcuni pezzi sono andati perduti (il cupolino con i doppi fari non so dove sia finito Recentemente un amico (quello della scommessa con il Gilera Regolarità alla Sauze 400) mi manda una foto che io non avevo. Ritrae la mia Honda pronta per la gara con tutti gli adesivi dei pochi sponsor che avevo racimolato in bella vista davanti al furgone della Sportauto prima di partire per Parigi. Considerando che parliamo di una special di 30 anni fa tutto sommato faceva la sua figura.
Mi è venuta voglia di restaurarla e di riportarla all’antico splendore, poi magari me la metto in salotto (Luisa permettendo), ho anche ritrovato in un un sacchetto, riordinando il garage durante il lockdown, tutti gli adesivi originali degli sponsor ancora in ottimo stato. Quando si dice il segno del destino.
Dopo la Dakar non ho più praticamente fatto gare in moto se non saltuariamente e con poco entusiasmo. Ho fatto spesso il medico al seguito delle gare motociclistiche anche di un certo spessore, tra le quali ricordo con molto piacere l’Incas Rally del 1989. Poi una duna (ops un panettone) su una pista da cross, presa male ha definitivamente chiuso la mia carriera di fuoristradista fai da te. Fratture multiple, immobilizzazione forzata e prolungata, moglie al 7° mese di gravidanza (già con una figlia di 2 anni) un pelino incazzata… Forse meglio dedicarsi al lavoro vero e così ho fatto.

P.S. qualcuno riesce a procurarmi il cupolino doppio faro della Stilmotor? Ho trovato quello con faro singolo rettangolare, ma cambia completamente il look della moto

Luca Roberti

parisdakar.it ringrazia l’amico Stefano Massenz per il contatto e la preziosissima collaborazione per la realizzazione del post.

Dakar 2002 | Mi chiamo Luiz Mingione e questa è la mia avventura

Mi chiamo Luiz Mingione, sono brasiliano con cittadinanza italiana e quando ho partecipato alla Dakar del 2002 avevo 43 anni, oggi ne ho 65 e vi voglio raccontare la mia avventura.
Seguitemi su Instagram – @luizmingione

Nel 1988, due brasiliani furono i pionieri a partecipare per la prima volta al Rally Dakar, Klever Kolberg e André Azevedo. Seguivo tutto sulle riviste dell’epoca e sognavo un giorno di fare il rally più difficile del mondo.
Sono passati anni…

Nel 2002 il sogno è diventato realtà. È stata la più grande avventura su due ruote della mia vita, partecipare al Rally Arras/Madrid/Dakar nel team PETROBRAS/LUBRAX composto dai ragazzi che mi hanno ispirato nel 1988, che sono stati i miei mentori e ora sono amici, i pionieri brasiliani in il Rally Dakar, Klever Kolberg e André Azevedo.

LA FRUSTRAZIONE

Il sogno di partecipare al Rally Dakar era maturato da tempo e finalmente nel 2001, dopo molte difficoltà per ottenere la sponsorizzazione e far parte di una grande squadra brasiliana, a soli quattro giorni dalla partenza per la Francia, ho avuto un incidente motociclistico nel traffico di San Paolo.
Purtroppo il sogno, tutti gli anni di lavoro, preparazione fisica, allenamento motociclistico, impegni con gli sponsor, si sono interrotti e sono finiti con me gettato sull’asfalto di una strada di San Paolo. Fatalità, sfortuna o “avvertimento divino”.

Per me è stato molto difficile e frustrante, un incidente in moto per strada, il sogno di un ragazzo che stava per fare il Rally Dakar, potete immaginare! La notizia era su tutti i media. C’erano grandi aspettative da parte di diverse persone, io non ero un pilota professionista, ma avevo già partecipato a diverse gare importanti con buoni risultati, puntando a fare esperienza e riprendere a partecipare al Rally Dakar.

Questa sarebbe la mia prima partecipazione al più grande rally del mondo. Il team, gli amici, la famiglia e gli sponsor erano dispiaciuti e solidali, ma coloro che lo hanno sostenuto sono stati implacabili, alcuni anche dell’azienda per cui ho lavorato e che produce motociclette in Brasile, erano entusiasti per il mio progetto. È stato un vero disastro.
Coincidenza o superstizione non lo so, ma dopo questo incidente stradale, col passare del tempo, ho capito che il destino non voleva che andassi alla Dakar del 2001.

PERSISTENZA

Dopo l’incidente, il recupero fisico e psicologico e la frustrazione di non essere potuto partire nel 2001,  ho ricominciato a riorganizzare tutto, gli allenamenti, tutta la preparazione e la battaglia più difficile, ossia convincere gli sponsor a sostenermi nuovamente per partecipare all’edizione 2002. Il Rally Dakar è una competizione  molto costoso e richiede molti investimenti,

LA MOTOCICLETTA

La scelta della moto è stata una grande sfida, ha reso ancora più difficile la mia prima partecipazione, infatti ho deciso di partecipare alla Dakar con una moto di soli 250 cc, scelta imposta dello sponsor che voleva utilizzare l’immagine della Dakar, il rally più difficile al mondo del pianeta, per dimostrare la robustezza e la resistenza del modello e creare strumenti di vendita. Iscritta nella categoria Produzione fino a 250cc con una Honda XR 250 R che è stata acquistata in Portogallo presso la concessionaria Honda e di proprietà del pilota portoghese della Dakar Paulo Marques. Ad oggi ho ancora la targa e la copia del documento della moto a suo nome.
Questa moto è stata preparata in Francia presso l’Officina Challenge 75 a Parigi, aveva un serbatoio in alluminio con una capacità di 10 litri all’anteriore e 9 litri al posteriore con il design di un modello di moto della stessa cilindrata appena lanciato sul mercato brasiliano,  la Honda XR 250 Tornado.

LA GARA

Il Rally Arras/Madrid/Dakar 2002 ha attraversato Francia, Spagna, Marocco, Mauritania e Senegal per un totale di 9.436 km, 6.486 km di prove speciali e collegamento in Africa in 17 giorni con un giorno di riposo ad Atar in Mauritania.
La partenza è avvenuta di notte ad Arras, una città a nord di Parigi, il 28 dicembre 2001 e si è conclusa a Dakar, in Senegal il 13 gennaio 2002.


Durante il percorso europeo della corsa, la mia più grande difficoltà è stata il rigido inverno, avevo molto freddo, durante i viaggi e le gare in circuito speciale, due in Francia, una a Chateauroux di 6 km, una a Narbone, Chateau-Lastours di 35 km e una a Madrid, Spagna di 6 km, queste speciali dovevano definire l’ordine di partenza delle tappe africane. In questi tre brevi prologhi sono arrivato primo nella mia categoria.

Da Madrid ci siamo diretti verso il sud della Spagna dove abbiamo attraversato il Mar Mediterraneo in barca entrando in Marocco a Rabat. Il Rally è già in Africa ed è lì che inizia veramente la gara. Abbiamo fatto un collegamento di 10 km, uno speciale di 80 km e un viaggio il 1 gennaio 2002 di 444 km per un totale di 534 km fino a Er Rachidia in Marocco, molti tratti in pietra e ancora freddo.

Nel deserto la difficoltà più grande è stata attraversare le dune alte, con sabbia molto soffice (Fesh-Fesh) e rispettare i tempi di tappa, pur guidando una moto affidabile dal punto di vista meccanico, era meno potente e veloce della maggior parte delle moto che hanno partecipato alla gara, tutte oltre i 400cc. Da quel giorno in poi, praticamente fino alla fine del rally, ho terminato le tappe quasi a fine giornata e di notte.

Nella settima tappa siamo partiti da Quarzazate passando per Tan Tan in Marocco e terminando a Zouerat in Mauritania per un totale di 1.545 km suddivisi in due tappe tra collegamento e speciale con una “finestra” di appena 6 ore di soste per riposo, rifornimento, breve revisione della moto e cambio road book.
Se rientravi nell’intervallo di tempo era possibile riposare entro questa finestra di 6 ore, ma per me, con una moto di cilindrata inferiore, era impossibile riuscire a riposare entro questo tempo.

Nella tredicesima tappa, il giorno prima di arrivare a Dakar, c’è stata un’altra prova speciale di 1.472 km divisa in due parti con viaggio notturno e riposo di 6 ore. In questa tappa sono arrivato al campo entro il tempo limite previsto per l’inizio della corsa, guidando per quasi 20 ore di fila senza riposo.
Con una moto di piccola cilindrata che aveva una grande affidabilità meccanica, ma poca velocità, la cosa più difficile era guidare entro il tempo limite per completare le tappe, dovevo stare attento a non superare quel tempo. In quell’edizione con tre penalità di tappa, il pilota veniva squalificato dalla gara.

Dovevo essere regolare, non perdere tempo con i rifornimenti e stare attento alla navigazione per non perdermi nel deserto e risparmiare la moto, per non finire lungo il percorso.
In sedici giorni sono stato penalizzato solo una volta, di un’ora. Ricordo ancora, ero su una prova speciale da completare con un tempo limite di 14 ore, una tappa con molta “erba di cammello”, per darvi un’idea, è una “piccola collina di sabbia” alta da 1 a 1,5 metri con un ciuffo d’erba in cima, ora immaginatela una accanto all’altra a 360 gradi a perdita d’occhio.

In questa giornata ho guidato alla fine della tappa percorrendo circa 100 km di notte, il che mi ha costretto a procedere ancora più lentamente, da qui l’inevitabile penalità. Durante le tappe nel deserto ho avuto inevitabili problemi con la navigazione, nei tratti con molte dune ho potuto completare le tappe solo di notte, riducendo la mia visibilità dei punti di riferimento in mezzo al deserto.

Ricordo ancora le  due tappe in “loop” con il GPS bloccato, e solo la funzione bussola abilitata alla navigazione per rendere ancora più difficile l’orientamento, e a complicare le cose in una di queste tappe si è verificata pure una tempesta di sabbia che mi ha impedito di individuare i riferimenti dal road book e cancellato tracce delle prime motociclette.
Nel briefing della sera prima che ha preceduto le prove speciali con GPS bloccato, abbiamo ricevuto un codice per sbloccare il dispositivo in caso ci fossimo smarriti nel deserto e al termine della tappa, l’organizzazione avrebbe controllato sia il dispositivo che i corridori che lo avevano utilizzato per trarne giovamento e ovviamente ricevendo la penalità di tempo.

L’ATTACCO TUAREG

In una delle tappe desertiche con il terreno più duro, c’era una prova speciale ad alta velocità in cui le auto più veloci andavano come il vento sorpassando molte motociclette, e questa tappa ha attraversato un villaggio in mezzo al deserto con il controllo radar della velocità da parte dell’organizzazione per la sicurezza. gente del posto, e tutti hanno dovuto rallentare.
Jean Louis Schlesser, ex pilota di Formula 1, era alla guida di una di queste vetture e quando arrivò in questa parte della città, i tuareg avevano eretto una barricata per bloccare e derubare i concorrenti. Schlesser ha sfondato la barricata e ha continuato la gara, ma sucessivamente la sua macchina ha preso fuoco e ha dovuto abbandonato la gara.

Il mio compagno di squadra Joaquim Gouveia aka Juca Bala, con una moto da 400 cc stava guidando davanti a me ed è stato colpito da un bastone al braccio nello stesso villaggio, ma è riuscito a rimanere sulla moto e ha continuato.
Quando sono arrivato al villaggio i due tuareg armati di bastone si stavano dirigendo verso di me. Non ho esitato e istintivamente ho aumentato la velocità puntando la moto contro di loro che roteavano i bastoni senza riuscire a colpirmi così sono riuscito a passare illeso, ma è stato uno spavento. In un’altra tappa deserta non ho più visto il concorrente cileno che aveva un numero davanti al mio, si chiamava Luis Eguigurem, più tardi nel campo alla fine della tappa ho scoperto che era stato derubato mezzo al deserto e ha dovuto abbandonare la corsa.

LE CADUTA

Ho fatto diverse cadute durante i sedici giorni di gara, ma due in particolare sono state brutte, una di queste alla fine di un tratto notturno, a circa 40 km dal campo, sono caduto in un fosso profondo in un fiume in secca, ho colpito la testa al suolo, tutto è successo molto rapidamente, mi sono alzato con dolori in tutto il corpo. Mi ci è voluto un po’ per tirare fuori la moto dalla buca e sistemare le parti danneggiate in modo da poter riprendere la corsa.
Un altro è stato in Marocco, in una regione con molti sassi, la molla che regge il cavalletto laterale si è staccata e ha fatto leva a terra in una curva, la moto si è ribaltata frontalmente, ho sbattuto la testa molto violentemente. Sono rimasto completamente stordito per un po’, la caduta ha anche danneggiato molto la moto.

LE DUNE

Una delle tappe difficili del rally è stata la prova speciale prima del giorno di riposo all’arrivo ad Atar in Mauritania. Il decimo giorno di gara, diversi piloti con motociclette, auto e camion di grossa cilindrata sono rimasti lungo il percorso, bloccati le grandi dune arrivando a fine tappa solo la mattina dell’inizio della giornata successiva al giorno di riposo, praticamente fuori gara.
Penso che in questa giornata ho avuto un po’ di vantaggio, avevo una moto più lenta per le tappe veloci, ma molto più leggera, questo mi ha permesso di non piantarmi più di tanto nelle dune alte e morbide di questa giornata.
Ho sempre cercato di trovare il percorso migliore, scalando le dune in diagonale, fermandomi in cima e cercando la fila di dune successiva cercando di trovare l’opzione migliore, anche percorrere tra le dune nella parte bassa era pericoloso, potevo rimanere bloccato, è come un labirinto Una volta entrati, spesso non si torna più indietro ed è molto facile perdersi.
Ho cercato di controllarmi e di stare attento a non commettere errori e mettere a rischio la mia gara, con poco meno della metà delle tappe rimaste per raggiungere Dakar.
Nel deserto ci sono diversi tipi di dune, fra queste quelle “a imbuto” se cadi in una di queste, come è successo a me, per uscirne in pratica devi scalare degli autentici murid i sabbia. Per fortuna uno dei “muri” non era molto ripido, e dopo aver spinto la moto per circa 50 minuti sulla sabbia soffice come farina e con il motore sempre a manetta sono riuscito a uscire. In quel giorno ho dovuto dare fondo alle mie energie fisiche, una forza che non sapevo nemmeno di avere, non potevo lasciare tutto i miei sacrifici, le difficoltà e gli anni di preparazione per partecipare al rally potessero finire dentro quell’“imbuto” di sabbia in mezzo al deserto del Sahara.

SOLIDARIETÀ

Il Rally Dakar è una gara competitiva dove non sempre tutti si aiutano a vicenda, purtroppo ho potuto constatarlo da vicino, ma viceversa ho sempre aiutato i piloti in difficoltà che incontravo durante durante la gara.
In una tappa nella savana, con pista veloce, c’era un corridore fermo a circa 2 km alla mia diagonale sinistra, che sventolava la sua maglietta, diverse moto lo sorpassavano senza prestargli aiuto. Sul momento preso dallo sforzo non mi sono fermato, poi ho pensato che in futuro potrei essere io nella sua stessa situazione, quindi sono andato nella sua direzione. Era rimasto senza benzina, mancavano solo pochi km per finire la speciale, avevo ancora abbastanza carburante per finire quindi ho rinunciato a un po’ di benzina dalla mia moto per fargli finire la sua tappa.
Un altro giorno ho aiutato un pilota giapponese, anche lui senza benzina a 60 km dalla fine della tappa. Ma la situazione più triste è stata quando stavo facendo il pendolare di notte durante una delle tappe della maratona di 1.500 km, quando ho visto la luce posteriore della moto di un pilota francese che correva a poco più di 500 metri davanti a me, e all’improvviso la luce è scomparsa, ho rallentato per capire dove fosse finito. Purtroppo era caduto nel greto asciutto di un fiume (Oued).
Ho fermato la mia moto lontano da dove passavano altri veicoli per aiutarlo, l’ho trovato sdraiato sotto la moto ed era molto sofferente, l’ho trascinato con cautela in un posto sicuro e l’ho coperto con la coperta termica.
Aveva una caviglia rotta, sono tornato alla sua moto e ho attivato il suo segnalatore elettronico che era fissato ad una borsa di pelle sul retro della moto, che emette un segnale satellitare per chiedere aiuto, ho aspettato circa 50 minuti i soccorsi. Mentre veniva veniva preso in consegna dai soccorso mi ha sussurrato: “arriva a Dakar, arriva a Dakar”.
L’ho lasciato ai medici e quando sono tornato alla corsa, era sempre più buio e i camion, che partono dopo delle moto stavano già sopraggungendo. Era difficile passare in mezzo a loro che oltre ad essere mostruosi, alzavano una polvere infernale. Fortunatamente sono riuscito ad arrivare in tempo per alla partenza della speciale successiva mentre sorgeva l’alba, ma senza avere il tempo di riposarsi un po’ prima dell’inizio della prova speciale.

L’ARRIVO A DAKAR

Il mio obiettivo iniziale e quello del team era finire il rally, questa era la mia prima partecipazione e la mia strategia era quella di concentrarmi solo sulla tappa del giorno e non preoccuparmi della fine del rally, vivevo la corsa un giorno alla volta, ed è così che sono riuscito ad arrivare a Dakar.
Sono stati 17 giorni di gara, con un giorno di riposo, una gara stancante fisicamente ed emotivamente. Quando ci sei dentro, sei minato giorno dopo giorno dalla stanchezza, dalla paura, dalla preoccupazione per la resistenza della moto che temi debba abbandonarti da un momento all’altro, dalle poche ore di sonno, dal mangiare poco e male. Guidavo più di 12 ore al giorno, spesso senza potermi fare una doccia. Il Rally Dakar del 2002 è stato molto difficile, come di solito lo è un vero Rally Dakar. Opinione confermata anche dagli altri piloti e dei miei esperti compagni di squadra, André Azevedo e Klever Kolberg, e per loro quella era la loro quattordicesima partecipazione alla Dakar.
Dei 425 veicoli partiti da Arras a nord di Parigi il 28 dicembre 2001, di cui 117 auto, 34 camion, 53 auto di assistenza, 54 camion di assistenza e 167 motociclette, di cui solo 58 sono arrivate a Dakar, e 52 hanno concluso la gara regolare. Io con la mia Honda 250cc, sono stato Campione della categoria Produzione fino a 250cc e 44° posto assoluto, correndo fra le moto che andavano dai 250cc ai 900cc.


Una statistica dell’organizzazione della gara dice che solo il 5% di coloro che partecipano per la prima volta finiscono un Rally Dakar e solo l’1% vince, io faccio parte di questo 1%. Devo parte della mia vittoria all’esperienza e alla struttura del team PETROBRAS/LUBRAX prima e durante il rally.
A Dakar, in Senegal, sulla rampa d’arrivo, davanti al Lago Rosa, è stato difficile contenere le emozioni, concludendo con la vittoria nella categoria Produzione 250 cc, il rally più difficile del pianeta, dopo tanti problemi e difficoltà è stata una grande prova e sono riuscito a realizzare il sogno di una vita.
Il Rally Dakar del 2002 è stata una grande avventura, un’esperienza di vita ed emozioni che ricorderò per sempre.
Ho potuto conoscere da vicino idoli, piloti di Rally che vedevo solo sulle riviste come Fabrizio Meoni, Giovanni Sala, Alfie Cox, Richard Sainct, Nani Roma e tanti altri, è stato incredibile.


Durante il raduno mi sono perso nel deserto, sono caduto più volte, sono stato attaccato dai tuareg, ho perso 6 kg in 17 giorni, ho dormito poco o nulla senza potermi fare una doccia decente per diversi giorni, alcune mattine presto ho dormito nel deserto accanto alla moto aspettando l’alba per partire alla prova speciale, ho imparato a conoscere limiti, qualità e forza che non sapevo nemmeno di avere nelle situazioni più difficili, ho scoperto culture, luoghi e persone che mi non dimenticare mai.


Dedico la mia vittoria al Rally Dakar di Arras Madrid del 2002 nella categoria Produzione 250cc al team PETROBRASLUBRAX guidato da Klever Kolberg e André Azevedo, al mio compagno di squadra Joaquim “Juca Bala” Rodrigues e al giornalista Ricardo Ribeiro.
Nel 2024 questa storia compirà 22 anni.


Luiz Mingione

Dakar 1986 | Marc e Philippe Joineau e la Suzuki ritrovata

Di Marc Joineau

Cercherò di raccontarvi una delle storie più incredibili e curiose della Dakar ’86 e probabilmente di tutte le Dakar, quella della tragica scomparsa di Thierry Sabine e dei suoi compagni. Ero in corsa con mio fratello Philippe su due Suzuki DR 600 del Team Suzuki France e dopo quanto capitato in quel triste 14 gennaio non me la sentivo più di correre, avevo deciso di abbandonare la gara. Il team non era molto contento sulla mia decisione, ma ritengo tuttora che la mia scelta fu quella giusta.

Mio fratello Philippe invece era ancora in gara, si stava difendendo bene rientrando costantemente nelle prime 15 posizioni. Mi sembra di ricordare che il fatto che vi sto per raccontare, sia capitato durante la speciale di Labé – Kayes di circa 600 km, tappa in cui il destino decise di giocare con lui. Questa speciale prevedeva passaggi in mezzo alla boscaglia fitta con punti già lenti che prevedevano anche piccoli guadi da attraversare.

P Joineau 1986

All’uscita di uno di questi guadi la moto di Philippe si spense non dando più segni vitali. Lui era un buon meccanico e con l’aiuto di Gilles Salvador, anch’egli su una Suzuki si misero a smontarla per capire cosa non funzionasse più. La diagnosi fu  impietosa e senza appello: l’alternatore lo aveva abbandonato, non c’era più modo di ripartire, la gara era finita. Nel momento di massimo scoramento e di presa coscienza che l’avventura era finita, ad un tratto un ragazzotto locale si avvicinò e gli disse: “nel mio villaggio c’è una moto che sembra uguale alla tua, addirittura ha lo stesso numero di gara! Vieni con me, è a casa di mio cugino che fa il poliziotto!”

M Joineau 1986-2

Gilles e Philippe si guardarono e sorrisero, chiedendosi se per caso non si trattasse di uno scherzo o peggio un tranello per poi derubarli. Non potevano certo immaginare che erano finiti in panne a soli 2 km da dove Philippe si era fermato l’anno precedente. Gilles caricò il ragazzo in sella con sé fino alla stazione di polizia da suo cugino. Non potete immaginare la sorpresa, quando Gilles vide che effettivamente quella era la moto di Philippe! L’anno prima mio fratello era stato investito da un’auto e aveva riportato la frattura della spalla e della clavicola. Prelevato e curato dall’équipe medica, chiaramente dovette abbandonare la sua moto sul posto dell’incidente perdendone le tracce definitivamente.

Marc Joineau, decise di ritirarsi dopo la morte di Sabine

Marc Joineau, decise di ritirarsi dopo la morte di Sabine

Incredibile anche solo pensarlo un’epilogo del genere. Finalmente sembrava che tutto volgesse verso una soluzione a quel problema che fino a poco prima sembra va insormontabile. Ma non fu così semplice. Il gendarme infatti, con la meticolosità e la puntigliosità che imponeva il suo ruolo (e probabilmente un’offerta danarosa adeguata), volle una prova che Philippe fosse effettivamente il proprietario della moto che sostava da ormai un’anno nella sua rimessa. Per fortuna il ragazzo, che si era proposto come intermediario, si impegnò per confermare la loro buona fede e la situazione si sbloccò con la sua parola data come garanzia.

Philippe Joineau e la sua Suzuki DR 600

Philippe Joineau e la sua Suzuki DR 600

Ci accompagnarono dove si trovava la moto. Incredibile era proprio lei, la moto di Philippe con cui corse la Dakar 1985, ormai priva di serbatoio, ruote e sella, ma con un’alternatore perfettamente funzionante. Dopo una prima fase di stupore e incredulità Gilles si mise a lavorare con gli attrezzi. Dopo un rapido smontaggio, tornò da Philippe, con l’alternatore di ricambio, che fu rimontato velocemente sulla moto. Una pedalata, poi un’altra e un’altra ancora e la Suzuki riprende a rombare borbottando orgogliosamente. Un saluto veloce al ragazzo, adeguatamente premiato, i due riusciranno a riprendere la gara senza perdere troppo tempo e rimanere in corsa.

Una storia incredibile, che ripensandoci ancora oggi fa sorridere.

Con una macchina della nostra assistenza fuori gara decisi di tornare in quel villaggio con i miei due compagni di strada Pierre Mesplombs e Jean-Marie Bonnot per cercare di recuperare la moto o meglio, ciò che ne rimaneva.

E qui inizia un’altra avventura, disseminata di insidie, che non sto a raccontarvi. Ricordo ancora di aver condiviso un buon pollo con i gendarmi ben felici di trattare con noi. La moto fu recuperata parzialmente smontata, e caricata sul retro della nostra auto. Ci unimmo al rally a Saint-Louis, dove Philippe stava ancora correndo, sempre con la mano ingessata e un polso fratturato, dopo una brutta caduta avvenuto in una tappa di collegamento.

Joineau Philippe 1986

Dopo 15000 km la Dakar era finalmente arrivata alla sua conclusione. Philippe si classificò 16°, risultato incredibile soprattutto considerate nelle sue condizioni fisiche, Gilles 25°. Faccio presente, per farvi capire la durezza di quell’edizione, che solo 29 indomiti guerrieri in moto arrivarono al traguardo. Sui loro volti c’era impresso un misto di tristezza e soddisfazione per il ricordo di Sabine e compagni che non erano li ad aspettarli. Il traguardo di quella durissima edizione aveva suscitato emozioni discordanti nell’animo di tutti gli addetti ai lavori.

Racconto tratto, tradotto e interpretato dalla redazione parosdakar.it su post tratto dalla pagina fb Dakardantan

Dakar 1980 | Il coraggio e i limiti umani non seguono i regolamenti

Fonte: Rapporto della rivista Moto Show
Giornalista Gabriel Hochet

Pochi sanno che nella prima edizione del Rally Parigi-Dakar, quasi il 100% dei concorrenti si è ammalato a causa del cibo locale. È già famoso il motto “i sacchi vuoti non stanno in piedi”. Con le informazioni e l’esperienza della prima edizione, Thierry Sabine decise di coinvolgere Africatour, una società specializzata in viaggi in Africa, per creare una sorta di “mensa militare”.

MEZIANI Patrick 1980

Per la seconda edizione della gara venne stata aggiunta una tassa sul cibo al momento dell’iscrizione. Il cibo era sano, il gusto meglio non commentare. Dettaglio importante: per mangiare era necessario completare la tappa. Il nuovo regolamento vede l’inserimento della categoria autocarri. Nella categoria auto compare già il primo team ufficiale: Volkswagen. Tra le moto, le Yamaha XT 500 sono di nuovo le più numerose, ma non c’è ancora una squadra ufficiale.

Il rally inizia il 1° gennaio con 204 concorrenti. Il ritmo è più elevato e con esso anche il numero di incidenti e problemi meccanici.

Sabine decide di portare un gruppo di giornalisti a un attraversamento del fiume nella penultima tappa, così da poter immortalare gli eroi in azione. Al momento del passaggio, videro concorrenti esausti, feriti e malati. Il francese Lioret, che tremante per la febbre, con il polso sinistro rotto e il ginocchio ferito, venne assistito dai medici ma continuò la corsa (ndr. concluse eroicamente i 10000 km della corsa classificandosi al 4° posto fra le moto).

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Il francese Lloret, stoico al traguardo.

Perplessi, i giornalisti commentano: “ma sono completamente pazzi, non seguono un regolamento”.

Sabine finge di non capire, sa che non esistono regole per il coraggio, né limiti umani. Il francese Cyril Neveu è due volte campione in sella a una Yamaha XT 500. Le vendite di questo modello salgono alle stelle. Il mondo inizia a rendersi conto dell’importanza del Rally Parigi-Dakar. Le prime auto sono le Volkswagen Iltis 4×4 dei tedeschi Kotulinsky/Leffelman.

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Dakar 1983 – Peggio è meglio

Testo di Klever Kolberg
Fonte facebook

Immaginate, Thierry Sabine ha preparato un percorso giudicato diabolico per la quinta edizione del Rally Parigi-Dakar! Ha ottenuto il diritto di passare attraverso le “piste” proibite del Tassilli (nel sud-est dell’Algeria) e del Ténéré (Niger). I concorrenti temevano e allo stesso tempo erano affascinati quando immaginavano le gigantesche dune degli altipiani montuosi di Illizi e Tamanrasset, le spaventose piste di Djanet e il crudele deserto del Ténéré, il più grande del Sahara.

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Ma Sabine non era soddisfatto. Inoltre si era inventato una tappa maraton di 1.700 km da percorrere in tre giorni, nel bel mezzo del deserto del Sahara, dove ci sono solo sentieri distrutti dalle intemperie.Fin dalla prima tappa, il piccolo pilota belga Gaston Rahier, tre volte campione del mondo di motocross, dimostra la tattica del team BMW: attacco totale! Finisce per perdere la testa della classifica il terzo giorno, quando si rompe il carter della sua moto a causa di un urto contro una roccia.

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All’ingresso del Ténéré i leader erano il francese Hubert Auriol con la sua BMW nelle moto e il belga Jacky Ickx con la sua Mercedes 280 GE 4×4 nelle auto. Tutto procede regolarmente fino a metà gara. Durante il briefing mattutino del 12 gennaio, Sabine avvertì tutta la carovana: “Vedrete le dune più fantastiche del mondo. Fate attenzione in questo bellissimo deserto, è pericoloso”, ma nemmeno lui immaginava che stava per arrivare la tappa più dura della storia della Dakar.

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Per i primi 100 km tutto è andò bene, ma all’improvviso il cielo divenne grigio, pesante, il vento aumentò e il rally venne stato colpito da una fortissima tempesta di sabbia. La visibilità si riduceva rapidamente e lo scenario sembrava quello di una fiction sul pianeta Marte. La tempesta imperversò per tutta la notte. Sabine cercò di salvare alcuni concorrenti, ma il suo elicottero si schiantò all’atterraggio, senza riportare ferite, (Sabine sarebbe deceduto in un incidente in elicottero tre anni dopo, durante l’edizione del 1986). Tutto divenne ancora più complicato.

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I primi concorrenti che completarono la tappa arrivarono esausti, crollando per la stanchezza. Chi era ancora nel deserto ha vissuto un’esperienza simile a quella di uno zombie. Alcuni sono diventati disperati pensando che non sarebbero mai riusciti a uscire da lì. Quaranta concorrenti sono stati dispersi per quattro giorni, ma tutti sono stati ritrovati sani e salvi. Nelle ultime tappe Jacky Ickx ruppe un asse della sua Mercedes, ma fu salvato dal camion di supporto del team Range Rover, uno dei suoi principali rivali. Una storia irripetibile ai giorni nostri! Ickx è poi risultato il vincitore della categoria auto. Hubert Auriol ha invece vinto per la seconda volta la gara di moto con la BMW.

La copertura della stampa internazionale è stata più grande che mai. Il 5° Rally Pari-Dakar ha affascinato il mondo, la gara ha continuato a crescere e l’immagine dell’avventura è stata ancora più forte. L’azzardo di Sabine cominciava a dare i suoi frutti.

DAKAR 1989 | Girardi e il favore inaspettato

Testo di Nicolò Bertaccini

La Paris-Dakar, quella che tutti abbiamo amato e che ancora amiamo, non smette mai di restituirci racconti. La passione di ognuno permette di tener vivi i ricordi e ogni tanto fa riaffiorare un ricordo, un aneddoto. Questo viene dalla Spagna e ci viene riportato da Joan Marti Utset, un amico del nostro sito, che ringraziamo per la condivisione. Come tutti i racconti che risalgono ad oltre trent’anni fa non tutti i punti sono chiari, non tutti i ricordi sono nitidi. Però gli elementi sono sufficienti per ricostruire la storia.

Siamo nel 1989, undicesima Dakar. Joan è al seguito della carovana in un team che accompagna un gruppo di giornalisti. Stanno seguendo la gara, la documentano, la raccontano. Ad un certo punto, siamo all’ottava tappa, poco prima della metà della gara, la Termit – Agadez, vedono una moto a terra. Si fermano e vedono il pilota tramortito: ha subito una botta alla testa e non è presente a se stesso. Con lui c’è uno dei compagni di squadra. Il pilota a terra a Alessandro Girardi, pilota del team Assomoto in sella ad una Honda XR600.

 

Girardi 1989

 

Il suo compagno di avventura, di conseguenza, deve essere uno fra Canella, Pollini o Viziale. Il compagno si assicura che Joan e gli altri prestino il dovuto soccorso e gli raccomanda di caricare la moto, dopodiché parte. Nel gruppo di giornalisti c’è anche un medico, cosa abbastanza frequente allora. Si rende conto che Girardi non è in condizione e lo carica in auto. Qui comincia la cosa incredibile.

Joan prende la moto di Girardi e, nonostante il manubrio storto e qualche altra ammaccautra, la porta fino al bivacco di Agadez, tappa fissa della gara di Sabine. Appena arriva cerca il team cui consegnare la moto e poi si ricongiunge ai suoi. Il suo compiuto è terminato, può rientrare in Spagna. C’è un particolare. Quando arriva ad Agadez, all’arrivo di tappa, l’organizzazione gli chiede la carta di controllo.

Joan dice di averla persa e la direzione gara, all’epoca ancora molto flessibile, si annota il numero di tabella della moto, numero 17.

Joan torna a casa, attraversa l’Algeria e arriva a Barcellona. Ovviamente continua a seguire la corsa, raccoglie informazioni ed immagini come può, come tutti noi che eravamo a casa. Ci sono però le immagini dell’arrivo, gli ultimi km e la festa. Joan è davanti al suo televisore e qualcosa attira il suo sguardo: una tabella numero 17. Girardi ha ripreso la moto ed è arrivato sul Lago Rosa, alla fine della corsa. Probabilmente il giorno di riposo ad Agadez gli ha permesso di rimettersi in sesto e di continuare la sua avventura nel deserto.

Non sappiamo come arrivare a Girardi, però ci facciamo portatori del messaggio di Joan che a distanza di oltre trent’anni vuole complimentarsi con lui e raccontargli del suo piccolo aiuto.

Ndr: Alessandro Girardi è classificato in 42* posizione alla Dakar 1989, unica volta sul Lago Rosa in 3 partecipazioni.

DAKAR 1989 | Il diario di Aldo Winkler

La decisione di partecipare alla Dakar andava presa entro giugno. Presa la decisione c’era il tempo sufficiente per organizzarsi e prepararsi, a 360 gradi e anche oltre. Io ero reduce dall’edizione 1988 in sella ad una Honda ufficiale monocilindrica. Honda era campione in carica, grazie al trionfo di Orioli con il bicilindrico. I rapporti fra Honda ed il team di Ormeni che si occupava di gestire il team italiano si erano rotti. Così ricevetti da Honda Italia il diktat di non restituire la moto con cui avevo partecipato ad Ormeni.
Quando prendo la decisione di partire la moto è ancora nel mio garage. Penso che sarebbe un ottimo punto di partenza poter contare su di lei e mi azzardo a chiedere al dottor Manicardi, presidente di Honda Italia, il permesso di riportare la moto sulle piste africane. Lui non solo acconsente ma mi dice di prendere anche le moto utilizzate da Kasmakers ed Everts (il papà) per poterci ricavare un set di ricambi


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Non mi pareva vero. Certo, le moto e le varie componenti avevano un passato tribolato alel spalle, erano tutte segnate da partecipazioni alla Dakar, quindi ci ricavai molto poco (un motore e…mezzo). Però smontare e rimontare pezzi con sopra i nomi di Orioli, De Petri, Balestrieri, Terruzzi, Everts e Kasmakers è stato forte. Mi sentivo un po’ come il dottor Frankenstein del romanzo di Mary Shelley.

Non riuscii ad inserirmi in nessun team e partecipai quindi da privato e in solitaria. Ingaggiai Mario Barbiero come meccanico aviotrasportato e approntai 3 casse di ricambi che caricai su 3 camion diversi, per precauzione. L’edizione precedente ero giunto 19° sul Lago Rosa con il rammarico di una penalità di tre ore per un salto di controllo orario in Francia. Nutrivo la segreta ambizione di poter entrare nei dieci. Onestamente però, l’obiettivo primario era quello di arrivare in fondo.

I mille preparativi fanno volare i mesi, si fa il tempo di partire molto velocemente.

La gara è subito segnata da un incidente mortale: un pilota Giapponese muore durante il trasferimento in Francia centrato da un ubriaco. Gli incidenti e anche la morte sono elementi con cui indubbiamente sai di dover fare i conti quando partecipi a certi eventi, però quando poi accadono colpiscono nel profondo fino a minare la voglia di proseguire. In Tunisia ho saltato un timbro, come accaduto l’anno precedente in Francia, ma me ne sono accorto e sono tornato indietro, perdendo però parecchio tempo.

Nella tappa che arrivava a Tumu (Libia) mi ero fermato su un pianoro di sabbia, assieme ad alcuni altri piloti che come me si erano persi. Mentre cercavamo di capire la giusta direzione miwinker11-1989 rendo conto che un altro pilota, Francese, anche lui senza più la giusta rotta, mi sta puntando. E’ girato di lato, distratto nel cercare la giusta via e non mi vede. Da qui cominciano i miei guai! Fortuna vuole che nessuno si sia fatto male, ma il retro della mia moto si è piegato e i serbatoi posteriori toccano la ruota. Ci mettiamo in tre sulla moto per far leva a provare a raddrizzarla quel tanti per consentirmi di concludere la tappa. L’arrivo a Tumu aveva due caratteristiche: era la sera del 31 dicembre, non era previsto il supporto degli aviotrasportati. Quindi, mentre tutti festeggiavano il Capodanno con un cenone luculliano e tanto di fuochi d’ artificio, io sono stato costretto a lavorare per risistemare la moto con il crick preso in prestito da un concorrente in auto.

Dirkou – Termit: Niger. Tappa di puro deserto con tantissime dune difficili da interpretare. Faccio buona parte assieme a Boano che arrancava tantissimo con il suo Africa Twin. Termit è un posto sperduto nel cuore del Niger, con solo un rudere di casa. L’Africatours (I’organizzazione che si occupa del catering), non c’è, quindi non troviamo nulla da mangiare. Ci danno bottiglie d’acqua e razioni di sopravvivenza. Assieme ad alcuni altri motociclisti siamo andati da un gruppetto di locali dai quali siamo riusciti ad acquistare un pollo. Se chiudo gli occhi ne sento ancora il sapore, uno dei piatti migliori che abbia mai mangiato, meglio di qualsiasi piatto di un ristorante con stelle Michelin. L’organizzazione ci comunica anche che la tappa Dirkou del giorno precedente è stata tagliata fino al punto del primo timbro. A quel punto la classifrica dice 14°. Si riaccendono le mie segrete speranze di chiudere fra i topten.

Termit -Agades: Sin dai primissimi km la moto non è a posto ed iniziano i miei guai. Ancora oggi non ho capito cosa non funzionasse: probabilmente benzina sporca. Ad ogni modo sono stato costretto a fermarmi più volte per pulire il carburatore. Per accedere al carburatore dovevo però smontare il serbatoio ogni volta. Ad un certo punto, durante una di queste soste in pieno Ténéré, dal nulla sono sbucati due ragazzini sui 15 anni. Non gli preso molta attenzione perché sono preso dalla mia pulizia quando improvvisamente mi rubano il casco e la borraccia a forma di marsupio. Li inseguo, raggiungo quello con il casco, me lo riprendo e lui scappa via. Finisco di montare la moto e riparto. Faccio nuovamente una decina di km, dopodiché la moto si ferma di nuovo. Questa volta il problema è che il pezzo di ottone che tiene il getto del massimo è caduto giù dal corpo del carburatore. Un disastro! Non ho mai capito se si è rotto per lo stress subito dal materiale o perché a forza di avvitare e svitare il getto si è danneggiato. Ad ogni modo sono esausto e frustrato. Spero che arrivi un camion in gara e che mi carichi la moto così magari arrivo ad Agades. Molti piloti hanno avuto questa fortuna. Scende la notte e mi capita di notare in lontananza i fari dei mezzi, purtroppo tutti molto distanti.

 

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Al mattino passa un aereo, mi vede e mi lancia un messaggio: “non ti muovere, il camion scopa passerà. Sei sulla pista. Scrivi tuo numero sulla sabbia. Coraggio!”
In quel preciso momento mi è stato detto che è iniziata la mia (dis)avventura. Infatti, la persona a bordo dell’aereo che mi aveva visto invece di segnalare “localizzato” ha scritto “recuperato”. Ignaro di tutto ciò, mi metto con pazienza e fiducia ad aspettare.
In quei momenti non sai mai da dove arriveranno le risorse per farcela. Avevo letto un libro in cui un tuareg era sopravvissuto mettendosi una pietra in bocca e diventando lui stesso una pietra con la sola forza della mente. Ho cercato di imitarlo. Avevo però parecchia sete anche perché le continue operazioni sulla moto mi avevano consumato. Passa anche la seconda notte che nessun camion compaia all’orizzonte. Questa volta, però, riesco a dormire e mi ricordo di aver fatto tantissimi sogni con tante forme di acqua (vasche, fontane, docce…).winker18-1989

Al mattino mi risveglio con un profondo senso di angoscia, dato da due fattori: in primis la consapevolezza di essere fuori gara, in quanto gli altri erano già ripartiti; in secondo luogo mi assale un dubbio “perché non sono ancora arrivati quelli del camion scopa? Ma arriveranno?”.
In questo stato di angoscia passo tutta la mattina e penso ai due ragazzi con cui avevo avuto quel diverbio. “Sicuramente, se torno indietro troverò qualcuno”, pensai. A questo punto dovevo prendere una decisione importantissima: tornare indietro alla ricerca di qualcuno, con tutte le insicurezze di trovarli veramente, stare lì e magari nessuno sarebbe più arrivato. D’altra parte, se mentre gironzolavo come uno stupido nel deserto fosse arrivato il camion scopa dove mi aveva localizzato l’ aereo, non avrebbe trovavano nessuno e se ne sarebbe andato via.

La mai testa era affollata di tutti questi pensieri. Forse questo è stato il momento interiormente più drammatico di tutta la vicenda. Alla fine decido di partire anche perché temevo che il giorno dopo non avrei avuto più la forza di camminare. Prima di partire, faccio il testamento con un messaggio per Paola attraverso il quale provo a trasmetterle il mio amore. Parto a metà pomeriggio con molta titubanza e torno indietro sulle mie tracce, cammino e cammino. Ad ogni passo mi sentivo sempre più debole ma passo dopo passo proseguivo, ormai il corpo non rispondeva ai segnali di fatica che gli trasmetteva la testa, andavo avanti, quasi per inerzia, sarei potuto morire mentre camminavo. Ormai era notte e non vedevo più nessuna traccia, in un momento di lucidità mi salì ancora più angoscia. All’improvviso mi parve di vedere in lontananza una lucina. Sembrava vicina ma per raggiungerla a piedi mi ci volle un’infinità.

Mi faceva andare avanti la consapevolezza che cresceva avvicinandomi: qualcosa, laggiù, c’era. Questa nuova speranza mi rasserenava, più mi avvicinavo, più mi tranquillizzavo. La lucina che avevo visto nel mezzo della notte desertica era un fuoco attorno al quale si scaldava una famigliola composta da due genitori e sei bambini. Mi accolgono con molta premura, probabilmente rendendosi conto dello stato in cui ero. La prima cosa che chiedo è “l’eau”, loro invece mi hanno offerto una brocca di latte cagliato talmente denso che faticavo ad ingerirlo, nonostante la sete. Subito dopo per fortuna mi hanno offerto anche il loro mitico thè. Senza dubbio la cosa più buona che abbia mai bevuto, solo che i bicchierini erano piccolissimi e nonostante continuassero a darmeli, continuavo ad aver sete. Il “trattamento” dava i suoi primi frutti, il mio fisico si era ripreso.

 

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Con loro era difficile comunicare riuscivamo gesticolando e con un po’ di francese che mi pareva potessero comprendere. II capo famiglia parlava tantissimo ma io non capivo molto. Abbiamo comunque iniziato a dialogare. Ho cercato di fargli capire cosa mi era successo, spiegandogli che la mia moto si era rotta e che avevo anche necessità di essere accompagnato al “Gudron”, ovvero una strada asfaltata. Lui mi fa capire che occorrono cinque giorni per arrivarci con il cammello, e che sarebbe disposto a portarmi. Dopodiché, come un sasso, mi sono addormentato. A parte la moglie ed il figlio piccolo gli altri dormono rannicchiati all’aperto, fuori dalla capannina. lo mi infilo nel mio fido sacco a pelo e mi addormento. Al mattino come prima cosa li vedo alzarsi, rivolgersi verso la Mecca e pregare.

Tutta l’alimentazione della famiglia consisteva esclusivamente in tè, latte che mungevano dalle pecore e un pastone di miglio. II latte al mattino era buonissimo, fresco e appena munto, al contrario della sera. Sempre al mattino vedo la mamma che preoccupata per il bambino piccolo che piangeva sempre. Mi faceva dei cenni sulla testa del bambino. Decido così di offrirgli un’aspirina. Ingerita l’aspirina, mi sono reso conto della leggerezza commessa, non avevo pensato che magari potesse avere reazioni allergiche. Fortunatamente, dopo 10 minuti di urla forsennate in cui sono stato anch’io malissimo, si è calmato e come per miracolo si è addormentato. Immagino che bomba potesse essere stata per un bambino di 6 o 7 mesi cresciuto in quell’ambiente. Da quel momento la mamma cominciò a prendermi in considerazione rivolgendomi la parola. Probabilmente ero entrato nelle sue grazie. Durante le giornate che ho passato insieme a loro, nonostante fossi in mezzo al Ténéré, uno dei deserti più aridi del mondo, rimasi colpito da quanta gente ci fosse: praticamente ogni due o tre ore qualcuno passava di lì, chi faceva solo un cenno di saluto, e chi, per la maggior parte, si fermava a fare una sosta di saluto.

 

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Era come una specie di rito e io ho notato che il “mio Tuareg” raccontava con fierezza la mia presenza e il passaggio della Dakar qualche giorno prima. Era incredibile vedere quest’uomo così appassionato nel raccontare, immagino, sempre la stessa storia, a tutti questi passanti. La vita era molto semplice: la donna schiacciava il miglio; l’uomo costruiva corde con l’erba e comandava a i suoi ragazzi di tenere nelle vicinanze tutti i cammelli che erano legati per le due zampe anteriori. Mi spiegò che la sua occupazione era quella di allevare i cammelli, farli crescere e una volta all’anno andava a vendere quelli grandi, e ne comprava altri piccoli.

Sempre durante il periodo passato insieme riuscii a risultare anche utile. Mentre preparavamo l’acqua per il viaggio, vedo che per trasportarla utilizzava due grosse camere d’aria di camion ormai molto vecchie e piene di buchi. I fori erano tappati con dello spago. A quel punto, avendo con me la trousse per riparare le forature, mi offrii di riparargliele. Come per l’episodio dell’Aspirina, anche questo mio intervento mi mise in ottima luce ai loro occhi. Ormai il nostro gesticolare si era affinato e riuscii anche a spiegargli che mi era stata rubata la borraccia. Questo lo scosse, si era convinto mi avessero derubato quando già non ero più in forza. Il mio racconto l’aveva completamente trasformato: era agitatissimo, nervoso. Si è legato un coltello alla spalla e si è allacciato la spada alla cintura. Poi mi ha fatto capire che dovevamo andare.

Ero molto preoccupato di infilarmi in qualcosa di pericoloso, il suo atteggiamento non prometteva nulla di buono. Per prendere tempo gli feci capire che non ero in grado di camminare perché ero stanchissimo. Nulla, sempre più deciso e fermo, prese un cammello lo sellò e mi spinse sopra. Dopo due passi la corda che teneva la sella si ruppe e come un sacco di patate caddi tagliandomi il palmo della mano. Sanguinavo e lo supplicai di fermarsi. Nulla! Sembrava che se non mi avesse portato dove voleva avrebbe perso la faccia, I’onore. Non c’era nulla che l’avrebbe potuto far desistere. Dopo un’ora di cammino, arrivammo presso un raggruppamento di capanne (come quella del mio Tuareg), con almeno 4 gruppi di famiglie.

218023_1035085411577_8413_nIo ero preoccupato, non tirava una grand’aria. Il Tuareg mi mise in disparte e si unì a quello che sembrava il capo. Arrivò un ragazzo che stese un tappeto al suolo e tutti, io compreso, ci sedemmo in cerchio a 10 metri di distanza. Seduti uno di fronte all’altro, i due personaggi si misero a discutere tra loro con animosità. Non so quanto tempo durò questa discussione, a me sembrò un’eternità. Ad un certo punto uno dei due alzò un braccio e un altro ragazzino corse verso di lui, porgendogli la famosa borraccia (cercai di vedere se riconoscevo i ragazzi del primo incontro, ma non c’erano, il tutto rimase per me un mistero).

Quando l’altro capo famiglia consegnò la borraccia al mio Tuareg, l’atmosfera si rasserenò e improvvisamente si calmò. Dopo i saluti, il mio Tuareg venne verso di me gonfio di fierezza e mi porse la borraccia, soddisfatto. Ovviamente lo ringraziai e salutammo tutto il gruppo di persone lì presenti e tornammo presso la sua capanna. Finalmente arrivammo e di fronte all’ennesimo tè, ripresi l’argomento: avevo necessità che mi portasse all’asfalto. Così mi promise che l’indomani mattina saremmo partiti. A questo punto riuscii per la prima volta a dormire sereno. Al mattino ovviamente avevo molta fretta, ma la proverbiale lentezza adesso si stava esprimendo al massimo. Sembrava che non volesse partire e me lo faceva capire con tantissime scuse, almeno così io le interpretavo. Credetti anche che volesse avere un compenso. Dopo che ebbi insistito per un bel po’, mi fece dei segni portandosi il dito all’orecchio.
Nel frattempo l’aereo dell’organizzazione mi stava cercando con il metodo a scacchiera (così mi fu riferito). Dopo un paio d’ore sentii anch’io il rumore dell’aereo e tutto eccitato tirai fuori i razzi che avevo con me in dotazione di sicurezza e cominciai a usarli. L’aereo mi vide, così si avvicinò lanciandomi un altro messaggio insieme a una razione di sicurezza. Il messaggio diceva: “L’elicottero ti verrà a prendere fra un’ora e mezza. Coraggio!” e si allontanò. Offrii a tutta la famiglia il contenuto della razione di sopravvivenza in cui vi erano dei dolci, delle noccioline, un succo di frutta e parecchie porzioni energetiche, certo che avrebbero gradito. Invece, la rifiutarono. Non capii mai il perché ma ci rimasi male.

Decisi di dargli ugualmente i soldi che gli avevo promesso. Però non conosceva il valore del Franco francese. Sono sicuro che quando ha portato i soldi a cambiare ha avuto una bellissima sorpresa. Gli spiegai che presto sarei andato via con le persone che mi sarebbero venute a prendere, e qui cominciò una lunga discussione, perché lui insisteva che voleva portarmi a tutti i costi all’asfalto di persona. Anche qui, un po’ per la difficoltà di comunicazione, un po’ perché insisteva, non riuscii a fargli capire che non era necessario e che dovevo andare via con gli altri. Questa discussione continuò finche non arrivò l’elicottero. Il saluto mi dispiacque perché dovetti quasi scappare a causa delle sue insistenze. Ho in mente la scena in cui lui mi trattiene per i vestiti e io quasi con forza mi mi svincolo per raggiungere l’elicottero.

 

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Avrei veramente voluto dargli un abbraccio, ringraziarlo dandogli la mano e rendere onore al grande uomo che era, salutarlo così mi lasciò l’amaro in bocca. L’elicottero partì e guardai quelle persone che mi salutavano, sentivo un po’ di tristezza nel lasciarti. Dall’alto vidi anche la mia moto e anche qui provai un sentimento di tristezza. Era strano: avrei dovuto essere felice, finalmente in salvo ma ero quasi malinconico.

Arrivammo ad Agades, e qui alcuni membri dell’organizzazione mi sottoposero ad un controllo fisico. Quindi mi imbarcarono su un aereo in direzione Niamey, dove la gara stava arrivando a fine tappa. Tutti i miei amici mi fecero grandi feste e subito riuscii anche a fare il primo pasto serio dopo tanto tempo. Riuscii anche a telefonare a casa a Paola, rassicurandola che tutto era a posto e che stavo bene. Voglio approfittare di questa occasione per ringraziare Beppe Gualini e Andrea Balestrieri e molti altri piloti, perché insistettero molto spiegando e insistendo con l’organizzazione affinché venissero a cercarmi, dato che ero ancora in mezzo al deserto. Se non fosse stato per loro sicuramente nessuno sarebbe venuto a prendermi. La Dakar intanto il giorno successivo partì e da Niamey, insieme a Bebbe Gualini, ci organizzammo per prendere il primo aereo per Parigi.

Al mio ritorno mi accolsero con tante feste tutti i miei amici. Personalmente, avrei preferito essere festeggiato per un bel risultato. Avvisai l’Honda Italia del fatto che la moto era dispersa nel deserto e che in ogni caso mi sentivo in dovere di recuperarla. Mi fu risposto che la moto ormai era persa e che non dovevo recuperarla, a quel punto gli chiesi di poterlo fare ugualmente e di tenermi la moto. Nella stessa tappa Picard, pilota ufficiale Cagiva, si ritirò. Contattai quindi Azzalin, responsabile del reparto corse, per poter fare il recupero insieme. Mi diede il numero di telefono di Manu Daiak il quale era stato amico fraterno di Thierry Sabine e che era una potenza ad Agades. Fu molto disponibile e mi promise che col camion che andava a prendere la Cagiva sarebbe andato a prendere anche la mia e che I’ avrebbe anche spedita a Marsiglia. Manu Daiak morì qualche anno dopo in un misterioso incidente aereo. Alcune voci dicono che fu un attentato, conseguenza del suo ruolo nella ribellione dei Tuareg di cui si diceva fosse il capo.

DAKAR 1987 | 12.000 km invece di 15.000 scompare la notte

Soppressione delle tappe notturne; limitazione a 800 Km per la lunghezza massima delle tappe giornaliere. Nonostante le limitazioni e a dispetto del fatto che la lunghezza totale sia scesa di circa 3000 chilometri passando a Km totali, per Rene Metge, vincitore ’86 e da quest’anno tracciatore del percorso per conto degli organizzatori, la Paris-Dakar avrà ancora il fascino terribile della durezza che è poi la ragione del suo successo.

Questo perché è aumentata la lunghezza delle prove speciali, cioè di quei tratti di percorso in cui il tempo impiegato dai piloti è cronometrato e discriminante ai fini della classifica. Sono calati invece i lunghi trasferimenti giornalieri, quelli che servivano ai piloti per spostarsi da una p.s. all’altra Dopo un via simbolico a Milano, presso il centro II Girasole il 27 dicembre, e il prologo a Cergy il 31, la gara partirà il 1 gennaio da Versailles. Salvo l’imbarco che si effettuerà da Barcellona invece che da Sete, in omaggio alla città spagnola sede delle Olimpiadi 1988, le prime tappe algerine attraverso El Golea e In Salah saranno simili alle passate.

Poi a Tamanrasset, nel cuore dell’aAlgeria, cominceranno le prime grosse difficoltà con una tappa molto difficile tra gole montuose strette e gli ultimi 350 Km su tolé onduleé che mette a dura prova la resistenza meccanica delle auto. Tutto ciò per scremare il gruppo dei 500 partecipanti. Tamanrasset-Arlit sarà la prima p.s. tutta nuova, con alternanza di deserto e montagna. Da Arlit, il 8 gennaio si andrà all’ex albero del Tenere ribattezzato albero Thierry Sabine da quando le ceneri del fondatore della Dakar furono sparse proprio in quel luogo mitico. E proprio all’ombra (teorica) dell’albero la gara farà tappa di notte.

Per proseguire, attraverso il deserto del Tenere, verso Dirkou senza l’aiuto delle balise di segnalazione che nel deserto tutto uguale aiutano a non perdere la pista. Il riposo è previsto ad Agadez, il 11 gennaio. Dopo Agadez, a 90 Km da cui gli oganizzatori annunciano una «sorpresa» (che non si preannuncia piacevole), la gara entrerà nel Sahel, ovvero la savana. Finisce il deserto, resta la sabbia tra arbusti e cespugli dove è ancora più difficile orientarsi perché i punti di riferimento e le tracce invece che mancare sono troppi e fanno confondere le idee. Qui i piloti cominceranno a prendere in mano bussola e cartina per orientarsi nei 70 Km di vegetazione da Niamey a Gao, nel Mali.

Da Tombouctou a Nema, al confine con la Mauritania, ancora navigazione a bussola per almeno 300 Km e gli unici riferimenti per orientarsi saranno le tracce degli animali. A Tidijka gli organizzatori prevedono che molti passeranno un giorno intero attorno a un villaggio per trovare la strada giusta. A Richard Toll si esce dal deserto mauritano per le ultime difficoltà (l’anno scorso si decise qui la gara dei camion) e l’arrivo sarà il 22 gennaio sulle sponde del lago rosa di Dakar. La piantina del percorso: di nuovo c’è l’imbarco a Barcellona, la scomparsa delle dune di Agadem nel Tenere, l’esclusione della Guinea ed il passaggio da Tombouctou

DAKAR 1991 | Matti, matti da legare

Come definire diversamente i piloti che prendono parte alla Dakar da privati, spendendo di tasca propria per sottoporsi a fatiche e sacrifici? Ma la passione che li spinge è superiore a qualsiasi freddo calcolo. È la stessa passione che ha portato alcuni di loro a prendere il via in condizioni anche più difficili della media, con mezzi che decisamente non sono il massimo per una maratona del genere.

Ma la Dakar è bella anche per questo, perché prima ancora della gara viene il confronto con se stessi e con la propria moto. Di questo esercito di pazzi scatenati il re è sicuramente Jean Gilles Soupeaux, un francese che per tre anni ha guidato i camion della TSO e che per la tredicesima edizione della corsa ha deciso di passare dall’altra parte della barricata, da concorrente.

Per il suo debutto come motociclista non ha scelto un mezzo consueto: alle verifiche di Parigi si è presentato con una Harley Davidson. La Casa americana però non ha gradito l’iscrizione in forma privata di una delle moto da essa costruita, la prima nella storia della Dakar: ha chiesto senza successo alla Thierry Sabine Organization che nelle classifiche non risultasse il suo nome, ma ha ottenuto almeno che il suo marchio non venisse apposto sul serbatoio del «mostro».

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Il mezzo di Soupeaux è stato ritenuto troppo lontano dalla serie per essere «degno» di portare il nome Harley. Del resto quello con cui il quarantenne parigino ha preso il via era uno strano ibrido dotato sì del bicilindrico americano, ma con una ciclistica della Honda Africa Twin allungata ad hoc ed un look fantasioso realizzato all’aerografo. Perfettamente in carattere con la sua moto, Soupeaux è partito con un giubbotto nero con le frange, pure decorato ad aerografo.

Non è però andato molto lontano: 113° ed ultimo nel prologo, in Africa non è riuscito a completare nemmeno una tappa ritirandosi nel trasferimento su asfalto da Tripoli a Ghadames: con una moto terminata solo la settimana prima era da prevedere.

Dakar 1992 | Le brutte abitudini giapponesi

Testo di Nicolò Bertaccini

Le storie che riguardano la Dakar non sono mai storie singole, non sono mai accadimenti isolati, c’è sempre un intreccio, un effetto domino che crea diverse leggende. La Paris-Dakar negli anni ha avuto diverse forme. Anche prima di arrivare alle ultime versioni, fra Sudamerica e penisola araba, i percorsi sono stati diversi.

In particolare, l’edizione del 1992 si caratterizzò per l’arrivo a Le Cap, Città del Capo.

Si decise di arrivare a Le Cap per evitare potenziali pericoli. L’Africa è da sempre un continente inquieto e in quell’anno il padre del compianto Sabine decise che il percorso classico, fino alla capitale del Senegal, non dava garanzie. Si optò quindi per l’attraversamento dell’Africa, si spinse la carovana lungo un coast to coast Nord-Sud. Questo creò non poche difficoltà, anche perché l’Africa australe ha caratteristiche completamente diverse, è boschiva. Quindi i piloti si ritrovarono a correre in sentieri attraverso i boschi, oltre alle classiche piste desertiche.

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Quell’anno Beppe Gualini partecipava ovviamente come privato. Aveva però un accordo con il team Belgarda per fungere da supporto veloce. Beppe doveva garantire al team una prima assistenza sul campo. Aveva quindi la moto uguale a quella dei piloti del team ma non aveva le stesse colorazioni, la sua era gialla con la livrea Camel.

Al termine della quindicesima tappa, Gilles Lalay, pilota Belgarda, incappa in un incidente, incredibile e drammatico. Il pilota francese perde infatti la vita scontrandosi con un’ambulanza che procedeva in senso contrario su una pista in mezzo ad un bosco. Lo scontro fu terribile. Il team Belgarda decise di ritirarsi, come segno di cordoglio. Il team manager disse però a Beppe che lui può continuare, che può portare la moto a Le Cap e che anzi, sarebbe un bel omaggio per il collega scomparso. In cambio, gli dicono i vertici Belgarda, potrà tenersi la moto, una volta terminata la gara.

 

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Beppe ce la fa, spinto dalla sua incredibile ed inesauribile forza d’animo arriva a Le Cap. A vincere la gara fu Peterhansel, proprio su Yamaha, mentre Beppe si classificò sedicesimo, un risultato impensabile. Quindi torna in Italia, portandosi dietro la moto. Dopo qualche tempo bussano alla sua porta dei funzionari Yamaha che gli chiedono indietro la moto. Beppe replica che ha un accordo con Belgarda e che la moto è sua. Purtroppo Belgarda ha terminato la sua corsa, i libri sono in tribunale a da nessuna parte c’è scritto che la moto è di Gualini. La moto è di Yamaha. Beppe a malincuore se ne distacca. Ma il peggio deve ancora arrivare.

Dopo qualche tempo lo contatta uno sfascia carrozze. E’ risalito a Beppe dalla tabella porta numero che era su una moto che ha dovuto pressare. I Giapponesi, infatti, avevano l’abitudine di pressare tutte le loro moto, tutti i loro prototipi. Quindi a Beppe non resta che ammirare un cubo di lamiere giallo Camel che una volta era stata la sua compagna africana. Una nota a proposito di questa usanza nipponica: nel museo Yamaha di IWATA sono esposte un paio di moto di Peterhansel. Guardando il colore del telaio di una delle due però si vede che la moto non è la sua ma si tratta di una moto privata, riconoscibile dal telaio bianco invece del canonico blu delle ufficiali, quella di Stéphane è stata probabilmente pressata.

 

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