DAKAR 1991 | António Lopes, il primo portoghese alla Dakar

Il 29 dicembre 1991, António Lopes è stato il primo pilota portoghese a schierarsi alla partenza del Rally Dakar. António Lopes aveva già un lungo curriculum in moto, essendo stato campioneLopez 1991-1 nazionale di endurance nel 1990, aveva già vinto la Baja Portalegre 500 e all’estero era, per esempio, 26° al Rally dei Faraoni.

Se, in auto, la partecipazione portoghese è iniziata nel 1982, attraverso José Megre, alla guida di una UMM Indenor 2.5 con il numero 216 (fu 45° nella classifica generale), fu solo nella 13a edizione della Dakar, nel 1991, che un motociclista portoghese partecipò per la prima volta alla Dakar.
Alla guida di una Honda Africa Twin 650, e con l’assistenza di Honda France, il pilota portoghese ha partecipato alla Parigi-Tripoli-Dakar, e ha impressionato all’inizio della gara. Ha raggiunto il giorno di riposo al 29° posto della classifica generale, in una gara alla quale partecipavano una trentina di moto di squadre ufficiali, e subito in testa alla classe Marathon.

“Le cose stavano andando bene”. Era al primo posto nella classe marathon e al 20° posto in classifica generale, ma una caduta nella 12ª tappa, in Mali, ha rovinato tutto. Caduto rimane privo di sensi e il pilota che lo ha soccorso ha attivato la radiotrasmittente che inviava il supporto medico (elicottero) e ha escluso il corridore infortunato dalla gara: “È stato frustrante”. Non si è fatto male, nemmeno un graffio da raccontare: “Mi sono svegliato in un’ambulanza e avrei continuato, ma le regole erano così e sono stato escluso”.

A parte il risveglio in un’ambulanza, l’avventura più grande è stata quella di partecipare a un segreto che inlcudeva anche una morte di un concorrente. L’atmosfera era tesa, la Guerra del Golfo era iniziata nell’agosto del 1990 e un soldato africano finì per uccidere uno dei concorrenti in Mali. La versione ufficiale è che Cabannes fu colpito da un proiettile vagante. Questo fu l’inizio dei problemi che avrebbero portato la Dakar a lasciare l’Africa per il Sud America e poi il Medio Oriente.

“È stata l’avventura di una vita. Nessuno sapeva come fosse. Sapevamo solo quello che leggevamo sulle riviste e sui giornali, quindi dire che sono andato al buio è un eufemismo”, ha raccontato l’ex pilota a DN. Il 29 dicembre 1991, si è recato al rally con una moto prestatagli dalla Honda, una squadra che lo conosceva dalle competizioni fuoristrada.

E’ stato campione nazionale di Enduro e aveva già vinto la Baja Portalegre e partecipato al Rally dei Faraoni. “La moto era rimasta dall’anno precedente, era quasi pronta e doveva solo essere messa a punto. All’epoca cominciavano ad arrivare gli sponsor e ho ottenuto i soldi necessari, 12.000 escudos (circa 60.000 euro)”, racconta, sottolineando che oggi la quota di iscrizione è molto più bassa e si può fare una Dakar con 7/8.000 escudos.

Era la prima volta che un motociclista portoghese vi partecipava. Le moto pesavano 300 kg (oggi pesano la metà), erano alte quasi due metri ed era difficile manovrarle tra le dune. Non c’erano i moderni road book o il GPS. “C’era una bussola elettronica, che aiutava chi sapeva come funzionava. L’ho ricevuta solo due giorni prima, quando sono arrivato in Francia. Mi hanno dato un opuscolo su come funzionava, ma era quasi inutile”, ha confessato l’attuale proprietario di una concessionaria Honda a Mem Martins.

Andavano alle tappe con una mappa e un biglietto aereo. Se si perdevano, bastava andare in un qualsiasi aeroporto africano per raggiungere Dakar o Parigi. Se la loro moto si rompeva e non poteva essere riparata, rimanevano lì. Non c’erano camion scopa e nessuno li andava a prendere: “Eravamo da soli e questa è la grande differenza con oggi, ed è per questo che i nostalgici dicono che quella era la vera avventura. È da qui che nasce l’espressione ‘se arrivi alla fine è una grande vittoria’. Perché è stato così”.

Non è più tornato alla Dakar. Aveva realizzato il suo sogno e questo era “sufficiente” per lui. Sapeva che vincere era impossibile e non era disposto “a correre rischi così grandi solo per partecipare” ma il record di un grande debutto, ai comandi di un Africa Twin quasi standard. Il primo concorrente di moto a finire fu Pedro Amado, l’anno successivo, 1992, in sella a una Yamaha XTZ 660 (fu 28° assoluto/9° nella classe Marathon), ma di lui parleremo un’altra volta…

In ricordo di Hubert Auriol

Tratto da GPONE il ricordo di Carlo Pernat

“Hubert Auriol era un signore e un amico, una persona che mi ha insegnato tanto, sopratutto nelle relazioni esterne. Era sempre sorridente e con la battuta pronta”. Carlo Pernat ricorda così il re della Dakar, il primo pilota ad averla vinta sia in moto sia in auto. Uno dei miti di quel raid circondato dalla leggenda.

Il rapporto tra Pernat e Auriol non era stato solo professionale, sulle piste dell’Africa era nata un’amicizia durata negli anni. “Ero in Aprilia quando ed ero stata invitato in una trasmissione tv a Parigi, il lunedì dopo il Gran Premio di Le Mans – racconta ancora Carlo – Finito di registrare, erano verso le 23, ci venne in mente di telefonare a Hubert per andare a mangiare qualcosa tutti insieme, a quei tempi aveva un ristorante. Mi rispose che era già a letto, si rivestì e venne con noia mangiare una pizza”.

Il loro rapporto iniziò quando il pilota francese fu ingaggiato dalla Cagiva per correre la Dakar.

“Mi presentarono Auriol ne1 1985. Era già un mito e fu importante per ottenere le sponsorizzazioni – continua Pernat – Ricordo che Ligier mi aveva detto di andare alla Tour Elf a Parigi, garantendoci che ci avrebbero dato i soldi per la sponsorizzazione. Io non ci credevo, ma andammo: ci offrirono il pranzo e poi andammo nel cinema privato a vedere dei filmati della Dakar. Alla fine mi dissero: qui c’è un miliardo per la gara. Fu grazie a Hubert se li ottenemmo”.

Hubert, nato ad Addis Abeba, conosceva i segreti dell’Africa e li costudiva gelosamente. ” Il suo asso nella manica era la Mauritania, anche se non ho mai capito il perché – confessa Pernat – Praticamente lì, in ogni tappa, aveva mezz’ora di vantaggio su tutti. Gli chiedevo come facesse e lui mi rispondeva che seguiva le tracce degli animali”.

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L’avventura con la Cagiva durò 3 anni, ma il destino volle che non fosse coronata dal successo. Nel 1987 sfumò quando sembrava scontato. “Avevamo praticamente già vinto la Dakar, avevamo un’ora e mezzo di vantaggio all’inizio dell’ultima tappa, che è solitamente è una passerella sul Lago Rosa – il ricordo di quel giorno è ancora vivido nella mente di Carlo – Tutto era nato la sera prima al bivacco. Nel corso dell’ultima tappa si passava su delle rotaie dismesse e Roberto Azzalin, il capotecnico, e Auriol litigarono sul fatto se usare o no le mousse per gli pneumatici. Non ricordo cosa decisero, ma che fu Hubert ad averla vinta, però poi durante la tappa forò 3 volte”.

La sfortuna non era finita.

“Mi raccontò poi che aveva battuto con la caviglia contro una specie di alberello nascosto, dall’altra parte c’era un sasso e andò a sbattere anche contro quello. Le due caviglie erano aperte, non riuscivamo nemmeno a levarli gli stivali, non ho mai capito come abbia fatto a guidare per altri 30 chilometri in quelle condizioni. Una cosa mi è rimasta particolarmente impressa. Lo avevamo caricato sull’elicottero che lo avrebbe portato all’aeroporto da cui poi sarebbe partito per la Francia. Hubert piangeva e mi ripeteva: “di’ a Castiglioni che abbiamo battuto la Honda”.
Quella è stata una delle poche volte nella mia vita in cui non son o riuscito a trattenere le lacrime

Anche dopo quella sconfitta, Hubert non si abbatté.

“Auriol era molto professionale. Claudio organizzò un volo privato per Parigi con alcuni giornalisti per fargli visita in ospedale. Hubert ci ricevette con la maglia della squadra, non con il camice. È una delle persone che hanno contato di più nella mia vita e nella mia carriera, ho imparato tanto da lui’ conclude Pernat”.

RICORDANDO ‘LE PETIT GASTON’

L’8 febbraio 2005 venne a mancare Gaston Rahier. Un Campione piccolo di statura ma grande nel talento e nei numeri. ‘Le petit Gaston’ era un pilota polivalente, in grado di trionfare nelle più rinomate competizioni legate al fuoristrada. Dal 1975 al 1977 ottenne il tris iridato nel Mondiale Cross 125 dominando, in lungo e in largo, in sella alla Suzuki.

Nel 1978 perse il Titolo in favore del giapponese Akira Watanabe. L’anno seguente approdò in Yamaha, ma non riuscì a fare meglio del terzo posto finale. Il 1980 lo vide accasarsi alla Gilera. Nella stagione d’esordio con la Casa italiana, appose la sua ultima firma in un Gp. Sul tracciato jugoslavo di Trzic ottenne, infatti, il successo assoluto grazie a un secondo e un primo posto. Si fermò così a 29 successi nella ottavo di litro, un record che resisterà fino all’ultimo anno di esistenza della classe minore, prima dell’avvento delle nuove categorie.

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Nel 1982 tornò in Suzuki, ma fu anche l’anno che sancì il suo addio al Motocross. Un serio infortunio alla mano riportato durante il Mondiale 250 non decretò, comunque, la fine della sua carriera sportiva, perché da lì a poco intraprese l’avventura alla Parigi-Dakar. In sella alla BMW, nel biennio 1984-1985 il fiammingo centrò il bersaglio grosso, entrando una volta di più nella leggenda. Ma Gaston non si sentì sazio a sufficienza. A quel punto mise nel mirino il Rally dei Faraoni.

Anche in quell’occasione tornò in patria vittorioso, aggiudicandosi l’edizione 1988. Un nuovo incredibile traguardo che arricchì ulteriormente il suo palmares, già vasto come pochi altri. Fra i vari Titoli, non vanno dimenticati i successi che colse con il Team belga al Motocross delle Nazioni 1976 e al Trofeo delle Nazioni in ben quattro edizioni. La passione per le due ruote artigliate lo accompagnò fino all’ultimo giorno della sua esistenza.

Diciassette anni fa Gaston Rahier se n’è andato sconfitto da un cancro, a 58 anni, lasciando un vuoto che persiste con intensità ancora oggi. Molti appassionati continuano a ricordarlo, per tenere viva la memoria di un uomo che dedicò la sua esistenza al fuoristrada, segnando per sempre questo mondo.

DAKAR 1987 | Dal cross al fascino del deserto

Già negli anni precedenti Michele Rinaldi aveva lanciato il proposito di partecipare alla Dakar, attirato dal fascino che circonda questa gara ma soprattutto dalla possibilità di «viverla», nei pochi momenti liberi, a stretto contatto con tutti gli altri partecipanti. Rinaldi era anche arrivato ad ipotizzare una sua partecipazione nei panni del pilota privato, nonostante sia abituato a vestire i panni del «super ufficiale» nel cross.

 

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Dalla Suzuki, invece, durante l’autunno gli arrivò la proposta di partecipare con moto ed assistenza ufficiale nel team allestito in Francia dai fratelli Joineau. «È stata la Suzuki a chiederlo – dice l’ex campione del mondo – visto che conosce-vano il mio desiderio di partecipare e vogliono cercare di fronteggiare la concorrenza che proprio da queste gare ha trovato grossi sbocchi commerciali».

 

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Hai già fatto qualche esperienza di guida in Africa?
«Soltanto durante alcuni test in Tunisia. Il problema maggiore, a parte quelli d’orientamento, viene dal peso e della velocità della moto. Quando acceleri sulla sabbia derapa da tutte le parti e ci vogliono buoni muscoli per tenere stretta una moto che pesa quasi il doppio di quella da cross. Per abituarmi tutti i giorni ho fatto un pò d’allenamento assieme a Balestrieri, una volta anche di notte. Comunque la Suzuki 651 anche se è stata preparata bene non è una moto vincente contro le varie pluricilindriche e neppure io mi sento in grado d’ambire al successo».

 

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Come è stata cambiata la Suzuki rispetto al modello di serie?
«Il telaio è quello di serie. Sono state cambiate la forcella ed il sistema del monoammortizzatore. Sul motore ci sono una nuova testa, cilindro e marmitta per portare la cilindrata a 651 cc, inoltre il raffreddamento è ad olio come sulle Suzuki stradali e non più ad aria».

DAKAR 1991 | Claudio Quercioli, vedi l’Africa e poi… torna

Claudio Quercioli non può dire di non essere arrivato in Africa, ma è andato poco oltre. La sua gara è finita a metà del primo trasferimento, con un grippaggio che lo ha costretto a fare gli ultimi 160 km al traino. Il motore di ricambio non è nemmeno stato scaricato dal camion di assistenza: la mattina dopo è ripartito a bassa andatura, scortato da una macchina della polizia libica, per tornare a Tripoli.

«Ho finito la tappa trainato dal camion di Savi, correndo anche un bel rischio viaggiando a 110 km/h h di notte, in quelle condizioni e soprattutto ho superato a spinta il controllo all’arrivo, mentre il regolamento prevede che questo avvenga a motore acceso. Al bivacco ho sbloccato il motore con la leva della messa in moto, ed ho scoperto di aver grippato perché era finito l’olio. Purtroppo non avrebbe potuto resistere nemmeno il propulsore di scorta che ha già parecchi chilo-metri sulle spalle: l’avevo portato nel caso fosse stato necessario portar via la moto dopo una rottura nel deserto, ma di fare tutta la gara non se ne parla».

È il secondo ritiro per Quercioli, che già lo scorso anno fu costretto ad abbandonare dopo una vicenda rocambolesca: riammesso alla gara grazie al membro di giuria italiano dopo che i commissari gli avevano impedito di prendere il via, ruppe due volte il camion col quale stava tornando a prendere la moto lasciata ad Agadez e non riuscì a recuperarla in tempo. «Alla Dakar tornerò, ma solo se potrò avere una squadra, in modo da poter guidare e basta. Dovevo lasciar perdere già dopo l’an-no scorso, ma farla è bellissimo. Faccio volentieri i sacrifici che sono necessari per prendere il via; è quando mi capitano cose come quella di oggi che non mi diverto più. Però mi vien da ridere se penso che a febbraio mi tornerà la voglia di parteciparvi».

Dakar 1985 | Rahier e Picco si raccontano

Le barbe lunghe, i volti scavati, la polvere rossiccia appiccicata addosso, gli occhi incassati, le mani con calli enormi, le moto sporche, sverniciate, saldate, rattoppate. I reduci dalla Parigi-Dakar si presentano così sulla spiaggia di Saly-Portudal, 80 chilometri dal traguardo, la sera prima del grande arrivo sul bagnasciuga oceanico della capitale senegalese.

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La grande avventura è quasi finita. I veri eroi sono i motociclisti, arrivati in una trentina dei 180 che erano — tra i superstiti anche sei italiani: Picco terzo, Marinoni quarto, Zanichelli 13°, Balestrieri poi squalificato per essersi fatto trainare nell’ultima tappa insieme con Gagliotti e Gualini. Appena arrivati sembrano dei fantasmi spaventosi, sembrano dei cadaveri in sella alle moto. Chi ha dormito per 22 notti in media tre-quattro ore ogni volta e ha guidato per dodici ore, tredici, quattordici o anche più, in mezzo al deserto o sulle pericolose piste di terra battuta.

Vincere la Parigi-Dakar, dice Rahier, è più bello che conquistare un mondiale di cross. Picco: « I francesi non volevano un vincitore italiano ».

Sono stanchi al limite del crollo. Basta una notte, però, trascorsa in riva al mare, basta una dormita di cinque o sei ore, basta la quasi certezza di avercela fatta per rivedere, la mattina dopo, degli esseri nuovamente umani, gente che racconta volentieri e senza supponenza, almeno tra i motociclisti, la propria avventura. Gaston Rahier è un belga biondiccio, piccolo piccolo con baffetti né lunghi né corti, e simpatico: sembra l’Asterix dei fumetti. E’ lui che ha vinto, in sella alla mastodontica BMW. Ce l’ha fatta per il secondo anno consecutivo, acciuffando il primo posto proprio quando pareva inevitabilmente sconfitto dal nostro Franco Picco. «Vincere una Parigi-Dakar — ha detto Rahier, due volte campione del mondo di motocross — è più bello che vincere nel cross.

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Per arrivare su questa spiaggia devi aver sputato sangue. Qui più che la moto è l’uomo che vince, nel cross invece moto e assistenza hanno troppa importanza. Questa prova è bella perché qui tutti i motociclisti hanno lo stesso problema, cioè sono soli, nel deserto o in una foresta, perciò c’è solidarietà tra tutti, ci si aiuta, si cerca di stare insieme. Con Picco, che conoscevo dai tempi del cross, siamo davvero amici, abbiamo fatto molta strada insieme ». Insinuiamo che la BMW ufficiale di Rahier è molto cambiata rispetto a quella della precedente edizione. « Alla BMW — risponde Rahier — hanno lavorato molto sulla moto. Il motore oggi ha più coppia, il telaio migliore tenuta, le sospensioni lavorano in modo più efficace e il tutto è più leggero ». A dieci metri dal vincitore disteso sulla sabbia insieme con altri italiani ecco lo sconfitto, cioè Franco Picco.

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E’ con il compagno di squadra Marinoni, con i due piloti della Honda-Italia Balestrieri e Zanichelli, con il privato Gualini. Sono in attesa di affrontare l’ultima fatica, ma il vento rinfrescante e la visione dell’oceano li ha già trasformati rispetto alla sera precedente. Chiediamo a Picco dove ha perso la gara. « Direi — risponde il nostro interlocutore — di averla persa a Kiffa, il giorno che mi sono smarrito insieme con Rahier. E’ accaduto perché Auriol aveva perduto una pedana e si era fermato a sostituirla. Se avessi seguito Auriol, non mi sarei perso perché lui, la « volpe del deserto », non sbaglia mai strada, mentre Rahier ha meno senso di orientamento. Ma lì più del primo ho perso il secondo posto perché perdendoci abbiamo permesso agli altri di farsi sotto ».

Ma quand’è che aveva creduto di aver vinto? « A Tichit, — risponde Picco — quando hanno rifatto la classifica tre volte. La prima volta mi avevano dato 44 minuti di vantaggio su Rahier, la seconda il mio vantaggio s’era ridotto a 23 minuti e la terza m’avevano posto al secondo posto a meno di sette minuti. Io avevo la certezza di essere arrivato in tempo al controllo, invece, poi, hanno detto che non era così. Mi sono sentito per un attimo de-rubato della vittoria. Ho pensato che non fosse bello trattarmi così. Comunque, anche terzo va bene, via! Penso che ai francesi desse noia che a vincere fosse un italiano, uno, poi, arrivato per la prima vol-ta. Già arrivare a Dakar, credete, è una grossa soddisfazione. E’ tanto bello che quando ci saranno concomitanze tra gare di cross e corse africane io sceglierò l’Africa ».

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Allora questi francesi l’hanno fatta un po’ sporca? « A loro dava chiaramente fastidio — riprende Picco —che a vincere fosse un italiano. Quando nel Ténéré sono partito in testa hanno detto “chi parte davanti qui si perde” e invece sono arriva-to a soli 11 minuti da Rahier. Ho tenuto duro e allora tutti si sono stupiti e anche pre-occupati. Da lì in poi ci han-no tenuto d’occhio in modo particolare e abbiamo dovuto rinunciare all’assistenza poiché i nostri mezzi erano fuori gara e soltanto chi è ancora in lizza può fare assistenza. Una mano, però, la danno a tutti anche i mezzi fuori corsa, però, a noi è sta-to vietato più che agli altri. Meno male che ci hanno aiutato un po’ i francesi della Sonauto-Yamaha ».

Qual è stato il tratto più difficile?  « C’era il mito del deserto del Ténéré — dice Picco —ma il deserto della Mauritania è peggio: Qui, la sabbia è finissima, come acqua, sommerge tutto. E anche le piste dure delle tappe finali però sono state terribili. La terzultima tappa prevedeva l’attraversamento di una foresta seguendo, così era scritto sul “road-book”, le impronte e le piste degli animali, peccato soltanto che di piste là in mezzo ce ne saranno state ventimila e tutte strette per una moto, figurarsi per le auto e i camion ».

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In una gara del genere quali sono i problemi di navigazione e di orientamento? « Avevo partecipato al Rally dei Faraoni — afferma Picco — e avevo sbagliato e imparato, per cui avevo deciso di seguire il “road-book”, l’istinto e, se si poteva, Auriol, tutto qui ». L’illusione di farcela per Picco è finita dopo essere stato parecchio tempo al comando della gara, per i pilo-ti del team Honda-Italia, invece, molto prima. Balestrieri e Zanichelli hanno accusato guai tecnici e sfortuna, pur dimostrando, come piloti, di essere al livello dei migliori. Zanichelli è arrivato alla fine con il piede sinistro distrutto. Balestrieri è stato squalificato per essersi fatto trainare pochi chilometri prima di Dakar quando era stato costretto a finire in mare per evitare bambini indigeni troppo calorosi e l’organizzazione se ne è accorta ed è stata inflessibile così come è stato per Gagliotti e Gualini.

Tratto da Motociclismo Marzo 1985

Cyril Despres, la carriera di un mito dakariano

Con la quinta vittoria alla Dakar Cyril Despres si posiziona tra i primi rallysti di tutti i tempi e di fatto come uno dei più grandi piloti di sempre.  Secondo alcuni è il successore naturale di Stéphane Peterhansel e le sue imprese assumono importanza per lo straordinario atleta e uomo che si cela sotto quel casco spesso coperto da sabbia o fango. Un professionista di primissimo livello e campione unico che in questi anni in tredici partecipazioni alla Dakar ha conquistato 5 vittorie, 5 secondi posti e due terzi.
Tuttavia Despres non è solo Dakar ma un pilota che si è cimentato in quasi tutti i rally, spesso vincendoli, ma anche manifestazioni di enduro estremo (vittorioso in due edizioni dell’Erzbergrodeo).

Cyril nasce il 24 gennaio 1974 a Fontainbleau, l’nfanza è serena senza nessun appassionato di due ruote in grado di trasmettergli “la malattia del tassello” fin quando i suoi genitori si trasferiscono a Nemours e diventa amico di Couturier Pascal, campione di trial. A 13 anni quando i suoi coetanei per la comunione ricevono le tradizionali croci, catene e braccialetti tanto care alla tradizione cattolica, lui riesce a farsi regalare delle buste con soldi per un totale di circa 4000 franchi (600 euro) che subito  muterà in una Fantic Moto Trial 80, quella moto che oggi è esposta nel soggiorno della casa in cui abita con la famiglia.

Con Pascal inizia con l’Enduro affrontando una delle discipline più impegnative dal punto di vista fisico, che richiede prcisione, costanza, abilità pazienza e forza.
La passione lo porta a lavorare come meccanico in una officina a Parigi e la sera finito l’orario di lavoro prepara le moto che utilizza nelle sue prime gare di enduro. Il debutto avviene nel 1998 in una gara nazionale a Plomin e subito vince! Una vittoria che lo galvanizza e lo porta subito a sognare la gara che gli regalerà tantissime emozioni, la Dakar.

Nel 2000 con il supporto dell’amico Michel Gau il progetto Dakar si concretizza nella mente e nella volontà, il problema sono sponsor e budget.  A volte più che i soldi servono delle idee così con Michel dopo aver studiato le azioni di merchandising tipiche della Dakar decide di acquistare bottiglie di  Bordeaux, Saint Chinian e Chablis e di etichettarle con il tragitto della Dakar. “Avevamo bisogno di 80 000 franchi ciascuno. Grazie alle fine anno feste, e soprattutto considerando che era il capodanno del nuovo millennio, vendendo le bottiglie  a amici e aziende siamo riusciti a raccogliere i fondi per partire.. “

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Riesce ad iscriversi e partire per la prima Dakar della sua vita con una Honda 400 XR : “ho avuto il primo assaggio del brivido degli spazi aperti nel deserto. E ‘stata una rivelazione”. Una rivelazione accompagnata da un risultato incredibile, sedicesimo assoluto e secondo nella sua categoria.
L’amore per l’Africa è ormai scoccato, continua con con quel che restava della vendita vino e con il sostegno di alcuni sponsor si iscrive al Rally di Tunisia e conquista il primo podio finendo al un terzo posto. I team ufficiali si accorgono di lui e nel 2001 arriva la chiamata da BMW, ormai è un pilota ufficiale.

Nel 2001 conclude dodicesimo della Dakar, segnando la sua prima vittoria di tappa. Lo stesso anno è secondo alla Gilles Lalay Classic e vince l’UAE Desert Challange di Dubai. L’anno successivo bissa il successo a Dubai, vince il Rally de La Pampas e l’Erzberg in cui con una Honda privata mette in fila tutto lo squadrone KTM. Proprio questa impresa lo porterà a stringere un accordo con la casa che gli regalerà tutti i successi più importanti, la KTM.

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Nel 2003 alla Dakar vince tre speciali e conclude secondo, vince nuovamente a Dubai e all’Erzberg, e con un secondo posto al Rally di Tunisia e la vittoria al Rally del Marocco conquista il campionato del Mondo Rally.

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Nel 2004
 nonostante le quattro vittorie di tappa conclude la Dakar al terzo posto, vince nuovamente l’Optic 2000 (Rally di Tunisia), e il  Red Bull Romaniacs in Romania, è terzo nel Rally del Marocco e secondo alla Baja d’Aragòn in Spagna.

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Nel 2005 arriva la prima vittoria della Dakar “Quel giorno resterà impresso nella mia memoria per sempre. Vincere la corsa più dura del mondo, e salendo sul podio circondato dalla folla Senegal -. Wow, che una grande sensazione “.

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La vittoria e i mesi successivi sono un mix di emozioni e stati d’animo perché in pochi mesi ha perso dei compagni di squadra, degli amici e dei maestri che tanto gli avevano insegnato: Sainct Richard pochi mesi prima e Fabrizio Meoni morto nella undicesima tappa di quella Dakar che lo aveva visto trionfare. Fu proprio Fabrizio che dopo la morte di Sainct avvenuta nel rally precedente si rivolse a Ceryl dicendogli che il modo migliore per rendere omaggio al compagno di squadra era portare una KTM a tagliare per prima il traguardo a Dakar.

Con avvenimenti simili che avrebbero turbato chiunque riesce a sorpassare quei giorni e nell’edizione 2006 termina secondo alla Dakar con quattro vittorie di tappa e andando a podio in altri Rally. Nel 2007 torna a far sua la Dakar, iniziando quella staffetta che durerà fino all’edizione 2013 che avrebbe voluto lui e Coma alternarsi le vittorie. In quello stesso anno vince il Red Bull Romaniacs e conquista diversi secondi posti in gare Baja e rally.

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I problemi geopolitici in terra africana spingono ad annullare l’edizione del 2008 e in quest’anno vincerà  l’UAE Rally Desert Challenge di Dubai ed il Rally di Sardegna, oltre ai consueti secondi posti che alterna di anno in anno con le vittorie.
Con una nuova collocazione alla Dakar, in terra sudamericana coglie un secondo posto alle spalle del solito Marc Coma, vince il Rally del Marocco, di Tunisia e il  Red Bull Los Andes, sarà secondo all’UAE Desert Challange e terzo al Rally del Marocco e al Red Bull Romaniacs. Conquisterà quest’anno il suo secondo Campionato del mondo di Rally.

Si appresta da Campione del mondo all’ennesima avventuara in terra sudamericana ma pochi mesi prima della partenza KTM decide di  ritirare la squadra ufficiale dall’edizione 2010 a seguito della decisione degli organizzatori di restringere la partecipazione ad una cilindrata massima di 450 cc. “con la Red Bull e l’aiuto KTM abbiamo comunque formato la nostra squadra”. Fu una cavalcata incredibile, dominò la gara dal terzo giorno fino alla fine, conquistando con una supremazia assoluta la sua terza Dakar.Nello stesso anno vince il Rally del Marocco ed il Kenny Enduro, una gara di Enduro estremo, dimostrando ancora una volta la sua capacità di affrontare le situazioni più estreme.

Nel 2011 è secondo alla Dakar, al Red Bull Los Andes e al Rally di Sardegna, vincendo il Rally Dos Sertoes. Arriviamo agli anni del doppio successo dakariano: 2012 (in cui vince anche il Rally del Marocco e Desafio Litoral Argentina).
A 39 anni alla vigilia della Dakar 2013, a Despres basta una vittoria alla Dakar per raggiungere quel mito che è Pethersanel ed è a sole 4 vittorie di tappa per eguaglliarne il primato (33 Petheransel e 29 lui).
Ndr: Despres vincerà l’edizione 2013 e arrivò 4° nell’edizione 2014, sua ultima competizione in moto.

Un pilota che nella sua classe, nella sua capacità di navigazione e nella determinazione  nell’affrontare sfide estreme è l’esempio di come ci siano persone che hanno un dono e sono in grado di massimizzarlo. Il suo, quello di guidare la moto in condizioni estreme, lo ha assecondato e lo ha alimentato con una professionalità propria solo dei più grandi atleti e sportivi di sempre.

Un uomo che ancora oggi non ha dimenticato la passione delle origini e della magia della terra africana. Quella terra in cui oggi spesso si reca per proseguire quell’attività ideata e voluta dal suo compianto compagno di squadra Meoni.
Anche per questo Despres è di fatto uno dei più grandi di sempre.

Gualdi, il tedesco di Bergamo

Nato nel 1957 a Bergamo, Franco Gualdi si avvicinò al mondo delle moto per la passione trasmessa dal padre che correva in sella a Motobi, MV e Devil e così da giovanissimo prese parte alle primissime gare di enduro regionali. La sua biografia racconta di due sole Dakar, una delle quali nemmeno terminata e di una solida carriera nell’enduro.

Si guadagnò l’appellativo “Il tedesco di Bergamo”, per la sua guida impeccabile e per la precisione con cui studiava i percorsi. Come punto di partenza per la sua carriera da professionista, diciottenne, scelse di entrare nel gruppo delle Fiamme Oro dove conobbe Azzalin, anche lui attivo nello stesso corpo, ma con qualche anno in più: quando entrò Gualdi, Azzalin era uno dei “vecchi” che stavano smettendo di correre.

Franco fece le prime gare con la Sachs, dal 1974 al 1978, per poi passare a moto italiane.

Era il 1984 quando si avvicinò alla Cagiva, che lo volle per partecipare alla famosa Baya 1000, in Spagna: il suo compagno di squadra fu Gian Paolo Marinoni, ma con loro c’erano anche Roberto Azzalin e Ostorero. Se questi ultimi affrontarono la gara con come unico obiettivo quello di divertirsi, Gualdi e Marinoni, invece, avevano sete di risultati importanti.
La Baya era una gara con due anelli di 500 Km e il primo che arrivava, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, avrebbe vinto. Ogni 70 Km c’erano punti assistenza di tipologie alterne: uno di rifornimento, l’altro di meccanica.

La gara era a luglio e il percorso non era segnato con il road book. Quell’anno c’era Gaston Rahier, che era un pò il “padrone” del bicilindrico. Gualdi ad un certo punto se lo ritrovò davanti, superandolo su un tratto di strada molto tecnico e più affine ad un endurista come lui, che ad un crossista come il Belga. Poco dopo, con l’esuberanza tipica della sua giovane età, Gualdi arrivò lungo ad una curva e uscì fuori strada: non cadde, ma prese una grossa roccia e la piastra superiore della forcella si spezzo. Ma Gualdi non si arrese: prese una cinghia, la usò per legare la piastra al canotto di sterzo e riparti. Lui e il suo compagno arrivarono in fondo staccando un ottavo posto assoluto, alle spalle dei loro rivali in BMW.

 

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La sua prima partecipazione alla Dakar è datata 1987: Auriol e De Petri erano i piloti di punta, mentre Franco e Picard erano i loro gregari. In una tappa, la moto di Gualdi era come morta: pista larghissima, di 2 km e tutti i piloti passavano l’uno lontano dall’altro. Rimase fermo, con la paura che l’assistenza non lo vedesse.
Lasciò la moto a terra e posizionò la giacca a 300 metri, in modo da farsi notare senza rischiare la vita. Inizio a smontare la moto ma senza trovarne il guasto, finche verso sera arrivò il camion assistenza e caricarono la lui e la moto. Arrivarono al campo alle 2 di notte, a pochi km dall’arrivo. Gualdi, nascosto nel camion in mezzo alla moto e alle gomme, attraversò così il traguardo.

Scaricarono poi la moto e fecero un intervento di cambio motore. Alle 5 del mattino, prese la sua Cagiva, tornò indietro da una pista esterna, riagganciandosi così alla principale e tagliò il traguardo. Ormai era tardi e mancava solo un’ora alla partenza della nuova tappa, così bevve in fretta un sorso d’acqua, si diede una sciacquata e riparti subito per la tappa successiva. In generale, quella fu un’edizione sfortunata per Gualdi: bastava un’inezia e la sua moto era ferma e in più, la Cagiva era davvero impegnativa. Aveva il baricentro molto alto e il peso e la velocità non perdonavano: nel caso di cadute, risollevarla era una fatica, anche per i fisici più allenati.

Partita male, la gara non poté che proseguire peggio. A pochi km dall’inizio, trovò il collega Ciro con il cambio rotto: si fermò e gli diede una mano a sistemare la moto. Rimontarono per errore i due serbatoi scambiati e – proprio prima che se ne accorgessero e li invertissero-qualcuno passò e scattò una foto. Quell’anno passò agli annali per la loro squalifica, che arrivò subito dopo questo fatto e proprio a causa di quello scatto, dove si vedeva chiaramente una moto con il numero 99 sul frontalino e il numero 97 sui laterali, che venne usato come prova a dimostrazione di uno scambio di moto che non poté mai essere concretamente provato.

Fu una sorta di punizione divina: il team Cagiva non era propriamente un esempio di ligio rispetto dei regolamenti, ma non veniva quasi mai punito per mancanza di prove. Quella volta, invece, i protagonisti giurarono di non aver fatto nulla di scorretto, ma vennero penalizzati sulla base di una foto che non dimostrava nulla. Non ci fu comunque possibilità di appello, dal momento che la squalifica non arrivò subito dopo la gara, né il giorno seguente, che era di riposo, ma alle sette del mattino del giorno dopo ancora, poco prima che iniziasse la tappa.

Azzalin non poté fare altro che prendere atto della squalifica e De Petri e Gualdi rimasero fermi, con la minaccia che, se avessero provato a percorrere anche un solo chilometro, sarebbero stati squalificati per “assistenza indebita” anche i due compagni di squadra ancora in gara. Visto che Auriol era in testa, non valeva la pena rischiare, così i due gregari ripartirono per l’Italia e il giorno seguente, si ritrovarono in prima pagina sull’Equipe per una furbata che non avevano mai compiuto, e che, ovviamente, non avrebbero mai ammesso. Nel 1987 Gualdi si dedicò alla Proto: ci salì, la guidò, la sviluppò e la rese affidabile. Fece un ottimo lavoro sui carburatori, assieme a Franco Farnè: uno addirittura lo bucarono per capire il livello della benzina.

Farnè recuperava la benzina in esubero dal carburatore e la rimetteva nel serbatoio con un tubicino. Alla fine prepararono circa 20 carburatori: il Weber era il top, davvero micidiale appena si spalancava la manetta del gas. Provò poi le forcelle in Tunisia, assieme a Ciro, nella terra di nessuno, mentre a Savona e sulla scarsamente trafficata Gravellona Toce, fece i con i test delle mousse della Michelin. Gualdi andava a chiodo, ai 100 Km/h, poi tornava indietro e i tecnici testavano le gomme. Il problema, che rimase irrisolto anche durante la Dakar, era che a 170 / 175 Km/h si staccavano i tacchetti della ruota.

Mentre provava, Gualdi dovette fare un’ inversione ad U: la moto si spense e pareva non voler più a ripartire. Arrivò la polizia stradale e lo trovò lì, in mezzo alla strada, con un bolide senza nemmeno la targa. La fortuna di Franco fu di essere un collega delle Fiamme Oro: un saluto veloce ed era già diventato il loro idolo. Gli diedero addirittura una spinta e così riuscì a riavviare la moto. Cose che allora si facevano tranquillamente, ma oggi sarebbero impensabili… Nel 1988, si ritrovò quasi senza rendersene conto alla Dakar: partito da gregario di De Petri, fu l’unico dei piloti della Cagiva a concludere la gara. Era alla sua seconda partecipazione, come sempre faceva assistenza e non si illudeva di fare grandi risultati.

 

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Ciro avrebbe sicuramente potuto vincere qualche Dakar, se non avesse sempre voluto superare il limite: pur sapendo che a più di 170 Km/h le gomme si strappavano, lui non rallentava mai e così le squarciava. Toccava poi a Franco recuperarlo, in pieno Sahara: certo, anche a lui sarebbe piaciuto andare più veloce, magari nella speranza di recuperare 15 minuti, perché quel deserto sembrava asfalto, ma invece andava a 150 Km/h in sicurezza. Tanto sapeva che poi avrebbe trovato De Petri con le gomme scoppiate: lui si fermava e gli dava la sua gomma e, con questo giochetto, Ciro manteneva una buona posizione in classifica, mentre lui scivolava sempre più indietro.

Una volta incontrò Ciro che aveva un diavolo per capello, andava a 90 Km/h e imprecava contro se stesso e la sua moto: il motore andava a uno, e passandogli vicino, Gualdi si accorse subito che aveva la pipetta della candela staccata. Non fece in tempo di segnalargli il guasto, che non lo vide più, perché era partito a fuoco: 50 Km con un solo cilindro e poi gli diede paga. Ciro era così: da alcuni punti di vista davvero incorreggibile. Il team Cagiva era rispettato e temuto: De Petri alla fine si ritirò e Azzalin chiamò Franco e gli disse di fargli vedere di cosa era capace. Era a cinque ore dal primo e voleva quantomeno arrivare a fine gara con lo stesso distacco, senza però fare il matto per recuperare il tempo perso.

Azzalin gli diceva di attaccare e lui cercava di fare del suo meglio, ma senza strafare: alla fine arrivò sesto. Era davvero soddisfatto del risultato: a conti fatti, se non ci fossero state tutte quelle soste per aiutare gli altri, probabilmente avrebbe potuto raggiungere un risultato ancora più importante. Franco teneva un diario durante la Dakar, in entrambe le edizioni: quando alla sera arrivava al campo, scriveva qualche riga. A fine gara, lo riponeva ed oggi ammette che furono proprio quegli scritti a indurlo a non partecipare più a quella gara, meravigliosamente maledetta.

Conservò dei ricordi stupendi, ma su quei diari scrisse parecchie cose che nessuno ancora sa: un giorno, magari, li tirerà fuori e li renderà pubblici. Gualdi fu sempre molto saggio e non lasciò mai nulla al caso: se per cambiare la gomma servivano tre leve, lui cercava di averne quattro piuttosto che due; se la moto aveva un limite, sapeva che era meglio non stuzzicarla; se il cambio era delicato, era decisamente consigliabile guidare con attenzione; evitava di superare nella polvere, per non rischiare di prendere un sasso che non avrebbe potuto vedere.

La sua filosofia era: “Tirare i remi in barca e portare a casa il risultato.” Certo, questo approccio, alle volte lo frenò dal raggiungere successi più importanti, ma lo portò sempre in fondo ed oggi, tutto sommato, lui è contento così. Stare nel Team con Cagiva fu un’esperienza indimenticabile: in ogni situazione, si faceva il possibile e anche l’impossibile. Arrivare al bivacco era già un buon risultato per Gualdi e da quel momento, iniziava il lavoro dei meccanici. Probabilmente, poi, rischiavano più loro dei piloti, facendo i trasferimenti con quegli aerei poco probabili!

Anche con Azzalin, Gualdi aveva un bel rapporto: addirittura alla prima Dakar era previsto che dormissero in tenda insieme, ma durò solo una notte, perché Roberto russava a tal punto da non far chiudere occhio al pilota e svegliando perfino se stesso di soprassalto. Dopo quella prima sera, Azzalin andò a dormire sotto il camion per permettere a Franco di riposare. Forte di tutte le esperienze che condivisero, l’amicizia fra loro si rinsaldò: oggi, guardando indietro, per Gualdi la Cagiva era incarnata in Roberto Azzalin. Conobbe ovviamente anche Claudio Castiglioni, ma non entrò mai nel suo mondo e il loro rapporto rimase sempre formale e legato a pure questioni di lavoro.

Lo stipendio di Gualdi era dato in parte anche dal suo ruolo di collaudatore: col passare degli anni, non era più all’apice della carriera come endurista e, cavandosela bene come meccanico, portò avanti lo sviluppo di moto e di motori che poi divennero di serie e di un 750 monocilindrico che non venne mai realizzato. Aveva una buona sensibilità e gli piaceva provare fino ad ottenere un risultato finale soddisfacente, come fece con le forcelle Marzocchi o con un motore da 45 cavalli che riuscì a portare a 50. I meccanici erano a sua completa disposizione, qualunque cosa dicesse o chiedesse. Fece però un lavoro relativamente breve: trasmise quello che poteva ma tutti i test venivano fatti con Ciro De Petri: era lui l’uomo di punta e la moto veniva fatta in base alle sue esigenze. Gualdi doveva testare quello che Ciro voleva: gli chiesero di sistemare alcune cose, ma alla fine era De Petri che decideva.

L’arrivo di Orioli fu determinante per la crescita delle Cagiva: si partì da un motore Ducati, lo si portò al massimo della potenza e si lavorò sull’affidabilità. Sulla moto del 1987 sarebbe bastato un 750, anziché un 850, ma con lo sviluppo non si poteva tornare indietro, e con quella moto Ciro vinse tanto. E se nel 1990 si arrivò a vincere, fu certamente anche grazie al grande lavoro fatto in termini di crescita e sviluppo. A quel tempo i francesi erano i big, mentre gli italiani non erano ancora pronti per vincere una Dakar. De Petri era il migliore dei nostri, tuttavia chiunque era consapevole che il pilota da battere non era lui, ma i francesi, come Auriol.

Quando Gualdi ebbe occasione di averlo come compagno di squadra, ne approfittò per rubargli qualche segreto e la sua guida migliorò sensibilmente. Hubert si rivelò un uomo serio, più attento e preciso che veloce. Però era un “francese”: di lui, come di tutti i suoi connazionali, Gualdi imparò a non fidarsi mai troppo, perché i cugini d’oltralpe sono un pò gelosi della Dakar. La ritengono una gara loro. Gli italiani invece erano tutti un pò particolari: buoni e scaramantici, pieni di rituali, come quello di De Petri che tutte le sere si faceva preparare l’acqua calda da Forchini, il suo uomo di fiducia, per lavarsi la testa.

Gualdi affrontò anche molte altre competizioni, come il rally del Titano, però la Dakar rimase sempre una gara unica: tutti gli altri passarono in secondo piano. Da un’edizione si portò a casa tutti i road book con l’intenzione di rifarla da turista, con calma, facendo le tappe non in 5 ore ma in 12, guardando i posti meravigliosi che non riuscì a vedere da pilota. Non lo fece mai. Da pilota non c’era tempo di pensare troppo, rifletteva solo alla sera, una volta raggiunto il traguardo. Una volta Franco finì in un paesino sperduto, dove tutti erano nudi e lo guardavano come un alieno. Le donne e i bambini si rifugiarono nelle case e rimase solo un uomo che capiva il francese: Gualdi non era il primo straniero che vedevano; cercò di farsi dare delle indicazioni e poi se ne andò.

Si ripromise che ci sarebbe ritornato, ma non lo fece mai. La gara comportava dei rischi, ovvio, ma era anche gioia e divertimento, e la parte pericolosa era sempre minore rispetto a tutte le situazioni positive e indimenticabili. Ancora oggi, molte volte Gualdi si chiede perché correva e si risponde che non era per l’adrenalina e la voglia di rischiare. ll rischio c’era, ne era consapevole e faceva parte del gioco, ma non lo cercava per forza. Era consapevole che ogni volta che partiva avrebbe potuto essere l’ultima, ma non si divertiva a sfidare la morte per il gusto di farlo.

Partiva e basta. La Dakar non era certo la situazione più sicura del mondo: non si dormiva, non si mangiava, si soffriva… ma si conoscevano le persone per quello che erano, senza maschere. E poi, quando si tornava, ci si ritrovava con il “mal d’Africa”. Solo chi ha vissuto esperienze come quelle può comprenderlo e Gualdi lo conosce ormai benissimo: il senso di malinconia e nostalgia per quei luoghi lo accompagnerà per tutta la vita.

Dakar 2002 | Il rammarico di Giò Sala

Concludendo la “Dakar” 2002 al sesto posto Giovanni Sala ha ottenuto la sua miglior prestazione da quando, nel ’98, ha iniziato la sua avventura nel più affermato e difficile rally africano. All’esordio aveva infatti concluso 17°, nel ’99 si era classificato 7° ed aveva colto il primo successo di tappa, nel 2000 era stato costretto al ritiro e l’anno passato si era piazzato solo 14° ma aveva centrato quattro vittorie parziali.

Al rientro dal senegal: “sono soddisfatto ma commetto ancora troppe ingenuità”

“Sono soddisfatto del mio risultato, non c’è dubbio” ci ha detto il campionissimo di Gorle al suo rientro dalla capitale senegalese “anche se alla vigilia mi ero posto come obiettivo quello di concludere tra i primi cinque. Ci sono andato molto vicino, ho ottenuto due vittorie di tappa, ed ho acquisito tanta esperienza che potrò sfruttare nelle prossime occasioni che dovessero capitarmi. In questo settore credo molto e anche se ho già 38 anni penso di poter ancora dare parecchio. Del resto il vincitore della gara, il mio compagno di squadra ed amico Meoni, di anni ne ha appena compiuti 44, eppure attualmente è certamente il migliore e più completo di tutti”. 

 

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Ha avuto due giornate di gloria ma anche parecchi contrattempi, è vero? 
“Infatti, in particolare nelle prime frazioni di gara africane, quelle in Marocco. La nostra nuova Ktm bicilindrica era stata preparata soprattutto in Tunisia ed aveva corso in Egitto, quindi su terreni molli e sabbiosi. Sulle pietre e sulle rocce del Marocco ci ha creato qualche difficoltà, in particolare con la frizione, ma quando abbiamo individuato la causa del problema e lo abbiamo sistemato, tutto è filato via liscio. Qualche arrabbiatura me l’ha poi procurata la penalizzazione inflittami dall’organizzazione per il superamento della velocità all’uscita da un villaggio ma era un tratto tutt’altro che pericoloso e io non ricordo proprio di essere andato così forte tanto che ho anche pensato che fosse stato scambiato il mio numero 7 con il numero 1 di Meoni. Lui in quel punto mi ha confessato di aver dato parecchio gas. Una grossa ingenuità l’ho invece commessa nella terzultima tappa, quella marathon tra Tichit e Kiffa. Avevo vinto il giorno prima e quindi dovevo partire per primo e fare da apripista. Me la sono cavata benino ma ho saltato il controllo timbro segreto e ho subito un’altra pesante penalizzazione. Il giorno dopo avrei potuto vincere nuovamente ma ho perso un paio di minuti per soccorrere un concorrente cadutomi davanti e sono così arrivato secondo staccato di mezzo minuto mentre l’ultima breve tappa sul lago Rosa di Dakar, che ben conoscevo, mi ha consentito comunque di chiudere in bellezza”.

Come giudica questa “Dakar” rispetto a quelle cui ha partecipato in gio-sala-dakar_2002_01precedenza? 
“E’ stata un po’ particolare, nettamente divisa in due. La prima parte, fino a ad Atar, quanto mai poco impegnativa e selettiva tanto che la giornata di riposo dell’Epifania si è rivelata quasi inutile, almeno per noi non alle prime armi. Le tappe successive invece davvero infernali, capaci di sfiancare chiunque. Assurde, poi, secondo me, le frazioni in notturna. Bisogna considerare che ci sono buche e insidie ovunque e poi da quelle parti ti attraversano la strada decine di animali, tutti difficoltà che al al buio non è facile valutare, in particolare per noi motociclisti che possiamo disporre di impianti di illuminazione comunque limitati”.

In sella ad una monocilindrica sarebbe andata magari meglio? 
“In effetti ho sofferto parecchio il peso della bicilindrica. Anche Meoni ha avuto simili problemi ma lui guida moto da rally tutto l’anno, io per parecchi mesi passo a quelle da enduro, decisamente più agili, e quindi trovo maggiori difficoltà di adattamento. In ogni caso è difficile dire come sarebbe andata e, in ogni caso, se potrò gareggiare nuovamente in questa corsa, mi piacerebbe riprovarci con la bicilindrica. Ti crea disagi in qualche tappa ma ti regala grandi soddisfazioni in tante altre”.

In questa gara si cresce solo come piloti o anche come uomini? 
“E’ vero, ti dà molto anche dal punto di vista umano. Esplori più a fondo te stesso, ti suscita slanci di solidarietà che nella vita di tutti i giorni non sono altrettanto spontanei, ti tempra anche nello spirito, ti consenta di conoscere realtà tanto diverse. Anche nel rapporto con gli altri concorrenti si crea qualcosa di particolare che non avviene nelle altre gare”.

Dopo cinque titoli mondiali nell’enduro il suo attuale sogno è proprio vincere una volta la Dakar? 
“Non posso negare che questa competizione esercita su di me un fascino notevole. Tengo molto a ben figurare nei rally e siccome la Dakar è la regina dei rally è evidente che mi piacerebbe riuscire a conquistarla. Sono però realista e devo ammettere di non essere probabilmente ancora pronto, incorro ancora troppo spesso in errori grossolani, in fesserie che uno come Meoni non farebbe. Però facendo tesoro di ogni nuovo sbaglio sento anche di migliorare e chissà che prima o poi non impari tutte le astuzie e possa metterle in pratica al meglio”.

A breve termine quali sono i suoi programmi?
“Dopo questa scorpacciata di circa dieci mila km in sella dormendo poco o niente, penso proprio che mi concederò una decina di giorni di stop. Mi dedicherò agli affetti e ai tifosi, poi a fine mese c’è il raduno degli azzurri dell’enduro e quindi i test con la 520 con la quale parteciperò al mondiale e italiano enduro nella 600 4 tempi, la cilindrata cui ambivo già da qualche tempo. Finalmente sono stato accontentato. La prima gara importante sarà quella di apertura del tricolore, all’inizio di marzo, mentre il prossimo rally dovrebbe essere quello in Tunisia, in aprile”.

Intervista di: Danilo Sechi
fonte: http://www.motowinners.it/fuoriclasse%20Bg/Sala/Sala.htm
 

Jordi Arcarons | Una vita dedicata alla Dakar

L’ex pilota catalano ha partecipato 16 volte alla leggendaria gara, debuttando nel 1987 e correndo per l’ultima volta e in auto nel 2003 con la BMW.

“La Dakar per me è una gara che ha una parte umana molto importante e una competizione che richiede di seguire un roadbook  in corsa ed è una costante di improvvisazione, sapendo come confrontare tutti gli elementi per essere meglio di tutti. Non sono riuscito a vincere, ma tutto ciò che ho vissuto mantengo un valore molto alto nella vita”, lo spagnolo risponde a Motorsport.com.

Jordi Arcarons accarezzò la vittoria molte volte, fu il secondo in quattro occasioni e capì meglio di chiunque altro che cosa significasse la parola Dakar.

Per quattro volte ha accarezzato la gloria, ma ha dovuto confrontarmi con un gigante dello sport, Stephane Peterhansel.

“Non puoi avere l’amaro in bocca, perché alla fine la cosa importante nella vita è continuare e tutto quello che ho imparato mi ha dato molto. Mi avrebbe cambiato un po ‘la vita per averlo vinto, ma non succede nulla, quello che non sono riuscito ad ottenere da pilota, l’ho avuto dopo allenatore e allenatore con Nani Roma, con Marc Coma .

Con Peterhansel è stata una sfida non sempre alla pari perché forse avevamo meno mezzi, non abbiamo lottato con lo stesso budget. Eravamo come una squadra privata e fino a quando KTM non ha fatto una moto per vincere abbiamo avuto un sacco di problemi meccanici. È stato molto difficile combattere contro Peterhansel e il team Yamaha, erano quasi intoccabili “, ricorda Arcarons.

Dakar 1988 l'anno del debuttoLa prima partecipazione del 1988

Arcarons ricorda che furono Juan Porcar e Carlos Mas ad aprire la loro curiosità per la Dakar.
Dakar 1992, 3° assoluto“In TV vedi le immagini, ne ho seguite diverse ogni giorno un minuto e questo mi ha incoraggiato e mi sono detto che dovevo essere lì. Non appena ho finito la Dakar nel 1987, mi sono detto che dovevo iniziare. Tutto l’anno Enduro, il campionato spagnolo raid, la Baja Aragón e il Campionato del Mondo Enduro. 
In effetti, ho avuto una tecnica molto buona per adattarlo a questo tipo di gara, nelle dune di sabbia. Quello che non avevo idea era la navigazione perché il rally nazionale era senza un road book, lo stesso Baja, e seguire un corso con una bussola non mi dava alcuna sicurezza, né sapevo come farlo.”

“È stata un’avventura di sopravvivenza perché le tappe erano molto lunghe, siamo arrivati di notte per molti giorni. Inoltre, rifornimenti erano ogni 450 km e la moto non aveva abbastanza benzina perché i depositi sono stati rotti e abbiamo dovuto portare la benzina in un barattolo sulla schiena e tutto era la sopravvivenza. Niente a che vedere con la gara ora, che è più umana e più sportiva. Era un’avventura totale. Come ricordo negativo 7 persone sono morte nel rally, piloti e non piloti “.

Contrariamente a ciò che può sembrare, Arcarons ricorda che in quella Dakar è andato molto veloce, attraversando deserti infiniti e leggendari.

“In quelli in esecuzione Dakar molto, perché attraversando l’Algeria e Teneré era tutta velocità, anche con un sacco di navigazione, ma le moto erano a 170-180km / h, e quando c’è stato un incidente era grave.

Dakar 1994 2° classificato 6 PS vinte!

Ricordo i camion Duff che andavano online nel deserto di Tenere con le macchine e avevano motori doppi e avevano un sacco di energia. Erano alla stessa velocità della Peugeot 205 di quel tempo. E quel camion si è rovesciato e i piloti sono stati licenziati dal vetro davanti. È stato tremendo”.

E la morte, che quasi ogni anno volava sopra la carovana:

“Ricordo una Dakar in cui morì Gilles Lalay, quello che andò in Sud Africa, a Città del Capo, e vidi solo la bicicletta. Non si sapeva quale marca fosse da quanto fosse ammaccato. Il guidatore, naturalmente, è deceduto all’istante in caso di collisione frontale con un cambio di grado. Eccoti per tutto”.

L’unica avventura in una macchina

Arcarons ha tentato la fortuna nel 2003 con una BMW, ma l’avventura non è andata comeDakar 1995 2° classificato previsto e ha appeso il casco per sempre.

“Sono andato a provare la gara in macchina, forse perché ha meno rischi e sembra più comodo di andare in moto. Volevo provarlo perché ho deciso di ritirarmi dalla moto dopo la somma degli infortuni, perché hai un’età in cui non sei più così competitivo … Ho avuto modo di conoscere questa specialità e non ho avuto fortuna con l’attrezzatura, che era molto semplice, non conteneva parti di ricambio. Ho rotto la macchina in Tunisia nella terza fase e siamo andati a casa e lasciare un po ‘di denaro su di voi dice ‘Mamma, se vengo qui e devono pagare che, non stiamo andando bene”.

fonte: https://es.motorsport.com/dakar/news/40-anos-dakar-jordi-arcarons-994882/