DAKAR 1994 | La Suzuki di Francru al cospetto di Topolino

Oggi parliamo di un esemplare che, guidato da Gilles Francru, ha corso la Parigi – Dakar del 1994.  L’unicità dell’edizione del 1994 della Parigi – Dakar è che, in quell’anno, la competizione partiva da Parigi arrivando a Dakar, in Senegal, per poi fare ritorno in Francia, a Eurodisney, alle porte della capitale.

Il contachilometri, che si dice sia in gran parte originale, indica 27.846 km, una distanza sufficiente per non una, ma due edizioni della Parigi-Dakar. Sono presenti anche adesivi della corsa del 1993 (e del 1994), ma la sua partecipazione e il suo arrivo all’evento non sono confermati. Se questa moto potesse parlare, avrebbe molte storie incredibili da raccontare.

Quell’anno Gilles Francru riuscì a piazzarsi al trentatreesimo posto: non male, considerando che delle 97 moto partite, solo 47 arrivarono al castello di Topolino. Detto ciò, il fascino della Parigi – Dakar, quella vera, quella che fino al 2007 si svolgeva a cavallo tra il Vecchio Continente e l’Africa, è sempre vivo anche oggi e i più nostalgici e curiosi forse non sapranno che questa moto fu messa all’asta alla RM Sotheby’s e venduta per 10.800 sterline.

 

Dakar 1994 | Il KLX-R di Alvaro Bultó e Xavi Riba

Nel 1994 la Dakar cambiò proprietà e l’evento divenne proprietà del gruppo ASO, che tra l’altro aveva e continua ad avere eventi sportivi come la stessa Dakar o il Tour de France.
Il percorso è stato un esperimento che non ha funzionato da quando la gara ha lasciato Parigi per raggiungere Dakar e poi tornare a Parigi. Ovvero una Parigi-Dakar-Parigi con 13.379 chilometri di percorso a cui si sono iscritte 96 motociclette.

 

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Tra questi la Kawasaki dell’indimenticabile Alvaro Bultó, zio simpatico e sportivo che ha fatto il suo debutto alla Dakar dopo aver attraversato varie modalità e il ignifugo Xavi Riba. Riba ha fatto molta esperienza nel test dato che vi aveva partecipato sei volte prima di fare il suo debutto in Kawasaki.

Figlio del fondatore della Bultaco FX Bultó e all’inizio un pilota di motocross, Alvaro è stato il miglior debuttante allaIMG_7156-e1548414682787-225x300 Dakar di quel lontano 1994. L’affascinante Bultó che divenne famoso tra le altre storie per i suoi programmi su TVE, era un regolare nei rally in asfalto, una specialità che è scomparsa e dove è arrivato secondo in Spagna con il fratello Ignacio.

Si è distinto anche come velocista e pilota di Supermotard, prima di abbandonare la competizione motociclistica dopo la Dakar (è tornato in macchina) e concentrarsi su altre sfide come il volo o la caduta libera. Nel 2005 con la sua tuta alare inizia a volare alto: attraversando lo Stretto di Gibilterra in caduta libera e una velocità media orizzontale … 208 Km h!

Purtroppo ha subito un incidente che gli è costato la vita nell’agosto 2013.
Quando nel 1994 Alvaro Bultó e Xavi Riba andarono alla Dakar con la loro Kawasaki, il marchio fu importato da Derbi Nacional Motor, che diede loro due KLX 650-R che erano completamente preparati per la grande avventura africana. La Kawasaki KLX 650 in versione R produceva 48 CV di potenza a 6.500 giri ed era dotata di un singolo cilindro con doppio albero a camme e raffreddamento a liquido.

Il telaio era un doppio raggio perimetrale in cromo molibdeno ereditato dalla versione da motocross a cui dovettero Kawasaki_1994_2essere apportate alcune modifiche poiché il motore della KLX era più alto. Le sospensioni sono state preparate da Felipe Higuera, che è stato uno dei migliori specialisti del nostro Paese e, mantenendo la forcella Kayaba di serie, molle e olio sono stati modificati preservando i 300 mm. viaggio.

Dietro è stato montato un ammortizzatore Ohlins (280 mm). La sezione più laboriosa è stata il montaggio dei serbatoi di carburante supplementari. Due sono stati posizionati nella parte anteriore, cercando di posizionare il peso il più vicino possibile al centro di gravità per ottenere la maneggevolezza. Due serbatoi laterali sono stati posizionati anche nella parte posteriore. Presentava un’impressionante piastra paramotore in Kevlar e non mancava una via di fuga dall’indimenticabile Tavi.

La gara è stata un’odissea per entrambi i piloti, soprattutto per Alvaro Bultó, che ha mostrato grande orgoglio e IMG_7154spirito di sacrificio al traguardo nonostante abbia subito un doloroso infortunio alla mano, risultato di un incidente in moto d’acqua.

Entrambi hanno finito. Riba 10 ° e Bultó 11 ° dopo aver fatto tutta la gara insieme e aver dimostrato come altri piloti nella storia della Dakar, che con una Kawasaki praticamente standard, il sogno di finire la gara più dura del mondo potrebbe essere realizzato.

L’italiano Maletti ha ripetuto la sua esperienza in questo caso su una KLX nel 1998 concludendo 24° nell’edizione Parigi-Granada-Dakar. Un’edizione in cui il pilota “Xicu” Ferrer non ha concluso la gara in quanto ha dovuto abbandonare la sua Kawasaki nella tappa Smara-Zouerat.

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E negli ultimi tempi con la Dakar in Sud America altri piloti hanno realizzato il loro sogno ai comandi di una Kawasaki, tra cui spicca il cileno Patricio Carrera.
 
testo: Alex Medina
fonte: http://kawasakimotos.es/

DAKAR 1994 | CIRO DICE BASTA

Foto Gigi Soldano
Testo di Biagio Maglienti tratto da Motociclismo

Ciro ha detto stop; basta con la Dakar e le gare. «A trentotto anni — dice Alessandro De Petri, in arte “Ciro” — bisogna anche saper smettere». Conoscendolo sappiamo quanto gli possa essere costata questa decisione. Tanto è che ha voluto concludere un’importante parentesi della propria vita in modo poco traumatico, schierandosi al via della 16a Dakar da semplice partecipante, quasi un turista. «Ma non pensiate sia stato comunque facile — continua il bergamasco — reprimere il mio istinto. Mi sono dovuto imporre una forma di autocontrollo. Nelle prime tappe ha prevalso il De Petri pilota. Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un 10458928_10203400208157276_1120159053910473021_n - Copiamatto. Assurdo! Al termine della seconda speciale ero 35esimo; sono partito e ho iniziato a tirare. Ho sorpassato quasi tutti, arrivando a un minuto dai primi. Li superavo nei posti più impensati, difficili, rischiando il tutto per tutto. Poi ho riflettuto; ho capito che non era questo il motivo per il quale avevo deciso di prendere parte a questa gara ancora per una volta. Nella tappa successiva ho preso il via e, percorsi dieci chilometri, mi sono fermato. Ho messo la moto sul cavalletto e ho aspettato un quarto d’ora. È stata una vera e propria sofferenza vedere gli altri passare e io lì fermo; ma alla fine ce l’ho fatta. Frenato l’istinto agonistico ho iniziato la mia vera Dakar; una Dakar da “esploratore”, per apprezzare tutto quanto in questi undici anni mi ero perso. Nuove emozioni, luoghi e persone; ho fotografato tutto nella mia mente e presto, anzi prestissimo lo racconterò in un libro. Beninteso, non per protagonismo o a scopo di lucro (il ricavato andrà in beneficenza). Unicamente per dare una volta per tutte il reale volto ad una gara troppo spesso non capìta».

 

 

Alessandro De Petri ha detto basta a trentotto anni, dopo aver vinto per tre volte il Rally dei Faraoni, due il Tunisia, raccogliendo un totale di 67 successi parziali di tappa. È stato per anni l’italiano simbolo di questo genere di competizioni. Gli è mancata, forse più per sfortuna che per altri motivi, la vittoria importante. Quella Dakar sognata ad occhi aperti in diverse occasioni, della quale ha sentito più volte il profumo e che il destino avverso gli ha sempre negato. Ma De Petri non sembra curarsi di questo “piccolo” particolare.

«È chiaro, mi pesa non aver mai vinto una Dakar, perché da pilota professionista quale ero, non vincere questa competizione è un po’ veder 11140119_10204842355488178_6697427028410064163_nsfumare il sogno per il quale hai impegnato tutte le forze e parte della tua vita. Però analizzando obiettivamente il problema, senza farmi illusioni, sono ugualmente soddisfatto. Se avessi corso questa gara con un’altra testa probabilmente il successo non mi sarebbe sfuggito. Il mio carattere esuberante me lo ha impedito. Con questo non rinnego nulla di ciò che ho fatto in questi anni. Sono così in gara e nella vita, non avrei potuto comportarmi diversamente. Se dovessi tornare indietro rifarei tutto quanto, non cambierei nulla e soprattutto non cambierei mai i miei successi parziali con una vittoria finale».

La Dakar è una gara dura, invivibile, ma proprio per questo affascinante. «È unica al mondo — continua Ciro — e solo chi vi ha partecipato può realmente capire le motivazioni che spingono i piloti ad affrontare fatiche sovrumane, mettendo a dura prova e a volte superando il limite di sopportazione per qualsiasi essere vivente». E dieci anni di Dakar non si dimenticano tanto facilmente. Soprattutto se, come nel caso di De Petri, sono stati parte integrante della sua vita di pilota e inevitabilmente di uomo.

 Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un matto, assurdo!

Così Ciro inizia: «Che avventura incredibile. Il mio passato è indissolubilmente legato alla motocicletta. Ho iniziato a gareggiare prestissimo e con buoni risultati, nel cross e nell’enduro. Terzo in un mondiale cross 125 e campione europeo di enduro. Poi ho deciso di abbandonare le corse per dedicarmi alla mia attività principale, quella di odontoiatra. Ma il futuro stava per riservarmi ancora un qualcosa di straordinario. A ventott’anni sentii parlare di una gara con un “matto” che attraversava l’intero deserto sino a Dakar, partendo da Parigi. Gareggiava contro le auto e vinceva».

Per la cronaca il “matto” era Neveu e la gara la Parigi-Dakar «Non ho avuto dubbi e mi imbarcai in quella che poi sarebbe divenuta, a breve, la mia vera professione. Andai da Farioli e chiesi una moto; poi comprai una Range-Rover usata e ingaggiai Felicino Agostini (fratello di Giacomo e cognato di De Petri) e Giacomo Vismara. L’avventura era iniziata».

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Lo guardi e il suo volto tradisce l’enfasi. La prima esperienza e l’ultima sono indubbiamente quelle che lo coinvolgono di più a livello emotivo. I ricordi lo riempono e si accavallano. Si ricorda di Claudio Torri, un illustre sconosciuto, ma… «La Dakar, non vorrei cadere nella retorica, è una vera scuola di vita. Ti insegna a lottare, a cavartela da solo e ti aiuta a capire la gente. Un personaggio in particolare mi è rimasto nel cuore. Un “privato”, l’architetto milanese Claudio Torri. Si è presentato al via con noi nel 1983. Era per tutti la prima esperienza, ma per lui lo fu ancora di più. Si era già mezzo distrutto (fisicamente) nel prologo e continuò questa sua opera di annientamento nel prosieguo della competizione. All’imbarco per l’Africa rischiò di non espatriare; aveva posato i documenti e il portafogli sulla sella della moto. Quando l’elicottero si alzò in volo lo spostamento d’aria sollevò i documenti e i soldi che finirono in acqua. Poi, qualche giorno più tardi, al limite tra il comico e il grottesco, nel tentativo di raddrizzare il manubrio della mia moto, aiutando Agostini, prese in mano il martello e distrattamente si diede una martellata in testa. Per quasi tutta la gara Torri fu il protagonista di un continuo succedersi di eventi di questo genere. Mai un lamento. Ore e ore consecutive in sella senza dire una parola: fantastico e incredibile!».

Tra i ricordi spunta anche il mito, quello di Sabine. La Dakar è legata a questo nome nel bene e nel male. De Petri lo ricorda così: «Non DePetri_1994_1sbagliava mai, era capace di prendere decisioni importanti, dalle quali dipendeva l’incolumità di tutta la carovana della Dakar Ha sempre avuto ragione e i piloti, i meccanici e tutto l’entourage al seguito della gara hanno iniziato a fidarsi ciecamente di questo francese spuntato dal nulla, sino a quando la sua figura è divenuta un punto di riferimento costante per tutti noi, un faro da seguire. E quando è mancato, quando è giunta la notizia che l’elicottero si era schiantato al suolo, tutta la carovana in silenzio è ritornata sui propri passi andando sul luogo del tragico evento. Era notte; quando arrivammo ci si presentò una scena apocalittica: lamiere sparse ovunque, non c’era il minimo segno di vita. Non potrò mai dimenticare».

Questa è la Dakar, nei suoi accenti più forti, ricordata da Ciro De Petri. Il terribile incidente al Faraoni nel 1992 lo ha convinto ad abbandonare. «Sì probabilmente la molla che ha fatto scattare in me la decisione di smettere è venuta anche a seguito dell’incidente. Due mesi di coma non sono uno scherzo. Ma, sembrerà strano, un controsenso, l’incidente è stata l’occasione per risalire nuovamente in sella, per l’ultima volta. Uscito dal corna mi sono lentamente ripreso, ma mi rimaneva una sorta di intorpidimento e di stanchezza; un vero e proprio tormento. Una mattina, tre mesi fa, ho deciso che sarei ritornato a correre. Ho ripreso ad allenarmi e immediatamente mi sono passati tutti i disturbi; avevo già vinto, ancor prima di iniziare la gara».

Advertising Cagiva 1994

Advertising Kawasaki 1994

Yamaha XTZ 850 R, la fine (quasi) dei prototipi

Nel 1994 Yamaha decise di non partecipare con la squadra ufficiale in contrasto con la modifica al regolamento che sanciva la fine della categoria prototipi e non avendo tempo di preparare una moto per vincere decise di non partecipare, prima volta da quando iniziò la Parigi-Dakar. La Yamaha nel 1994 presenta la nuova moto la XTZ 850 R.

Con i costi di produzione limitati a 140.000 Franchi per almeno quindici moto prodotte in modo identico.

Ed unitamente alla XTZ 850 R fu presentata anche la XTZ 660 Super Production. Il prezzo imposto voleva favorire i piloti e le squadre private che  potevano acquistare ufficialmente moto performanti già pronte al prezzo prestabilito.

Tuttavia, gli esperti hanno segretamente valutato il prezzo di produzione della XTZ 850 R molto più alto! Il patron Yamaha Motor France non smentì questa affermazione, anzi confermò che la moto era una moto da gara a tutti gli effetti e che valeva ben più del suo prezzo. Un vero affare per l’acquirente privato.
Peterhansel aveva preparato perfettamente la sua moto e ne avevano fatto una serie identica ed era quasi imbattibile.       

Delle 15 moto preparate una decina furono vendute ai privati, come il Tais Sport e il team Les Copains, le moto furono presentate e vendute in livrea bianca e serbatoi anteriori alluminio.  Le XTZ 850 R erano moto molto performanti e pochi piloti poterono sfruttarle a pieno, nel 1996 Orioli vinse con la dama bianca, mentre nel 1995, 1997 e 1998 Peterhansel vinse con la XTZ 850 R che da derivazione TDM passò a al motore TRX, infatti le moto furono omologate per la circolazione su strada con la sigla 3VD, come i TDM.

 

Jean Claude Oliveir, patron di Yamaha Motor France con Stephane Peterhansel alla presentazione del modello 1994

Jean Claude Oliveir, patron di Yamaha Motor France con Stephane Peterhansel alla presentazione del modello 1994

 

Una particolarità, le moto clienti furono vendute ai clienti con il telaio bianco, mentre le moto del team interno avevano il telaio blu come la moto. La moto oltre a quelle a casa di Perterhansel (Dakar 1998) una è esposta al museo Yamaha in Giappone che non è la 1997 (è una clienti travestita) un paio alla Yamaha Motor France, una o due in Italia le altre sono una in Spagna e un paio tra Francia e Germania.
Quasi tutte le XTZ 850 R sono ancora in ottima forma e perfettamente funzionanti.

Testo Giovanni Tazzone Fantazzini

Yamaha XTZ 660 Super Production

Per cercare di evitare lo strapotere dei prototipi alla Dakar, la direzione di gara verso la fine del 1993 provvede a cambiare il regolamento, ed introdurre la categoria sport prototipi, moto di derivate dalla serie. La Yamaha visto il poco tempo per prepararsi e le divergenze con la direzione gara, non iscrive nessuna squadra alla Dakar 1994.

Durante il 1995 la Yamaha Motor France non potendo più contare sui prototipi provenienti dal Giappone, nel proprio atelier prepara due piccole serie di moto, 15 bicilindrici e 15 monocilindrici. Il bicilindrico direttamente derivato dal prototipo vincente nel 1993, con telaio Barigo e motore di derivazione TDM, come riportato sulle carte di circolazione delle moto, moto adatta a piloti professionisti ed esperti.

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Il monocilindrico derivato dal XTZ 660 con modifiche al telaio, sospensioni, alla cassa filtro e alle sovrastrutture, adattato e preparato per piloti amatori che erano nella sfera di Yamaha France.
Le importanti modifiche vennero state testate da Stéphan Peterhansel al Nevada Rallye. 25577234_10211073917748227_1633602844_o

La capacità del carburante è stata aumentata a 37 litri grazie ai due serbatoi anteriori in alluminio (un optional posteriore da 5 litri), il paramotore riceve una riserva d’acqua in alluminio, il telaietto posteriore rimovibile è in acciaio, la forcella è una Kayaba da 43 mm della gamma YZ preparata nell’idraulica e nelle molle, l’ammortizzatore è un Ohlins dedicato nelle misure e nel serbatoio, il forcellone in alluminio scatolato è realizzato su misura con la possibilità di smontaggio rapido della ruota posteriore, il silenziatore è un First Racing, l’airbox è originale ma modificato (con un’apertura più ampia e un secondo filtro, alcune vennero dotate di cassa filtro in alluminio dedicata).
Il cupolino e i fianchetti laterali sono in poliestere rinforzato con fibra di carbonio, i parafanghi anteriori e posteriori provengono dalla WR 250, la sella è in poliestere specifico. L’equipaggiamento di navigazione è obbligatorio e comprende Trip elettrico MD e triplo ICO.

18817906_10209548817781681_103864442_oIl prezzo di vendita includeva la moto, ma anche un kit di parti molto fornite, l’assistenza e il trasporto dei pasti durante l’evento. Le 15 moto troveranno rapidamente compratori, tra cui il “Team Les Copains” composto da Christian Sarron , Pierre Landereau, Philippe Alliot e Raphael de Montrémy. Jacques Laffite correrà su una TT 350 e Thierry Magnaldi sulla XTZ850R.

Tra gli altri piloti anche il famosl pilota/velista/giornalista Thierry Rannou, Egfried Depoorter e altri.
Circa metà delle 14 moto corsero anche nella Dakar 1996 con Marc Troussard, Michel Servet e altri.
Visto la richiesta e il prezzo altissimo della Super Production, la Yamaha Motor France, preparò nel 1995 due serie di moto per le corse raid, la Marathon e la Marathon Rallye, entrambe preparate su base XTZ 660 ma con poche e mirate modifiche. La Marathon: serbatoi e sospensioni. La Marathon Rallye: serbatoi sospensioni e cassa filtro. Per entrambe nessuna modifica al telaio.

Special Tks Giovanni Tazzone Fantazzini

Cagiva Elefant Marathon Dakar 1994

Gli appassionati più facoltosi, festeggiarono la nascita del regolamento Marathon per la Parigi-Dakar 1994, che vincolava all’uso di mezzi con derivazione diretta dai mezzi di serie (scelta che uccise i costosissimi prototipi ufficiali).
Cagiva allestì quindi la 944 Marathon, che costituì la base per la moto portata in gara dal team CH Racing di Roberto Azzalin e che vinse poi per la Casa varesina la seconda Dakar con Edi Orioli.

La Marathon riguadagnò diversi particolari di pregio della precedente 900 IE ma andò anche oltre: a parte appunto il ritorno dell’accoppiata Marzocchi Magnum – Ohlins, su questa versione speciale si adottò un cerchio anteriore da 21”, più adatto all’impiego in fuoristrada (misure complete 90x90x21″ e 140x90x18″) ma soprattutto l’inedito (nella produzione di serie) propulsore da 944 cc alimentato da raffinatissimi carburatori a valvola piatta Keihin FCR capace di erogare 75 cavalli e 7,2kgm.

Eri Orioli il Re di Dakar… e di Parigi 1994

Grossi cambiamenti alla Dakar del 1994. La corsa passava nelle mani del Gruppo ASO, cambiando le regole, penalizzando le “formula uno” del deserto. Si partiva da Parigi e, dopo un giro di boa a Dakar, la 16° edizione si concluse di nuovo a Parigi.

La Yamaha, contraria al cambiamento di regolamento, rinunciò per protesta. Orioli tornò a correre con una Cagiva, ancora preparata da Azzalin, una versione “mortificata” derivata dalla moto di serie andata in produzione nel frattempo. La Dakar di quell’anno risultava quanto meno “discontinua” a causa di una serie di problemi organizzativi che portarono all’annullamento di alcune tappe.

KTM, che presentava per la prima volta una squadra ufficiale organizzata attorno al suo asso Heinz Kinigadner, si aggiudicò le prime tappe enduristiche, poi fu una marcia trionfale delle Cagiva. Arcarons, Mas, Gallardo, ma soprattutto Orioli.

La Dakar 1994 si concentrava con un duello avvincente tra il friulano e Jordi Arcarons, a pochi mesi di distanza da quello, vittorioso, dei Faraoni. Eppure a Bordeaux Orioli doveva già cambiare il suo motore, e nella notte dà Boutilimit, a metà della tappa “marathon” che si sarebbe conclusa ad Atar, si trovava con la sesta marcia che non entrava più: tutto sembrava essersi rimesso in gioco. Il regolamento impediva un secondo cambio di motore, ed è qui che entrarono in scena Pattono e Minelli, due meccanici Cagiva dalle grandi doti e dal cuore grande.

I meccanici faranno la differenza, per tutta la notte smontarono un motore (quello del ritirato Goffoy) e poi un altro (quello di Orioli), per effettuare il trapianto dell’ingranaggio del cambio. Una notte passata in bianco, in cui si lavorò molto e senza interruzione, ma ne valse la pena, la moto fu pronta per il mattino successivo.

Orioli avrebbe fatto il resto, surclassando il povero Arcarons, che in quella occasione passò alla storia quale detentore del secondo posto con il minore distacco, Orioli entrò come un re, trionfante sugli Champs Elisées.