DAKAR 1991 | António Lopes, il primo portoghese alla Dakar

Il 29 dicembre 1991, António Lopes è stato il primo pilota portoghese a schierarsi alla partenza del Rally Dakar. António Lopes aveva già un lungo curriculum in moto, essendo stato campioneLopez 1991-1 nazionale di endurance nel 1990, aveva già vinto la Baja Portalegre 500 e all’estero era, per esempio, 26° al Rally dei Faraoni.

Se, in auto, la partecipazione portoghese è iniziata nel 1982, attraverso José Megre, alla guida di una UMM Indenor 2.5 con il numero 216 (fu 45° nella classifica generale), fu solo nella 13a edizione della Dakar, nel 1991, che un motociclista portoghese partecipò per la prima volta alla Dakar.
Alla guida di una Honda Africa Twin 650, e con l’assistenza di Honda France, il pilota portoghese ha partecipato alla Parigi-Tripoli-Dakar, e ha impressionato all’inizio della gara. Ha raggiunto il giorno di riposo al 29° posto della classifica generale, in una gara alla quale partecipavano una trentina di moto di squadre ufficiali, e subito in testa alla classe Marathon.

“Le cose stavano andando bene”. Era al primo posto nella classe marathon e al 20° posto in classifica generale, ma una caduta nella 12ª tappa, in Mali, ha rovinato tutto. Caduto rimane privo di sensi e il pilota che lo ha soccorso ha attivato la radiotrasmittente che inviava il supporto medico (elicottero) e ha escluso il corridore infortunato dalla gara: “È stato frustrante”. Non si è fatto male, nemmeno un graffio da raccontare: “Mi sono svegliato in un’ambulanza e avrei continuato, ma le regole erano così e sono stato escluso”.

A parte il risveglio in un’ambulanza, l’avventura più grande è stata quella di partecipare a un segreto che inlcudeva anche una morte di un concorrente. L’atmosfera era tesa, la Guerra del Golfo era iniziata nell’agosto del 1990 e un soldato africano finì per uccidere uno dei concorrenti in Mali. La versione ufficiale è che Cabannes fu colpito da un proiettile vagante. Questo fu l’inizio dei problemi che avrebbero portato la Dakar a lasciare l’Africa per il Sud America e poi il Medio Oriente.

“È stata l’avventura di una vita. Nessuno sapeva come fosse. Sapevamo solo quello che leggevamo sulle riviste e sui giornali, quindi dire che sono andato al buio è un eufemismo”, ha raccontato l’ex pilota a DN. Il 29 dicembre 1991, si è recato al rally con una moto prestatagli dalla Honda, una squadra che lo conosceva dalle competizioni fuoristrada.

E’ stato campione nazionale di Enduro e aveva già vinto la Baja Portalegre e partecipato al Rally dei Faraoni. “La moto era rimasta dall’anno precedente, era quasi pronta e doveva solo essere messa a punto. All’epoca cominciavano ad arrivare gli sponsor e ho ottenuto i soldi necessari, 12.000 escudos (circa 60.000 euro)”, racconta, sottolineando che oggi la quota di iscrizione è molto più bassa e si può fare una Dakar con 7/8.000 escudos.

Era la prima volta che un motociclista portoghese vi partecipava. Le moto pesavano 300 kg (oggi pesano la metà), erano alte quasi due metri ed era difficile manovrarle tra le dune. Non c’erano i moderni road book o il GPS. “C’era una bussola elettronica, che aiutava chi sapeva come funzionava. L’ho ricevuta solo due giorni prima, quando sono arrivato in Francia. Mi hanno dato un opuscolo su come funzionava, ma era quasi inutile”, ha confessato l’attuale proprietario di una concessionaria Honda a Mem Martins.

Andavano alle tappe con una mappa e un biglietto aereo. Se si perdevano, bastava andare in un qualsiasi aeroporto africano per raggiungere Dakar o Parigi. Se la loro moto si rompeva e non poteva essere riparata, rimanevano lì. Non c’erano camion scopa e nessuno li andava a prendere: “Eravamo da soli e questa è la grande differenza con oggi, ed è per questo che i nostalgici dicono che quella era la vera avventura. È da qui che nasce l’espressione ‘se arrivi alla fine è una grande vittoria’. Perché è stato così”.

Non è più tornato alla Dakar. Aveva realizzato il suo sogno e questo era “sufficiente” per lui. Sapeva che vincere era impossibile e non era disposto “a correre rischi così grandi solo per partecipare” ma il record di un grande debutto, ai comandi di un Africa Twin quasi standard. Il primo concorrente di moto a finire fu Pedro Amado, l’anno successivo, 1992, in sella a una Yamaha XTZ 660 (fu 28° assoluto/9° nella classe Marathon), ma di lui parleremo un’altra volta…

DAKAR 1991 | Claudio Quercioli, vedi l’Africa e poi… torna

Claudio Quercioli non può dire di non essere arrivato in Africa, ma è andato poco oltre. La sua gara è finita a metà del primo trasferimento, con un grippaggio che lo ha costretto a fare gli ultimi 160 km al traino. Il motore di ricambio non è nemmeno stato scaricato dal camion di assistenza: la mattina dopo è ripartito a bassa andatura, scortato da una macchina della polizia libica, per tornare a Tripoli.

«Ho finito la tappa trainato dal camion di Savi, correndo anche un bel rischio viaggiando a 110 km/h h di notte, in quelle condizioni e soprattutto ho superato a spinta il controllo all’arrivo, mentre il regolamento prevede che questo avvenga a motore acceso. Al bivacco ho sbloccato il motore con la leva della messa in moto, ed ho scoperto di aver grippato perché era finito l’olio. Purtroppo non avrebbe potuto resistere nemmeno il propulsore di scorta che ha già parecchi chilo-metri sulle spalle: l’avevo portato nel caso fosse stato necessario portar via la moto dopo una rottura nel deserto, ma di fare tutta la gara non se ne parla».

È il secondo ritiro per Quercioli, che già lo scorso anno fu costretto ad abbandonare dopo una vicenda rocambolesca: riammesso alla gara grazie al membro di giuria italiano dopo che i commissari gli avevano impedito di prendere il via, ruppe due volte il camion col quale stava tornando a prendere la moto lasciata ad Agadez e non riuscì a recuperarla in tempo. «Alla Dakar tornerò, ma solo se potrò avere una squadra, in modo da poter guidare e basta. Dovevo lasciar perdere già dopo l’an-no scorso, ma farla è bellissimo. Faccio volentieri i sacrifici che sono necessari per prendere il via; è quando mi capitano cose come quella di oggi che non mi diverto più. Però mi vien da ridere se penso che a febbraio mi tornerà la voglia di parteciparvi».

DAKAR 1991 | Matti, matti da legare

Come definire diversamente i piloti che prendono parte alla Dakar da privati, spendendo di tasca propria per sottoporsi a fatiche e sacrifici? Ma la passione che li spinge è superiore a qualsiasi freddo calcolo. È la stessa passione che ha portato alcuni di loro a prendere il via in condizioni anche più difficili della media, con mezzi che decisamente non sono il massimo per una maratona del genere.

Ma la Dakar è bella anche per questo, perché prima ancora della gara viene il confronto con se stessi e con la propria moto. Di questo esercito di pazzi scatenati il re è sicuramente Jean Gilles Soupeaux, un francese che per tre anni ha guidato i camion della TSO e che per la tredicesima edizione della corsa ha deciso di passare dall’altra parte della barricata, da concorrente.

Per il suo debutto come motociclista non ha scelto un mezzo consueto: alle verifiche di Parigi si è presentato con una Harley Davidson. La Casa americana però non ha gradito l’iscrizione in forma privata di una delle moto da essa costruita, la prima nella storia della Dakar: ha chiesto senza successo alla Thierry Sabine Organization che nelle classifiche non risultasse il suo nome, ma ha ottenuto almeno che il suo marchio non venisse apposto sul serbatoio del «mostro».

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Il mezzo di Soupeaux è stato ritenuto troppo lontano dalla serie per essere «degno» di portare il nome Harley. Del resto quello con cui il quarantenne parigino ha preso il via era uno strano ibrido dotato sì del bicilindrico americano, ma con una ciclistica della Honda Africa Twin allungata ad hoc ed un look fantasioso realizzato all’aerografo. Perfettamente in carattere con la sua moto, Soupeaux è partito con un giubbotto nero con le frange, pure decorato ad aerografo.

Non è però andato molto lontano: 113° ed ultimo nel prologo, in Africa non è riuscito a completare nemmeno una tappa ritirandosi nel trasferimento su asfalto da Tripoli a Ghadames: con una moto terminata solo la settimana prima era da prevedere.

DAKAR 1991 | Diario africano di Aldo Winkler

Lo sostengono in tanti e lo penso anche io, la Dakar è una malattia che non ti molla più. Ed eccomi pronto a ricascarci di nuovo! Ogni Dakar mi ha portato grandi amicizie: Batti, Maletti, Birbes, in futuro Morelli durante la gara. Ma mai ero partito con una persona con la quale già prima eravamo amici. Il fatto che si fosse iscritto Brenno Bignardi è stato la spinta finale per parteciparvi. Brenno ed io condividemmo la comune passione per la moto fuoristrada, entrambi corremmo cross ed enduro ed ancora oggi ci divertiamo moto insieme. Cosa c’è di più stimolante che fare la più bella avventura insieme?

 

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Ghadames — Ghat Una tappa bestiale più di 1.000 km. suddivisa in due tappe. A1 mattino, un freddo intenso, avremmo potuto aprire un’ edicola con la carta sotto i vestiti!E’ una delle tappe mitiche della Dakar, veramente difficile ,ma il tutto appagato da paesaggi incredibili. La Dakar sta cambiando diventando più umana, il cibo è più buono, servito sui vassoi, c’è disponibilità di acqua, viene distribuita la razione al mattino, si può dormire in tenda Tuttavia è più importante essere in un team di amici con una assistenza impeccabile. La sola nota stonata era la moto poco potente e difficile da guidare.

 

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Gossololom Un posto sperduto, motivo per cui non si capisce perché abbia un nome ,visto che non c’è nulla ed è in mezzo al Tenerè. Esattamente qui mi era successa la disavventura qualche anno prima , esattamente nel ued Egaro. Il giorno dopo questo bivacco, a 40 km., anche se ero in speciale, mi sono messo alla ricerca dei Tuareg , magari avrei rivisto i mei amici che mi hanno salvato.Avro’ fatto 15 km. a est, poi sono ritornato e poi sono andato15 km. a ovest percorrendo in tutto 60 km. Di più non avrei potuto per mancanza della benzina. Purtroppo non ho visto anima viva , come mi sarebbe piaciute rivederli!

Son già partiti?
Questa è la classica barzelletta cavallo di battaglia di Brenno. Era mitica e gli abbiamo chiesto di raccontarcela mille volte, durante tutta la Dakar.
Il Sig. Rezzonico, quasi novantenne, soffre di demenza senile avanzata e importanti stati confusionali con evidenti perdite di memoria e lucidità. Suo figlio ha cercato di aiutarlo facendolo visitare da diversi geriatri nella speranza di trovare una soluzione. Uno dei dottori che ha avuto l’occasione di visitare il padre, gli suggerisce di portarlo in una clinica sperimentale che si trova in Ticino dove sembra che si possa trovare una soluzione.
Accetta il suggerimento, prende un appuntamento e raggiunge la clinica con il padre. Vengono gentilmente accolti al ricevimento dal Dottor Bernasconi che li fa accomodare nel suo studio. Una volta visitato il padre, il dottore invita il figlio a fare un giro in clinica per mostrargli la struttura e gli dice: La nostra clinica è all’avanguardia nella cura di questa malattia, abbiamo guarito quasi il 100% dei pazienti, ora facciamo un giro al primo piano dove i pazienti sono appena arrivati e mostrano ancora evidenti segni di pazzia.
Rezzonico, su invito del dottore, apre la porta di una stanza e si rende conto che la situazione è simile a quella di suo padre: pazienti che corrono sui muri, chi crede di volare, chi nuota sul pavimento, urla, pianti, sguardi persi nel vuoto. Rimane molto colpito da questa situazione. Il dottore lo rassicura e a questo punto lo accompagna al secondo piano dove le cose sembrano andare meglio. Rezzonico, aprendo una porta si rende conto che i pazienti sembrano più tranquilli, sempre un po’ strani ma tranquilli, uno di loro per esempio si sta pettinando con un pesce. Il dottore dice che questi pazienti hanno trascorso almeno due settimane nella struttura e già mostrano evidenti segni di miglioramento. È giunto il momento di salire al terzo ed ultimo piano. Nel corridoio c’è silenzio e anche le infermiere sembrano più rilassate. Rezzonico guarda stupito il dottore che gli dice: può entrare in qualsiasi stanza, si renderà conto di persona dello stato di salute mentale ottimale raggiunto dai nostri pazienti, sono entrati due mesi fa e si renderà conto di persona dei nostri risultati. Entrano quindi in una stanza e sono tutti tranquilli, chi nel letto, chi seduto, chi chiacchiera, chi legge, chi dipinge. Rezzonico rimane piacevolmente sorpreso e il dottore gli suggerisce di parlare direttamente con alcuni di loro. Si avvicina al primo signore seduto in poltrona e gli chiede: buongiorno, cosa sta facendo? Risposta: sto leggendo un libro, non si vede? Ripete questa domanda agli altri ospiti e tutti gli danno risposte logiche. Alla fine raggiunge un signore che sta tenendo un grosso coniglio sulle ginocchia e quindi chiede al dottore: sono ammessi gli animali in clinica? Il dottore risponde: certamente, sono una parte integrante delle nostre terapie, a seconda della tipologia del paziente scegliamo l’animale più adatto. Rezzonico a questo punto decide di fare la solita domanda a questo tranquillo signore con il coniglio sulle ginocchia: buongiorno, cosa sta facendo? Il signore risponde: buongiorno, sto accarezzando un coniglio, mi sembra evidente, perché me lo chiede? Rezzonico: mah….glielo chiedo perché al secondo piano mi sembrano un po’ partiti. II signore con il coniglio: son già partiti? Bastardi! Afferra le orecchie del coniglio come fosse un manubrio, si mette in carena e urla uaaaaaaaaaa
La terapia in questo caso non ha funzionato non funziona sempre.

Agades – Giornata di riposo, giornata di lavori sulla moto un pò di relax .Riposarsi un pò fa bene anche se rompe il ritmo, e riprendere è difficile. Noi avevamo affittato, come tutti i team , una villa chiusa. Da quando siamo partiti non abbiamo mai fatto una doccia, non solo a causa della difficoltà nel farla, ma sopratutto perché il freddo non lo permetteva.
Finita la speciale dopo tanta sabbia , abbiamo attraversato il fiume Niger, Vedere acqua è stata una festa e ci siamo fermati tutti a festeggiare e farci le foto.

 

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La moto era una Gilera assolutamente di serie, molto diversa da quelle ufficiali in termini di potenza e di maneggevolezza.La chiamavamo “la scrivania” tanto era largo e grosso il serbatoio anteriore, la posizione di guida era tutta arretrata e mettersi in piedi era una tortura, nelle curve si derapava ma con la ruota anteriore. Al contrario, visto che è stata la compagna di parecchi giorni, il motore non ha mai tradito, ci ha portato al fondo e e per questo motivo ci siamo tutti affezionati.

Un altro aspetto terribile era che il serbatoio in fibra di vetro, quindi delicatissimo, se cadevi da fermo si rischiava di bucarlo, e di riparazioni ne abbiamo fatte tante al volo con sapone, attack, etc. Eravamo talmente terrorizzati che quando si rischiava di cadere quasi ci si buttava sotto la moto per proteggere i serbatoi. Visto che consumavamo I’ anteriore per primo e il posteriore era di riserva ,una volta il posteriore si era bucato e così sono rimasto senza benzina perché non mi sono accorto che perdeva.

 

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TELAIO ROTTO l’ attacco del forcellone al telaio si è rotto staccandosi di netto da una parte. Brenno ed io ci siamo fermati a Tichit, piccolissimo paese in Mauritania dove abbiamo cercato un “saldeur” ovvero un saldatore. Dopo parecchio lo troviamo ma non aveva la corrente elettrica fino a sera. Tiro fuori le mie magiche cinghie , le lego sperando che il forcellone non si sposti e andando piano piano ,ormai di notte, finii la tappa.

 

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ARRIVO L’arrivo a Dakar è sempre una grande emozione, quasi una liberazione, è raggiungere l’obiettivo per cui hai tanto sudato e sofferto per tanti giorni pensando solo ed esclusivamente solo a questo. Al tempo stesso però, cominci già a sentire la mancanza di questo focus così coinvolgente, è come avere pace della fame di vivere esistenziale. Le due speciali, una con la spiaggia in riva al mare (rappresentando il viaggio dal mare del nord Francia all ‘Africa del Senegal come diceva Sabine il suo creatore) e la seconda speciale con arrivo al famoso lago Rosa cosi colorato dall’altissima densità di sale.

 

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Brenno Brignardi e i suoi “guai” alla Dakar 1991

Penultima tappa: Kiffa-Kayes – Tambacounda.
Sono stanco e come tutti, sono consumato dalla fatica e dallo stress di questa gara. L’ho voluta fortemente, sentivo di dovermi regalare questa avventura. La vivevo come un modo per chiudere un cerchio aperto tanti anni prima, nel 1976.
Un cerchio legato ad uno sport stupendo fatto di natura, motori, amici. Uno sport che era un mondo. In questa avventura africana ero in compagnia di un carissimo amico, amico sin da quando questo sport si chiamava regolarità.

La sua presenza mi dava forza e serenità. Alla vigilia della penultima tappa ero felice, dopo settimane di km, sabbia e difficoltà manca solamente una tappa. Ero quasi riuscito a portare a termine la gara più dura del mondo. Ovviamente, come tutti gli outsider, navigavo nelle retrovie della classifica ma la Dakar a quei tempi non era solo classifica, per alcuni era sicuramente importante arrivare davanti ma per molti era importantissimo e sfidante arrivare al lago rosa, al traguardo.
Fino a quel punto ero riuscito a portare a termine tutte le giornate di gara senza incorrere in penalità dovute a eccessivo ritardo al traguardo di tappa. Questo anche grazie anche all’aiuto di Aldo, grande esperto dakariano.

Nella vita, come nelle gare, mai dare niente per scontato, a maggior ragione alla Dakar. La tappa prevedeva 572 km totali, 283 km di prova speciale. Alla fine della prova speciale, il trasferimento prevedeva un percorso su una strada di laterite molto polverosa. Decidiamo di viaggiare separati fino a Tambacounda per evitare di riempirci di polvere. Ognuno di noi parte in solitaria e ci diamo appuntamento all’arrivo. Ricordo che sto viaggiando tranquillo quando a 180km dalla destinazione si rompe il mono ammortizzatore. In mezzo ad una gara così selettiva ci possono essere tanti tipi di rotture. Purtroppo il mio mono si ruppe in modo tale che non riuscii a bypassarlo collegando i leveraggi direttamente al forcellone.

Mi avrebbe permesso di avere una moto con un assetto normale, pur senza la funzione ammortizzante. Invece, è fatta: la moto è completamente sdraiata, quindi decido di continuare il mio viaggio in questo modo sperando che il copertone posteriore regga. Ma nel deserto ogni problema ne richiama altri, la ruota tocca il parafango e si consuma. Mentre viaggio mi sono voltato spesso a guardare indietro ma vedevo solo polvere e pezzi neri di copertone. Ancora oggi non so perché, non c’erano molti appigli ma lo stesso speravo in un miracolo, che ovviamente, non accadde.
Ad un certo punto, come normale succeda, rimango senza copertone.

Sensazione unica difficile da fraintendere. Mi fermo, scendo dalla moto. Osservo quel che rimane, due grossi anelli di metallo che costituivamo la spalla del copertone. Devo rimuoverli ma fra i miei attrezzi non ho quello adatto. Almeno non mi trovavo nelle dune del deserto ma lungo una strada, la carovana Dakar stava per passare di qua. Mi metto a pensare, a provare a trovare soluzioni. Sono troppo vicino alla fine per non tentare di tutto. Penso di poter aspettare la mia assistenza, di sicuro hanno una ruota e un ammortizzatore sul camion che risolverebbe la situazione. Questo significa attendere chissà quanto. Fino a quel momento ero riuscito ad evitarla, decisi quindi di arrangiarmi da solo. Mi sono fatto prestare un attrezzo per tranciare i due anelli di metallo da un equipaggio in auto che gentilmente si era fermato per aiutarmi. Alla fine, in qualche modo, sono ripartito.

Ho fatto gli ultimi 60 chilometri sul cerchione e senza ammortizzatore, cercando di guidare il più possibile in piedi con il peso in avanti, saltando e rimbalzando ad ogni minima buca, cercando di sedermi solo quando non ne potevo più. La moto era difficile da direzionare andando piano perché era il lato del cerchione a comandare la direzione e quindi dovevo cercare di tenere un’andatura sostenuta. Non ricordo le volte in cui sono caduto. Ad un certo punto ho perso anche la sella. Sono andato avanti, sostenuto da non so quale forza di volontà. Quando sono arrivato a soli quindici chilometri dal controllo orario, ormai era buio ma sentivo di avercela fatta.


Sono arrivato, come una cometa, al controllo orario. Un cometa formata dalle scintille provocate dallo strisciare della marmitta sull’asfalto, come mi hanno riferito gli allibiti testimoni oculari: uno spettacolo pirotecnico inaspettato a Tambacounda. I commissari, anche loro divertiti dal mio arrivo scenografico, mi hanno assicurato che per pochi minuti non ho preso la penalità forfettaria per essere arrivato tardi al controllo. Ero arrivato. Ero l’uomo più felice del mondo. Al bivacco, dove la mia assistenza mi stava aspettando, neanche il tempo di salutarli che mi trovo con una birra fresca in mano e vengo battezzato immediatamente dal Team Assomoto “le motard de l’impossible”.

Tratto dai ricordi di Aldo Winkler su fb

DAKAR 1991 Piloti privati e pubbliche vergogne

Articolo di Nico Cereghini

Due immagini per mettere a fuoco lo spirito dei piloti privati alla Dakar Il tedesco Brunner che spinge la sua Suzuki fin sotto il traguardo del Lago Rosa il viso ridotto ad una maschera di sangue. l’avantreno della sua moto distrutto nell’ultima caduta. E ancora Brenno Bignardi a Tambacounda dopo gli ultimi 50 chilometri percorsi su una Gilera senza ammortizzatore, senza pneumatico e senza sella: quindi seduto sul resto di quello che era stato un telaio e correndo sul cerchione posteriore. L’importante è arrivare, l’ultima pagina del road-book dice “la spaggia: bravo!” ma vale soltanto se hai un posto in classifica. Ventuno sono stati i motociclisti italiani che hanno preso la partenza a Parigi da privati: sei i piloti ufficiali, se consideriamo tale anche Roberto Boano, iscritto dalla Honda

Bonacini e Cabini

Ermanno Bonacini e Antonio Cabini

Europe sulle più evolute Africa Twin 750 Ebbene. di quei ventuno soltanto otto hanno concluso, compresi in classifica tra il ventesimo posto di Massimo Montebelli ed il trentaseiesimo di Antonio Cabini.

Ma c’è privato e privato. I piloti del team Assomoto sono ad esempio, dei privilegiati. “Si — conferma Aldo Winkler — perché possiamo contare sull’ottima organizzazione messa in piedi da Bruno Birbes: un camion ed un auto sulle piste, meccanici aviotrasportati. D’altra parte. il privato che fa tutto da sè e corre con i ricambi nello zaino non esiste più”. Non è un caso: quest’anno, con poco più di cento motociclisti iscritti alla gara, la Parigi-Dakar ha toccato il minimo storico.

Quali le ragioni della crisi? I costi. naturalmente: quei privati che puntavano ad avere il minimo indispensabile (cioé un meccanico. magari in consorzio. trasportato sugli aerei di Transair ed una cassa di ricambi affidata ad un camion in gara) hanno dovuto fare i conti con cifre proibitive. Tanto che Sabine, per arginare l’emorragia. ha promesso che l’anno venturo TSO allestirà un paio di camion per il trasporto dei ricambi dei motociclisti privati.

La quotazione ’91 per il trasporto di una semplice cassa era arrivata a dodici milioni di lire Bruno Birbes, bresciano. quarantenne, tre Dakar disputate in moto, è però del parere che le promesse dell’organizzatore sortiranno poco effetto Perché l’evoluzione naturale della gara – analizza Birbes – premia quei team. anche piccoli che sono avanzati verso la professionalità. Noi ci facciamo un vanto di portare i nostri piloti a Dakar mi resta dunque il cruccio di aver perso troppo presto Mercandelli.

Ma ho anche la soddisfazione di aver visto giusto nell’abbinare quest’anno la mia organizzazione alla Gilera. Non serve correre al limite. ma puntare su una valida meccanica e sull’affidabilità dell’assistenza al seguito. Winkler poi Walter Surini e Brenno Bignardi hanno cosi potuto correre una gara relativamente serena. E come loro anche Giampaolo Quaglino, che all’Assomoto si e appoggiato per tenere in ordine la sua Gilera privata.

Brenno Bignardi

Brenno Bignardi

Ma sono tutti piloti che possono disporre di un notevole budget, personale o raccolto attraverso gli sponsor tale da poter impostare un programma quasi garantito. Più dura ancora, quindi, e stata la bella impresa del brasiliano De Azevedo. che ha portato la sua Yamaha XT 600 alla vittoria tra le Marathon (moto strettamente di serie) ed al ventunesimo posto assoluto: chiedendo assistenza un po’ da tutte le parti ed elemosinando un pneumatico posteriore (alla Byrd) quando si è accorto a Kiffa, di guidare una moto con gli slick.

Spiegano Massimo Montebelli e Fabio Marcaccini, con le Yamaha 600 costituiti nel team Wild – anno dopo anno siamo cresciuti: da puri amatori a privati dotati di una minima organizzazione. La Dakar e sempre la gara piu dura del mondo, ma quest’anno per noi è diventata accettabile. I piazzamenti lo dimostrano. Mario Pegoraro, unico superstite di un terzetto, ha concluso al trentatreesimo posto con la Honda Dominator. Trentanovenne, era curato a vista dalla TSO dopo la squalifica del compagno Domenico Magri per assistenza-pirata. Ha concluso con un cambio che non conosceva altri rapporti oltre alla prima e alla seconda.

Pecoraro

Mario Pegoraro

Tra quelli che non ce l’hanno fatta, i più sfortunati sono Paolo Paladini e Giampaolo Aluigi, fermati a due giorni dalla conclusione da altrettante cadute nella polvere. “Ho dovuto abbandonare anche la moto — si rammaricava il primo — perché la lussazione della spalla mi ha costretto a salire sull’auto dei medici. Ora la mia Africa Twin farà la gioia di qualche nero in Mauritania”.

L’avventura di Paladini, compresa la moto, l’iscrizione e l’assistenza offerta da Honda France, era costata poco più di trenta milioni di lire. Molto di più aveva investito il veterano Beppe Gualini (aveva anche un Unimog personale di assistenza), fermato da una caduta prima di affrontare il Ténéré. Insomma la Parigi-Dakar costa cara: sarà impensabile l’anno venturo iscriversi alla gara senza prevedere una spesa di almeno quaranta milioni di lire.

Però, nonostante tutto, questo raid resta la gara africana ambita da ogni privato: perché la sua fama è grande (e per questo è un pò meno arduo racimolare tra gli sponsor il capitale), perché vedere il Lago Rosa equivale ad una laurea. Anche un esordiente ha discrete probabilità di riuscirci: bisogna però che si affidi all’organizzazione di quei team che ormai vantano una notevole esperienza dakariana. “Avventurieri del 2000 seguitemi!” diceva Thierry Sabine.

E a chi rispose all’appello di quel primo gennaio 1979, dettò le regole. Che suonavano pressapoco così. lo — diceva — vi porto dove da soli non arrivereste mai; io e soltanto io conosco quei Paesi africani, i governi e la gente. Dunque sono io che stabilisco le regole, quelle studiate a tavolino ed anche quelle che, necessariamente, andranno improvvisate giorno per giorno. Ma c’è una parola d’ordine da tenere in mente: “demerdez-vous”; e cioé — tradotta con effetto migliorativo — “sbrigatevela da soli’.

Paolo Paladini

Paolo Paladini

“C’EST L’AFRIQUE”

Era probabilmente l’unico modo per governare quel centinaio di “avventurieri”, nella gran parte sprovveduti; Thierry Sabine sapeva di doversi assumere il ruolo di “padrone” della corsa, ma sapeva anche che non avrebbe potuto arrivare dappertutto. Né gli garbava di diventare anche il “padre” dei partecipanti: sarebbe stato sommerso dai problemi individuali, dalle lamentele, dalle proteste di chi non aveva trovato il carburante nel punto stabilito, o criticava la tale nota del road-book, o ancora disprezzava la razione giornaliera delle gallette e dei succhi di frutta.

Demerdez-vous: fuori dalla cacca per conto vostro. E Thierry seppe portare avanti la sua gara senza troppi problemi: aveva una forte personalità, gratificava quelli buoni e rideva in faccia agli altri buttando lì due sentenze celebri: “c’est l’Afrique, c’est la Dakar”. Ma oggi, per suo padre Gilbert, i nodi stanno venendo al pettine. Ha due problemi, l’ex-dentista: primo, non ha la personalità del figlio; secondo, la Fisa e la Fim gli hanno cucito addosso una serie di limiti, togliendogli di fatto la paternità della corsa.

E così, mentre la sua Parigi-Dakar si è progressivamente allontanata dall’avventura per assomigliare sempre di più ad una gara, vera, Gilbert non può più cavarsela con la celebre sentenza del demerdez-vous. Perché non c’è più nessuno disposto a cavarsela da solo quando ci sono tre direttori di gara, quattro membri di giuria, regolamenti grandi come un libro, cinque elicotteri, quindici auto dell’organizzazione, duecento addetti della TSO, venti ragazze con incarichi teorici e tanto tempo da dedicare all’abbronzatura. E quando, soprattutto, i concorrenti hanno l’impressione di pagarlo tutto loro, questo faraonico carrozzone.

“EROI” SENZA NOME

Una volta c’era soltanto Thierry, a far passerella con la sua bella tuta bianca come se stesse recitando un film. Adesso ci sono dieci, venti Thierry con la stessa prosopopea e la medesima aria sognante da eroi delle dune; e neanche sai come si chiamano né cosa ci stanno a fare. Ma la cosa più irritante è un’altra: la TSO è senza dubbio più efficiente, ma non è affatto più vicina ai partecipanti ed ai loro problemi. Se un team manager è allarmato per il mancato arrivo di un suo pilota, dovrà rivolgersi a un amico giornalista per essere benevolmente accolto dal responsabile delle ricerche; se un fotografo vuole sapere esattamente dove si trova l’arrivo della prova speciale, per andarci a lavorare, otterrà risposte romantiche del tipo “segui il vento” e nessuna indicazione precisa.

E così via: quelli dell’organizzazione sembra che vivano sospesi a mezz’aria tra la campagna d’Africa e la lirica pura. Una mentalità che contagia. Gli stessi medici francesi, raccolti dalle due associazioni AMS e SOS Assistance, ne soffrono in termini allarmanti. Quando il corpo dello sventurato Charles Cabane è stato trasferito sull’aereo del rimpatrio, tolta la tenda dei medici è rimasta una larga pozza di sangue sul cemento dell’enorme hangar dell’aeroporto di Gao, lì nel mezzo nell’incredulità generale.

A chi non voleva credere che fosse proprio il sangue del povero camionista, un medico confermava alzando le spalle con indifferenza e lanciando un’occhiata distratta. Un medico che certamente, nel suo ospedale di Nantes o di Lyon, svolge coscienziosamente il suo lavoro da febbraio a dicembre; ma quando arriva la Parigi-Dakar, parte per l’avventura calandosi nella parte del guerriero dei deserti: dimenticando il rispetto per i vivi e per i morti, le più elementari norme igieniche e di convivenza civile.

Dakar 1991 | Ancora una 2×2 ai nastri di partenza

Stavolta le moto 2×2 (due ruote motrici) di turno sono quelle dei fratelli Auribault (Philippe e Erik) che hanno modificato delle Yamaha XT 600. La trasmisione aggiuntiva prende forza all’esterno del pignone catena dove è collocata una coppia conica; vi è poi un giunto cardanico con albero rigido estendibile (per consentire di sterzare) conneso al giunto sulla forcella ed alla secondà coppia conica.

Chi fosse a conoscenza di altre notizie sull’avventura dei fratelli Auribault può comunicarcele via mail a info@parisdakar.it

Il tributo a Lalay di Dune Motor

“Volevamo scrivere una lunga descrizione su come fosse nata questa moto e su cosa rappresentasse, ma alla fine rileggendo abbiamo capito che bastano poche parole. Questo lunghissimo lavoro è un omaggio al mai dimenticato Gilles Lalay, e a tutte quelle persone che direttamente o indirettamente hanno contribuito ad immaginare, realizzare e portare in gara una delle più incredibili e affascinanti moto che mai abbiano solcato le piste africane.”

Grazie a tutti loro.
Filippo e Angelo Dune Motor.

Gilera RC 600 Dakar 1991

Che la Gilera RC 600 fosse una buona moto nessuno ne dubitava. La vittoria nell’edizione precedente e l’ottavo posto assoluto (davanti a sé esclusivamente sofisticati prototipi), costituivano un ottimo biglietto da visita per la monocilindrica di Arcore. La Gilera e Medardo sono andati oltre alle attese con una prestazione assai vicina a quella dei prototipi. Con soli 560 centimetri cubi, la RC è riuscita in tante occasioni a man-tenere il forte ritmo imposto dai bicilindrici e Medardo ha anche vinto la tappa del 5 gennaio da Ghat a Tumu, la “speciale” più lunga della Parigi-Dakar.

Non tutto è andato benissimo per la Gilera: le rotture del serbatoio posteriore troppo pieno di carburante e mal fissato, alberino d’avviamento rotto sulla moto di Mandelli che ha richiesto la sostituzione del motore (automatico il cambio di categoria) e un’accensione sperimentale che ha fatto le bizze al momento di avviare i motori, oltre ad un ammortizzatore distrutto da Medardo. Alla Gilera sono però soddisfatti anche perché ritengono che la Dakar sia di grande aiuto per la produzione di serie.

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L’ing. Federico Martini
, responsabile tecnico, è assolutamente convinto della validità della formula Silhouette della Dakar. Il fatto che ci ha spinto a gareggiare nella maratona africana e in particolare in questa categoria, è costituito dallo specifico regolamento. Correre tutta la Dakar senza cambiare motore e telaio costituisce un messaggio di affidabilità assoluta verso il pubblico. Un motore che resiste a più di diecimila chilometri di continue torture senza problemi, rappresenta una garanzia per un propulsore di serie.

Nella categoria Silhouette motore e telaio sono di serie mentre il resto può essere cambiato. Per migliorare il raffreddamento abbiamo utilizzato radiatori più grossi con uno scambio termico superiore del 30%. La centralina sino a metà gara era diversa da quella montata sulla RC 600; un’accensione che dava pochissimi vantaggi in fatto di potenza ma che era utile per diminuire le emissioni inquinanti. Può apparire strano montare una simile accensione senza in sostanza ricavare dei vantaggi ma anche questa scelta è fatta in previsione di un utilizzo sulla RC di serie Se l’accensione resiste alla Dakar vuol dire che andrà bene in tutte le altre condizioni.

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L’abbiamo sostituita da metà corsa in poi una volta acquisiti i dati di affidabilità. I problemi elettrici sono venuti da un’errata scelta di batterie e da un impianto elettrico che durante i test era perfetto, mentre in Africa non si è rivelato tale. Questa particolare centralina determina l’anticipo d’accensione secondo il numero dei giri e la diversità di pressione all’interno dei condotti d’aspirazione. a valle della valvola a farfalla del carburatore a depressione. — Dove è stata modificata la moto rispetto a quella della precedente Dakar? La gara dello scorso anno ci aveva dato importanti indicazioni: eravamo a posto come motore e telaio, mentre la maneggevolezza doveva essere migliorata. Poiché eravamo sicuri in termine di affidabilità del motore, ci siamo spinti a incrementarne le prestazioni. Abbiamo ripreso le modifiche introdotte sul propulsore di serie del RC 91.

Nuovi alberi a camme più spinti, pistone dal disegno rivisto, valvole maggiorate e carburatori di maggior diametro (30 mm). Abbiamo lavo-rato molto sugli impianti di aspirazione e scarico per estrarre dal motore tutto il suo potenziale. Nonostante il rapporto di compressione sia stato abbassato per usare benzine a basso numero di ottano, abbiamo riscontrato sette cavalli in più rispetto alla moto precedente. Ora siamo sui sessanta cavalli all’albero con un consumo che varia moltissimo secondo le condizioni del terreno di gara. Si va da un massimo di 6,5 litri sulla sabbia molle sino ai 9 del terreno duro. Non consuma poco, è vero! Un monocilindrico deve essere sempre spremuto al massimo per rimanere vicino alle prestazioni dei bicilindrici e quindi acceleratore sempre tutto aperto; condizioni estreme anche per il consumo. In totale la capacità dei serbatoi è stata aumentata a quasi sessanta litri, dieci in meno dei bicilindrici.

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Non è un gran vantaggio. È un po’ leggenda il dire che il mono sia più facile e leggero dei bicilindrici. La differenza di peso è al massimo di dieci chili a favore del mono e quindi non è rilevantissima. Per migliorare la maneggevolezza e la facilità di guida abbiamo rivisto la distribuzione dei pesi e il posizionamento dei serbatoi carburante. Le sospensioni sono nuove, le Kayaba giapponesi, montate anche sulla RC-A di serie. L’ammortizzatore è proprio quello standard modificato solo in tre lamelle interne per adeguarlo al maggiore peso della moto dakariana, per alleggerire il quale abbiamo usato qualche materiale leggero” ma niente di speciale. Tessuti di kevlar e carbonio per la carenatura – RC17serbatoio posteriore e per il cupolino, titanio per i fissaggi della sospensione posteriore del motore e le pedane. Ergal per i mozzi ricavati dal “pieno”.

Inoltre abbiamo rotto, ed anche questo inconveniente ce lo aspettavamo, il trave anteriore dove si fissa il motore. Fra previsto e subito lo abbiamo risolto, poiché per aumentare la luce da terra abbiamo tolto il telaietto che passa sotto il motore. In questo modo il propulsore lavora effettivamente come elemento stressato solle-citando il telaio. Per questo motivo abbiamo irrobustito i tiranti del motore aumentando-ne il diametro sino a 10 mm, rinforzando contemporaneamente le alette di attacco sul motore. Non abbiamo rotto più tiranti e carter motore, carne invece succedeva lo scorso anno; per contro ha cestito con una piccola crepa il telaio. Questo ci ha fatto capire che il motore può lavorare come elemento stressato e probabilmente useremo la stessa soluzione anche in serie, strutturando debitamente il trave anteriore del telaio Ed anche questa è un’altra efficace informazione da riportare sulla produzione di serie.

Altre rotture sono state quelle dei serbatoi posteriori in materiale composito. Erano tutti pezzi nuovi, finiti in pratica il giorno prima della partenza i serbatoi hanno avuto problemi di tipo meccanico. La sospensione posteriore tamponava un po’ troppo, tanto da far toccare la pinza del freno a disco con la parte interiore dei serbatoi. In fase di progetto avevamo previsto un gioco di 20 mm tra pinza e serbatoio ad escursione completa della ruota posteriore. Nei tamponamenti più decisi la pinza toccava; con inevitabili rotture. Questo vuol dire che sia il forcellone sia il telaietto che li sorregge cedevano, si piegavano leggermente. Modificata la taratura delle sospensioni, il problema è scomparso. Per contro è diminuito il comfort dei piloti e le moto saltavano un po’ troppo sulle buche.

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Si sono evidenziate delle piccole crepe sui serbatoi anteriori in alluminio a causa delle numerose saldature, la carrozzeria si rotta è rotta solo per le cadute, mentre non riusciamo a spiegare il motivo della rottura dell’albero di avviamento di Mandelli, perché proprio questo particolare era stato analizzalo a fondo. E’ stato cambiato anche il motore a Sotelo, perché si era bruciata la frizione per mancanza di gioco alla leva. Tutto il materiale di attrito dei dischi si é sparso nel motore ed un pezzo è andato a bloccare la valvola di sovrapressione del circuito di lubrificazione. Risultato: cotto bronzina sulla lesta di bella. Per il resto nessun altro problema meccanico ad eccezione della vaschetta dell’ammortizzatore frettolosamente fissato sulla moto di Medardo. —

La vostra moto esteticamente era la più riusata. tra tutte quelle che hanno corso, e forse anche la più aerodinamica.
«Si abbiamo curato molto l’estetica ma anche la protettività del pilota. Siamo partiti date dimensioni della scatola filtro, e abbiamo costruito intorno tutta la moto. Abbiamo cercato di proteggere I pilota per dargli un maggiore comfort. Meno si è stanchi, più forte si va e si commettono minori errori. La moto doveva essere la più Piccola possibile compatibilmente con le dimensioni del pilota. L’altezza del cupolino e quella de: plexiglass ha avuto come unico scopo quello di proteggere dalla pressione dell’aria il pilota Abbiamo invece scelto i fari omofocali per abbassare tutta la zona del cruscotto e la strumentazione, e garantire una maggiore visibilità. Inoltre questi fari assicuravano anche una migliore luminosità e quindi più sicurezza a chi rimaneva di notte nel deserto. La forma posteriore è dovuta al compromesso tra la maggiore capienza possibile e il minore ingombro per le gambe del pilota. Nel codone era posta la bussola, ed una batteria di soccorso. La forma dell’intera carenatura è stata studiata senza il conforto della galleria del vento. Ora proveremo la moto anche in queste condizioni; vogliamo essere pronti per tempo.

Si può quantificare il costo delta operazione Dakar?
Solo di materiale puro superiamo cento milioni per moto, ma tutta l’organizzazione ha ben altri e maggiori costi. Stiamo valutando se è possibile costruire un piccolo numero di repliche della RC Dakar. La cifra dovrebbe aggirarsi sui sessanta milioni e sarebbe comunque un prezzo politico. La differenza di costi sarà assorbita dalla fabbrica»

Sarete presenti anche nella prossima Dakar? «Sicuramente sì. Le condizioni che si incontrano alla Parigi-Dakar sono praticamente irripetibili, sia strumentalmente sia nelle normali condizioni di collaudo delle moto. Con la gara africana possiamo verificare molte parti della moto di serie» anche se la prossima Gilera RC non gareggerà più nella Silhouette. Costruiremo un prototipo con una cilindrata vicina ai 650 cc anche se probabilmente l’affidabilità non sarà più garantita al cento per cento».

Fonte Motociclismo Aprile 1991

Sfortunata Dakar 1991 per Gualini

L’anno precedente è stato il migliore dei privati, nel 1991 deve cercare ora di conservare il platonico titolo. Un compito, non facile per il trentasettenne pilota bergamasco, che comunque ha dalla sua la partecipazione a sette Dakar e ad una trentina di rally Gualini 1991africani. Ha un’esperienza invidiabile unita ad una grande abilità nelle pubbliche relazioni.

Passato alla Honda dopo anni con la Suzuki, gareggia in sella ad un’Africa Twin nella marathon non avendo avuto il tempo di preparare la moto per la categoria proto: l’accordo con l’importatore italiano infatti è stato raggiunto solo all’ultimo momento, tanto che il simpatico «Gualo» (ma il suo vero nome è Giusi) ha dovuto saltare il Faraoni. Per l’assistenza dispone di un camion Mercedes Unimog guidato da Dell’Anna e De Podestà, provenienti dal Camel Trophy, e di Claudio Macario, meccanico aviotrasportato.

Fonte: Motosprint
N.d.r. Beppe Gaulini si ritirò dopo solo 3 tappe rimediando una frattura alla clavicola.
Ringraziamo Roberto Panaccione che ci ha fornito le immagini