Dakar 1987 | Cagiva XD10 la “cafona”

Quella dell’86 fu la gara più amara in assoluto per la squadra varesina: a pochi chilometri dall’arrivo, quando sembrava che la grande corsa fosse finita, Giampaolo Marinoni seguiva la sorte di Sabine, dipingendo di nero l’edizione più tragica della Dakar. Nel suo ricordo, per onorarlo nel sacrificio dello sport, la Cagiva si ripresenta con quella che, almeno sulla carta, è una delle squadre più forti.

De Petri e Auriol puntano sugli 80 CV del Ducati CAGIVA la più potente

Quattro piloti: i due francesi Auriol e Picard ed i nostri De Petri e Gualdi, e due staff al seguito: uno in pista capitanato da Vismara che guiderà anche uno dei quattro mezzi d’assistenza ed un altro, comprendente anche un medico, sull’aereo dell’organizzazione. Gli uomini non abbisognano di grandi presentazioni: Auriol ha già vinto due volte; De Petri lo scorso anno ha vinto sei tappe e cinque successi li ha colti nell’ultimo Rally dei Faraoni; Gualdi, ex regolarista, debutta in Africa ma vanta successi nei campionati europeo ed italiano d’enduro e nella «Sei Giorni».

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Il francesino Picard è il gregario ideale, sempre pronto a sacrificarsi per il suo «capitano». Le moto sono le rinnovate Cagiva 850. Il motore bicilindrico Ducati con i suoi 80 CV consente loro di raggiungere un velocità massima nel deserto di 185 Kmh, nonostante il peso a pieno carico, quindi anche con i 65 litri di carburante distribuiti nei due serbatoi, sia di 230 Kg.

elefant_87Dopo gli ultimi test, da parte dei piloti c’è la ferma convinzione che la moto disponga dell’affidabilità indispensabile per inserirsi di prepotenza nella lotta tra le bicilindriche, dominata finora da BMW ed Honda. Il prototipo che partecipa alla Paris – Dakar del 1987 viene profondamente rinnovato, per alimentare la cavalleria del motore Ducati la moto viene dotata di una carenatura integrale che comprende anche il serbatoio del carburante. Un serbatoio supplementare fa anche da sostegno per la sella.

Il risultato è un mezzo compatto ed efficacissimo sulle piste africane e, mentre una squalifica mette presto fuori gioco la coppia italiana Alessandro “Ciro” De Petri – Franco Gualdi, Hubert Auriol, coadiuvato nelle prime fasi da Gilles Picard, giunge alla penultima tappa (in pratica all’ultima, vera, speciale) in testa alla competizione seguito da Neveu su Honda.

Ma una stupida radice nascosta nella sabbia di una piantagione senegalese toglie di mezzo “Hubert l’africano”, agganciandone un piede e facendo perdere l’equilibrio al pilota che, così, va a sbattere contro un albero. Il francese ne riporta entrambe le caviglie spezzate e, dopo aver superato notevoli difficoltà per tutta la gara ed essere, anche in queste condizioni, riuscito a tagliare il traguardo, viene costretto al ritiro. Le immagini televisive di Auriol piangente dal dolore fanno il giro del mondo e lo elevano a vincitore morale di questa edizione della corsa.

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Immediatamente viene presentata sul mercato motociclistico una sorta di “Auriol replica”, come la definisce la rivista francese “Motoverte”, ovvero una Elefant che, a grandi linee, riprende l’impostazione della moto da gara. In realtà la moto in vendita al pubblico non è altro che la moto dell’anno precedente dotata di parafango basso e di carburatori Bing a depressione che ne addolciscono l’erogazione. Il richiamo estetico alla moto africana viene affidato alla carenatura integrale con il monofaro ora non più solidale alla forcella. Importante differenza è invece l’adozione del motore di 750 cc.

Tratto da Rombo 1987

In ricordo di Hubert Auriol

Tratto da GPONE il ricordo di Carlo Pernat

“Hubert Auriol era un signore e un amico, una persona che mi ha insegnato tanto, sopratutto nelle relazioni esterne. Era sempre sorridente e con la battuta pronta”. Carlo Pernat ricorda così il re della Dakar, il primo pilota ad averla vinta sia in moto sia in auto. Uno dei miti di quel raid circondato dalla leggenda.

Il rapporto tra Pernat e Auriol non era stato solo professionale, sulle piste dell’Africa era nata un’amicizia durata negli anni. “Ero in Aprilia quando ed ero stata invitato in una trasmissione tv a Parigi, il lunedì dopo il Gran Premio di Le Mans – racconta ancora Carlo – Finito di registrare, erano verso le 23, ci venne in mente di telefonare a Hubert per andare a mangiare qualcosa tutti insieme, a quei tempi aveva un ristorante. Mi rispose che era già a letto, si rivestì e venne con noia mangiare una pizza”.

Il loro rapporto iniziò quando il pilota francese fu ingaggiato dalla Cagiva per correre la Dakar.

“Mi presentarono Auriol ne1 1985. Era già un mito e fu importante per ottenere le sponsorizzazioni – continua Pernat – Ricordo che Ligier mi aveva detto di andare alla Tour Elf a Parigi, garantendoci che ci avrebbero dato i soldi per la sponsorizzazione. Io non ci credevo, ma andammo: ci offrirono il pranzo e poi andammo nel cinema privato a vedere dei filmati della Dakar. Alla fine mi dissero: qui c’è un miliardo per la gara. Fu grazie a Hubert se li ottenemmo”.

Hubert, nato ad Addis Abeba, conosceva i segreti dell’Africa e li costudiva gelosamente. ” Il suo asso nella manica era la Mauritania, anche se non ho mai capito il perché – confessa Pernat – Praticamente lì, in ogni tappa, aveva mezz’ora di vantaggio su tutti. Gli chiedevo come facesse e lui mi rispondeva che seguiva le tracce degli animali”.

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L’avventura con la Cagiva durò 3 anni, ma il destino volle che non fosse coronata dal successo. Nel 1987 sfumò quando sembrava scontato. “Avevamo praticamente già vinto la Dakar, avevamo un’ora e mezzo di vantaggio all’inizio dell’ultima tappa, che è solitamente è una passerella sul Lago Rosa – il ricordo di quel giorno è ancora vivido nella mente di Carlo – Tutto era nato la sera prima al bivacco. Nel corso dell’ultima tappa si passava su delle rotaie dismesse e Roberto Azzalin, il capotecnico, e Auriol litigarono sul fatto se usare o no le mousse per gli pneumatici. Non ricordo cosa decisero, ma che fu Hubert ad averla vinta, però poi durante la tappa forò 3 volte”.

La sfortuna non era finita.

“Mi raccontò poi che aveva battuto con la caviglia contro una specie di alberello nascosto, dall’altra parte c’era un sasso e andò a sbattere anche contro quello. Le due caviglie erano aperte, non riuscivamo nemmeno a levarli gli stivali, non ho mai capito come abbia fatto a guidare per altri 30 chilometri in quelle condizioni. Una cosa mi è rimasta particolarmente impressa. Lo avevamo caricato sull’elicottero che lo avrebbe portato all’aeroporto da cui poi sarebbe partito per la Francia. Hubert piangeva e mi ripeteva: “di’ a Castiglioni che abbiamo battuto la Honda”.
Quella è stata una delle poche volte nella mia vita in cui non son o riuscito a trattenere le lacrime

Anche dopo quella sconfitta, Hubert non si abbatté.

“Auriol era molto professionale. Claudio organizzò un volo privato per Parigi con alcuni giornalisti per fargli visita in ospedale. Hubert ci ricevette con la maglia della squadra, non con il camice. È una delle persone che hanno contato di più nella mia vita e nella mia carriera, ho imparato tanto da lui’ conclude Pernat”.

DAKAR 1987 | 12.000 km invece di 15.000 scompare la notte

Soppressione delle tappe notturne; limitazione a 800 Km per la lunghezza massima delle tappe giornaliere. Nonostante le limitazioni e a dispetto del fatto che la lunghezza totale sia scesa di circa 3000 chilometri passando a Km totali, per Rene Metge, vincitore ’86 e da quest’anno tracciatore del percorso per conto degli organizzatori, la Paris-Dakar avrà ancora il fascino terribile della durezza che è poi la ragione del suo successo.

Questo perché è aumentata la lunghezza delle prove speciali, cioè di quei tratti di percorso in cui il tempo impiegato dai piloti è cronometrato e discriminante ai fini della classifica. Sono calati invece i lunghi trasferimenti giornalieri, quelli che servivano ai piloti per spostarsi da una p.s. all’altra Dopo un via simbolico a Milano, presso il centro II Girasole il 27 dicembre, e il prologo a Cergy il 31, la gara partirà il 1 gennaio da Versailles. Salvo l’imbarco che si effettuerà da Barcellona invece che da Sete, in omaggio alla città spagnola sede delle Olimpiadi 1988, le prime tappe algerine attraverso El Golea e In Salah saranno simili alle passate.

Poi a Tamanrasset, nel cuore dell’aAlgeria, cominceranno le prime grosse difficoltà con una tappa molto difficile tra gole montuose strette e gli ultimi 350 Km su tolé onduleé che mette a dura prova la resistenza meccanica delle auto. Tutto ciò per scremare il gruppo dei 500 partecipanti. Tamanrasset-Arlit sarà la prima p.s. tutta nuova, con alternanza di deserto e montagna. Da Arlit, il 8 gennaio si andrà all’ex albero del Tenere ribattezzato albero Thierry Sabine da quando le ceneri del fondatore della Dakar furono sparse proprio in quel luogo mitico. E proprio all’ombra (teorica) dell’albero la gara farà tappa di notte.

Per proseguire, attraverso il deserto del Tenere, verso Dirkou senza l’aiuto delle balise di segnalazione che nel deserto tutto uguale aiutano a non perdere la pista. Il riposo è previsto ad Agadez, il 11 gennaio. Dopo Agadez, a 90 Km da cui gli oganizzatori annunciano una «sorpresa» (che non si preannuncia piacevole), la gara entrerà nel Sahel, ovvero la savana. Finisce il deserto, resta la sabbia tra arbusti e cespugli dove è ancora più difficile orientarsi perché i punti di riferimento e le tracce invece che mancare sono troppi e fanno confondere le idee. Qui i piloti cominceranno a prendere in mano bussola e cartina per orientarsi nei 70 Km di vegetazione da Niamey a Gao, nel Mali.

Da Tombouctou a Nema, al confine con la Mauritania, ancora navigazione a bussola per almeno 300 Km e gli unici riferimenti per orientarsi saranno le tracce degli animali. A Tidijka gli organizzatori prevedono che molti passeranno un giorno intero attorno a un villaggio per trovare la strada giusta. A Richard Toll si esce dal deserto mauritano per le ultime difficoltà (l’anno scorso si decise qui la gara dei camion) e l’arrivo sarà il 22 gennaio sulle sponde del lago rosa di Dakar. La piantina del percorso: di nuovo c’è l’imbarco a Barcellona, la scomparsa delle dune di Agadem nel Tenere, l’esclusione della Guinea ed il passaggio da Tombouctou

DAKAR 1987 | Dal cross al fascino del deserto

Già negli anni precedenti Michele Rinaldi aveva lanciato il proposito di partecipare alla Dakar, attirato dal fascino che circonda questa gara ma soprattutto dalla possibilità di «viverla», nei pochi momenti liberi, a stretto contatto con tutti gli altri partecipanti. Rinaldi era anche arrivato ad ipotizzare una sua partecipazione nei panni del pilota privato, nonostante sia abituato a vestire i panni del «super ufficiale» nel cross.

 

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Dalla Suzuki, invece, durante l’autunno gli arrivò la proposta di partecipare con moto ed assistenza ufficiale nel team allestito in Francia dai fratelli Joineau. «È stata la Suzuki a chiederlo – dice l’ex campione del mondo – visto che conosce-vano il mio desiderio di partecipare e vogliono cercare di fronteggiare la concorrenza che proprio da queste gare ha trovato grossi sbocchi commerciali».

 

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Hai già fatto qualche esperienza di guida in Africa?
«Soltanto durante alcuni test in Tunisia. Il problema maggiore, a parte quelli d’orientamento, viene dal peso e della velocità della moto. Quando acceleri sulla sabbia derapa da tutte le parti e ci vogliono buoni muscoli per tenere stretta una moto che pesa quasi il doppio di quella da cross. Per abituarmi tutti i giorni ho fatto un pò d’allenamento assieme a Balestrieri, una volta anche di notte. Comunque la Suzuki 651 anche se è stata preparata bene non è una moto vincente contro le varie pluricilindriche e neppure io mi sento in grado d’ambire al successo».

 

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Come è stata cambiata la Suzuki rispetto al modello di serie?
«Il telaio è quello di serie. Sono state cambiate la forcella ed il sistema del monoammortizzatore. Sul motore ci sono una nuova testa, cilindro e marmitta per portare la cilindrata a 651 cc, inoltre il raffreddamento è ad olio come sulle Suzuki stradali e non più ad aria».

Gualdi, il tedesco di Bergamo

Nato nel 1957 a Bergamo, Franco Gualdi si avvicinò al mondo delle moto per la passione trasmessa dal padre che correva in sella a Motobi, MV e Devil e così da giovanissimo prese parte alle primissime gare di enduro regionali. La sua biografia racconta di due sole Dakar, una delle quali nemmeno terminata e di una solida carriera nell’enduro.

Si guadagnò l’appellativo “Il tedesco di Bergamo”, per la sua guida impeccabile e per la precisione con cui studiava i percorsi. Come punto di partenza per la sua carriera da professionista, diciottenne, scelse di entrare nel gruppo delle Fiamme Oro dove conobbe Azzalin, anche lui attivo nello stesso corpo, ma con qualche anno in più: quando entrò Gualdi, Azzalin era uno dei “vecchi” che stavano smettendo di correre.

Franco fece le prime gare con la Sachs, dal 1974 al 1978, per poi passare a moto italiane.

Era il 1984 quando si avvicinò alla Cagiva, che lo volle per partecipare alla famosa Baya 1000, in Spagna: il suo compagno di squadra fu Gian Paolo Marinoni, ma con loro c’erano anche Roberto Azzalin e Ostorero. Se questi ultimi affrontarono la gara con come unico obiettivo quello di divertirsi, Gualdi e Marinoni, invece, avevano sete di risultati importanti.
La Baya era una gara con due anelli di 500 Km e il primo che arrivava, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, avrebbe vinto. Ogni 70 Km c’erano punti assistenza di tipologie alterne: uno di rifornimento, l’altro di meccanica.

La gara era a luglio e il percorso non era segnato con il road book. Quell’anno c’era Gaston Rahier, che era un pò il “padrone” del bicilindrico. Gualdi ad un certo punto se lo ritrovò davanti, superandolo su un tratto di strada molto tecnico e più affine ad un endurista come lui, che ad un crossista come il Belga. Poco dopo, con l’esuberanza tipica della sua giovane età, Gualdi arrivò lungo ad una curva e uscì fuori strada: non cadde, ma prese una grossa roccia e la piastra superiore della forcella si spezzo. Ma Gualdi non si arrese: prese una cinghia, la usò per legare la piastra al canotto di sterzo e riparti. Lui e il suo compagno arrivarono in fondo staccando un ottavo posto assoluto, alle spalle dei loro rivali in BMW.

 

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La sua prima partecipazione alla Dakar è datata 1987: Auriol e De Petri erano i piloti di punta, mentre Franco e Picard erano i loro gregari. In una tappa, la moto di Gualdi era come morta: pista larghissima, di 2 km e tutti i piloti passavano l’uno lontano dall’altro. Rimase fermo, con la paura che l’assistenza non lo vedesse.
Lasciò la moto a terra e posizionò la giacca a 300 metri, in modo da farsi notare senza rischiare la vita. Inizio a smontare la moto ma senza trovarne il guasto, finche verso sera arrivò il camion assistenza e caricarono la lui e la moto. Arrivarono al campo alle 2 di notte, a pochi km dall’arrivo. Gualdi, nascosto nel camion in mezzo alla moto e alle gomme, attraversò così il traguardo.

Scaricarono poi la moto e fecero un intervento di cambio motore. Alle 5 del mattino, prese la sua Cagiva, tornò indietro da una pista esterna, riagganciandosi così alla principale e tagliò il traguardo. Ormai era tardi e mancava solo un’ora alla partenza della nuova tappa, così bevve in fretta un sorso d’acqua, si diede una sciacquata e riparti subito per la tappa successiva. In generale, quella fu un’edizione sfortunata per Gualdi: bastava un’inezia e la sua moto era ferma e in più, la Cagiva era davvero impegnativa. Aveva il baricentro molto alto e il peso e la velocità non perdonavano: nel caso di cadute, risollevarla era una fatica, anche per i fisici più allenati.

Partita male, la gara non poté che proseguire peggio. A pochi km dall’inizio, trovò il collega Ciro con il cambio rotto: si fermò e gli diede una mano a sistemare la moto. Rimontarono per errore i due serbatoi scambiati e – proprio prima che se ne accorgessero e li invertissero-qualcuno passò e scattò una foto. Quell’anno passò agli annali per la loro squalifica, che arrivò subito dopo questo fatto e proprio a causa di quello scatto, dove si vedeva chiaramente una moto con il numero 99 sul frontalino e il numero 97 sui laterali, che venne usato come prova a dimostrazione di uno scambio di moto che non poté mai essere concretamente provato.

Fu una sorta di punizione divina: il team Cagiva non era propriamente un esempio di ligio rispetto dei regolamenti, ma non veniva quasi mai punito per mancanza di prove. Quella volta, invece, i protagonisti giurarono di non aver fatto nulla di scorretto, ma vennero penalizzati sulla base di una foto che non dimostrava nulla. Non ci fu comunque possibilità di appello, dal momento che la squalifica non arrivò subito dopo la gara, né il giorno seguente, che era di riposo, ma alle sette del mattino del giorno dopo ancora, poco prima che iniziasse la tappa.

Azzalin non poté fare altro che prendere atto della squalifica e De Petri e Gualdi rimasero fermi, con la minaccia che, se avessero provato a percorrere anche un solo chilometro, sarebbero stati squalificati per “assistenza indebita” anche i due compagni di squadra ancora in gara. Visto che Auriol era in testa, non valeva la pena rischiare, così i due gregari ripartirono per l’Italia e il giorno seguente, si ritrovarono in prima pagina sull’Equipe per una furbata che non avevano mai compiuto, e che, ovviamente, non avrebbero mai ammesso. Nel 1987 Gualdi si dedicò alla Proto: ci salì, la guidò, la sviluppò e la rese affidabile. Fece un ottimo lavoro sui carburatori, assieme a Franco Farnè: uno addirittura lo bucarono per capire il livello della benzina.

Farnè recuperava la benzina in esubero dal carburatore e la rimetteva nel serbatoio con un tubicino. Alla fine prepararono circa 20 carburatori: il Weber era il top, davvero micidiale appena si spalancava la manetta del gas. Provò poi le forcelle in Tunisia, assieme a Ciro, nella terra di nessuno, mentre a Savona e sulla scarsamente trafficata Gravellona Toce, fece i con i test delle mousse della Michelin. Gualdi andava a chiodo, ai 100 Km/h, poi tornava indietro e i tecnici testavano le gomme. Il problema, che rimase irrisolto anche durante la Dakar, era che a 170 / 175 Km/h si staccavano i tacchetti della ruota.

Mentre provava, Gualdi dovette fare un’ inversione ad U: la moto si spense e pareva non voler più a ripartire. Arrivò la polizia stradale e lo trovò lì, in mezzo alla strada, con un bolide senza nemmeno la targa. La fortuna di Franco fu di essere un collega delle Fiamme Oro: un saluto veloce ed era già diventato il loro idolo. Gli diedero addirittura una spinta e così riuscì a riavviare la moto. Cose che allora si facevano tranquillamente, ma oggi sarebbero impensabili… Nel 1988, si ritrovò quasi senza rendersene conto alla Dakar: partito da gregario di De Petri, fu l’unico dei piloti della Cagiva a concludere la gara. Era alla sua seconda partecipazione, come sempre faceva assistenza e non si illudeva di fare grandi risultati.

 

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Ciro avrebbe sicuramente potuto vincere qualche Dakar, se non avesse sempre voluto superare il limite: pur sapendo che a più di 170 Km/h le gomme si strappavano, lui non rallentava mai e così le squarciava. Toccava poi a Franco recuperarlo, in pieno Sahara: certo, anche a lui sarebbe piaciuto andare più veloce, magari nella speranza di recuperare 15 minuti, perché quel deserto sembrava asfalto, ma invece andava a 150 Km/h in sicurezza. Tanto sapeva che poi avrebbe trovato De Petri con le gomme scoppiate: lui si fermava e gli dava la sua gomma e, con questo giochetto, Ciro manteneva una buona posizione in classifica, mentre lui scivolava sempre più indietro.

Una volta incontrò Ciro che aveva un diavolo per capello, andava a 90 Km/h e imprecava contro se stesso e la sua moto: il motore andava a uno, e passandogli vicino, Gualdi si accorse subito che aveva la pipetta della candela staccata. Non fece in tempo di segnalargli il guasto, che non lo vide più, perché era partito a fuoco: 50 Km con un solo cilindro e poi gli diede paga. Ciro era così: da alcuni punti di vista davvero incorreggibile. Il team Cagiva era rispettato e temuto: De Petri alla fine si ritirò e Azzalin chiamò Franco e gli disse di fargli vedere di cosa era capace. Era a cinque ore dal primo e voleva quantomeno arrivare a fine gara con lo stesso distacco, senza però fare il matto per recuperare il tempo perso.

Azzalin gli diceva di attaccare e lui cercava di fare del suo meglio, ma senza strafare: alla fine arrivò sesto. Era davvero soddisfatto del risultato: a conti fatti, se non ci fossero state tutte quelle soste per aiutare gli altri, probabilmente avrebbe potuto raggiungere un risultato ancora più importante. Franco teneva un diario durante la Dakar, in entrambe le edizioni: quando alla sera arrivava al campo, scriveva qualche riga. A fine gara, lo riponeva ed oggi ammette che furono proprio quegli scritti a indurlo a non partecipare più a quella gara, meravigliosamente maledetta.

Conservò dei ricordi stupendi, ma su quei diari scrisse parecchie cose che nessuno ancora sa: un giorno, magari, li tirerà fuori e li renderà pubblici. Gualdi fu sempre molto saggio e non lasciò mai nulla al caso: se per cambiare la gomma servivano tre leve, lui cercava di averne quattro piuttosto che due; se la moto aveva un limite, sapeva che era meglio non stuzzicarla; se il cambio era delicato, era decisamente consigliabile guidare con attenzione; evitava di superare nella polvere, per non rischiare di prendere un sasso che non avrebbe potuto vedere.

La sua filosofia era: “Tirare i remi in barca e portare a casa il risultato.” Certo, questo approccio, alle volte lo frenò dal raggiungere successi più importanti, ma lo portò sempre in fondo ed oggi, tutto sommato, lui è contento così. Stare nel Team con Cagiva fu un’esperienza indimenticabile: in ogni situazione, si faceva il possibile e anche l’impossibile. Arrivare al bivacco era già un buon risultato per Gualdi e da quel momento, iniziava il lavoro dei meccanici. Probabilmente, poi, rischiavano più loro dei piloti, facendo i trasferimenti con quegli aerei poco probabili!

Anche con Azzalin, Gualdi aveva un bel rapporto: addirittura alla prima Dakar era previsto che dormissero in tenda insieme, ma durò solo una notte, perché Roberto russava a tal punto da non far chiudere occhio al pilota e svegliando perfino se stesso di soprassalto. Dopo quella prima sera, Azzalin andò a dormire sotto il camion per permettere a Franco di riposare. Forte di tutte le esperienze che condivisero, l’amicizia fra loro si rinsaldò: oggi, guardando indietro, per Gualdi la Cagiva era incarnata in Roberto Azzalin. Conobbe ovviamente anche Claudio Castiglioni, ma non entrò mai nel suo mondo e il loro rapporto rimase sempre formale e legato a pure questioni di lavoro.

Lo stipendio di Gualdi era dato in parte anche dal suo ruolo di collaudatore: col passare degli anni, non era più all’apice della carriera come endurista e, cavandosela bene come meccanico, portò avanti lo sviluppo di moto e di motori che poi divennero di serie e di un 750 monocilindrico che non venne mai realizzato. Aveva una buona sensibilità e gli piaceva provare fino ad ottenere un risultato finale soddisfacente, come fece con le forcelle Marzocchi o con un motore da 45 cavalli che riuscì a portare a 50. I meccanici erano a sua completa disposizione, qualunque cosa dicesse o chiedesse. Fece però un lavoro relativamente breve: trasmise quello che poteva ma tutti i test venivano fatti con Ciro De Petri: era lui l’uomo di punta e la moto veniva fatta in base alle sue esigenze. Gualdi doveva testare quello che Ciro voleva: gli chiesero di sistemare alcune cose, ma alla fine era De Petri che decideva.

L’arrivo di Orioli fu determinante per la crescita delle Cagiva: si partì da un motore Ducati, lo si portò al massimo della potenza e si lavorò sull’affidabilità. Sulla moto del 1987 sarebbe bastato un 750, anziché un 850, ma con lo sviluppo non si poteva tornare indietro, e con quella moto Ciro vinse tanto. E se nel 1990 si arrivò a vincere, fu certamente anche grazie al grande lavoro fatto in termini di crescita e sviluppo. A quel tempo i francesi erano i big, mentre gli italiani non erano ancora pronti per vincere una Dakar. De Petri era il migliore dei nostri, tuttavia chiunque era consapevole che il pilota da battere non era lui, ma i francesi, come Auriol.

Quando Gualdi ebbe occasione di averlo come compagno di squadra, ne approfittò per rubargli qualche segreto e la sua guida migliorò sensibilmente. Hubert si rivelò un uomo serio, più attento e preciso che veloce. Però era un “francese”: di lui, come di tutti i suoi connazionali, Gualdi imparò a non fidarsi mai troppo, perché i cugini d’oltralpe sono un pò gelosi della Dakar. La ritengono una gara loro. Gli italiani invece erano tutti un pò particolari: buoni e scaramantici, pieni di rituali, come quello di De Petri che tutte le sere si faceva preparare l’acqua calda da Forchini, il suo uomo di fiducia, per lavarsi la testa.

Gualdi affrontò anche molte altre competizioni, come il rally del Titano, però la Dakar rimase sempre una gara unica: tutti gli altri passarono in secondo piano. Da un’edizione si portò a casa tutti i road book con l’intenzione di rifarla da turista, con calma, facendo le tappe non in 5 ore ma in 12, guardando i posti meravigliosi che non riuscì a vedere da pilota. Non lo fece mai. Da pilota non c’era tempo di pensare troppo, rifletteva solo alla sera, una volta raggiunto il traguardo. Una volta Franco finì in un paesino sperduto, dove tutti erano nudi e lo guardavano come un alieno. Le donne e i bambini si rifugiarono nelle case e rimase solo un uomo che capiva il francese: Gualdi non era il primo straniero che vedevano; cercò di farsi dare delle indicazioni e poi se ne andò.

Si ripromise che ci sarebbe ritornato, ma non lo fece mai. La gara comportava dei rischi, ovvio, ma era anche gioia e divertimento, e la parte pericolosa era sempre minore rispetto a tutte le situazioni positive e indimenticabili. Ancora oggi, molte volte Gualdi si chiede perché correva e si risponde che non era per l’adrenalina e la voglia di rischiare. ll rischio c’era, ne era consapevole e faceva parte del gioco, ma non lo cercava per forza. Era consapevole che ogni volta che partiva avrebbe potuto essere l’ultima, ma non si divertiva a sfidare la morte per il gusto di farlo.

Partiva e basta. La Dakar non era certo la situazione più sicura del mondo: non si dormiva, non si mangiava, si soffriva… ma si conoscevano le persone per quello che erano, senza maschere. E poi, quando si tornava, ci si ritrovava con il “mal d’Africa”. Solo chi ha vissuto esperienze come quelle può comprenderlo e Gualdi lo conosce ormai benissimo: il senso di malinconia e nostalgia per quei luoghi lo accompagnerà per tutta la vita.

Dakar 1987 – Belgarda, fiducia nel mono

Dopo il forfait di Marinoni è Picco il caposquadra 

Dopo il successo di Franco Picco nel Rally dei Faraoni le credenziali della Yamaha – Belgarda sono altissime; il valore dei piloti è fuori discussione: scenderanno in gara Picco, Medardo e Grasso a sostituire Andrea Marinoni che non potrà DAKAR 87 Piccocorrere a causa dei postumi di un incidente.

Resta un solo neo: la moto a disposizione è sempre la 660 monocilindrica. Leggera, maneggevole ed affidabile, lamenta il problema della potenza, e di conseguenza della velocità massima, nel confronto con le bicilindriche BMW ed Honda e con la stessa Yamaha 900 quattro cilindri utilizzata dai francesi.

Ultimamente la Paris-Dakar è stata dominata dalle grosse pluricilindriche. moto che permettono d’andare a quasi 200 Kirih negli immensi rettilinei di sabbia del deserto e guadagnare tempo nei confronti delle più piccole monocilindriche. La scelta della Belgarda, invece, cerca di sfruttare le doti di maneggevolezza e di maggior semplicità ed accessibilità meccanica.

Un progetto legato anche alla commercializzazione dei mezzi: seppur modificate direttamente dal reparto corse Yamaha in Giappone, le Tenere 660 rispecchiano le caratteristiche del prodotto di serie. La potenza è stata aumentata ad oltre 50 CV, la capacità dei serbatoi è di 55 litri mentre il peso a secco supera di poco i 150 Kg.

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Caratteristiche che nei piani stessi della Yamaha dovrebbero consentirle di fronteggiare le varie pluricilindriche e recuperare nei sentieri della savana il tempo perso sui lunghi tratti rettilinei desertici.
Della stessa opinione è anche Picco: «Per riuscire a vincere la Dakar non basta poter disporre di tanta potenza. Gli altri Picco_Auriol_Neveu_1987potranno andare più forte, ma la guida di una moto più pesante richiede anche maggior impegno fisico. Dopo molte tappe, la fatica può giocare un ruolo determinante per non aumentare i rischi di cadute ed arrivare in fondo».

Hai un pò di rimpianti per non poter correre con la FZ 900 che useranno Bacou e Olivier?
«I francesi stanno portando avanti il progetto del motore derivato dalla FZ da alcuni anni, ma finora non sono riusciti a raccogliere dei risultati positivi. Mi auguro, poiché la marca da difendere è la stessa, che sia l’anno buono, ma io non l’ho mai provata e quindi non posso dire nulla. Aspettiamo che finisca la Dakar, ne riparleremo per quella dell’88». 

DAKAR 1987 – Squalifica contestata da De Petri

NIAMEY – È il torrido pomeriggio del 14 gennaio, nella mattinata i concorrenti della Paris-Dakar hanno abbandonato gli agi della capitale del Niget, ripartendo velocissimi alla volta di Gao. Ai bordi della piscina del lussuoso Hotel Gaweye sono rimasti solo i piloti ritirati dalla gara più dura dell’anno e qualche giornalista; in una decina delle tante stanze dell’albergo i feriti si lamentano in attesa del volo previsto per la nottata del giorno dopo che riporterà tutti in Europa. Tra le palme e la fresca acqua della piscina, in uno scenario degno di Simon Le Bon, facciamo una lunga chiacchierata con Alessandro «Ciro» De Petri, uno tra gli uomini più veloci mai visti in azione sulle piste africane, alla ribalta, purtroppo, per essere uno dei piloti squalificati dalla TSO alla partenza della tappa Agades-Tahoua.

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De Petri è molto più rilassato rispetto alla mattina del 13, quando Patrick Verdoy non consegnò a lui e a Gualdi la tabella di marcia, mettendoli così fuori gara. Quella mattina all’aeroporto di Agades avrei avuto quasi paura ad intervistare il pilota della Cagiva, furente per l’esclusione della gara. Ai bordi della piscina, però, la tensione inevitabilmente scema e Ciro si dimostra più loquace e tranquillo al microfono del mio registratore. La prima domanda è ovviamente dedicata al «fattaccio» della tappa del 5 gennaio.

Allora Ciro, la moto è stata sostituita?
 «No, avevo un problema alla frizione e mi sono dovuto fermare. Poco dopo sono arrivati Gualdi e Picard e, insieme, abbiamo iniziato a lavorare sulle moto. La Cagiva ha il comando della frizione di tipo De-Petri-1987-2idraulico e lavorarci sopra è cosa molto laboriosa: c’è anche da effettuare lo spurgo. Non dimentichiamo poi che si trattava della prima prova speciale ed eravamo parecchio nervosi. In quei momenti il tempo sembra volare e abbiamo fatto confusione nel rimontare le carene delle tre moto».

Ma non vi siete accorti che l’elicottero della Sierra (la società che filma in esclusiva la Parigi-Dakar) vi girava sopra la testa?
«Certamente, e non c’era nulla di male, addirittura abbiamo notato che l’operatore si stava sporgendo per riprenderci». Siete stati squalificati in base a prove fotografiche e filmate, ma le vostre moto sono state verificate la sera, all’arrivo di tappa? «No, né la sera e nemmeno nei giorni successivi».

Cosa è successo di preciso la mattina del 13 alla partenza da Agades, quando siete stati messi fuori gara?
«Mi ero presentato, come tutti i giorni, al briefing, ma prima che questo iniziasse mi sono accorto che la bussola non funzionava e sono quindi rientrato alla “villa” che il team Cagiva aveva affittato in centro ad Agades, per rimediare a questo guaio. Effettuata la sostituzione dello strumento sono ritornato alla partenza, il briefing si era già concluso ed ho notato che tutti mi guardavano. Prima di chiedermi il motivo di tanta attenzione mi è venuto incontro Gualdi, mi ha detto che eravamo fuori gara e che non ci avrebbero consegnato la tabella di marcia. Pensavo scherzasse, ma subito dopo è arrivata la conferma di Auriol. In ogni caso ho detto a Gualdi di seguirmi sino alla partenza della prova speciale. Arrivati alla partenza Verdoy ci ha detto che se entro due minuti non fossimo rientrati ad Agades avrebbe squalificato anche Auriol».

Come hai reagito a questa notizia?
«Con delusione per una decisione che io definisco sconvolgente che andava contro a quello che pensavo della TSO, un’organizzazione che stimavo e nella quale avevo la massima fiducia. La Dakar è diventata un grande business per le Case, gli sponsor e i piloti bisogna che questi interessi siano tutelati da una Federazione».

Magari da quella internazionale, dico malizioso.
«Certo, la Dakar è una gara internazionale ed è indispensabile che decisioni del genere siano prese da un ente che tuteli tutti questi enormi interessi».De-Petri-1987-3

Si parla del dopo Sabine di come sia cambiata la gara e l’ambiente dopo la scomparsa del grande inventore e anima della Parigi-Dakar, tu cosa ne pensi?
«Anche con Sabine, o meglio sotto la sua direzione, furono prese decisioni discutibili, come la penalizzazione inflitta a Picco due anni fa. Lo scorso anno sempre nel corso della tappa Ouargla-El Golea, ci fu un reclamo contro la Honda France per un supposto cambio di moto, ma non vennero effettuate le verifiche. In ogni caso questa nona edizione della Dakar è splendida, molto tecnica con prove speciali a non finire e senza tappe notturne: una gara bellissima e ottimamente organizzata. Quello che non credo sarebbe successo ai tempi di Sabine è fare correre un pilota per sei giorni, farlo riposare un giorno e poi squalificarlo, quello che è successo a me».

Siete stati messi fuori gara sulla base di prove filmate e di fotografie, sicuramente avrete cercato di salvare la situazione e continuare la gara. Cosa è successo e, soprattutto, cosa succederà?
«Il nostro direttore sportivo Azzalin ha chiesto di fare ripartire Gualdi e me magari facendoci correre sub-judice sino a Dakar, ma Verdoy è stato fermo sulla sua decisione (per me sbagliata) e non ha accettato. Intanto per tutelare gli interessi e l’immagine della Cagiva, degli sponsor ed anche i miei (non dimentichiamoci che un pilota professionista si prepara alla Dakar per circa otto mesi) si finirà davanti ad un tribunale».

Volete forse la testa di Verdoy?
«No, non mi interessa, vogliamo esclusivamente che si sappia che la squalifica mia e di Gualdi è stata un errore e soprattutto che in futuro ci sia una tutela maggiore per Case, sponsor e piloti».

Il futuro della specialità interessa a molti e inevitabilmente a Ciro abbiamo posto la domanda che da anni si sente nell’ambiente, a quando un mondiale rally?
«Sarebbe bellissimo — risponde — e noi piloti spesso ne parliamo, un mondiale sotto l’egida della Federazione Internazionale sarebbe un grande passo avanti, ma da parte nostra non c’è ancora il necessario accordo, mentre dagli ambienti federali non è ancora arrivato un intervento fattivo. Nemmeno quando avevamo, dopo la tragedia di Giampaolo Marinoni, chiesto che due medici seguissero noi piloti italiani in aereo dandoci la necessaria sicurezza, anche psicologica».

Parliamo di sicurezza, per te la Dakar è una gara sicura?
«La Dakar è una gara pericolosa. È la specialità stessa ad esserlo, quasi un incrocio tra velocità (per le medie elevate) e cross (per il fondo su cui si corre); in più nessuno conosce con esattezza tutte le insidie del percorso: è un cocktail molto pericoloso soprattutto se ci si perde. Se si rimane feriti fuoripista il rischio è tanto».

C’è solidarietà tra voi piloti?
«Sì, nonostante le differenza tra piloti ufficiali e privati tutti si fermano se vedono un collega in difficoltà. Sotto questo profilo mi sento molto sicuro. C’è molta umanità in questa gara durissima e la solidarietà in pista è tanta».

Intervista di Marco Masetti per Motosprint


Claudio Terruzzi, dalla buca del Parco Lambro alla Parigi-Dakar

Claudio Terruzzi ha partecipato ed anche vinto gare di enduro in tutto il mondo ma è ricordato soprattutto per le sue partecipazioni alla Parigi-Dakar.
 Claudio è nato in via Amalfi lungo la Martesana nel 1956 e ha trascorso la sua giovinezza a Crescenzago.
Striscione di bentornato esposto nel 1988 in via Padova, in occasione del rientro di Terruzzi dalla Parigi – Dakar
Ancora giovanissimo, assieme ad altri patiti del fuoristrada della zona, in sella a dei cinquantini si cimentava nella buca di via De Notaris (di fronte alla Rol Oil) o al Parco Lambro.
 Al Parco Lambro, oltre ai classici percorsi sulla “montagnetta”, c’era anche una buca a fianco di via Crescenzago e dietro al Tennis Club che una vera palestra per il motocross, con tracciati molto belli. Inoltre al Parco oltre che primeggiare con gli amici, c’era spesso da battere anche le guardie ecologiche, ma per i ragazzi era abbastanza facile, con una sgasata, sfuggire ai “verdoni” che cavalcavano biciclette.

arrivo-dakar-1988

Orioli, Terruzzi e Picco, i componenti della squadra Honda Italia alla Parigi- Dakar del 1988.
Terruzzi, per gli amici, “El Teruzz”, ha iniziato a correre negli anni 70 in gare di regolarità con vari successi, fino ad approdare alla squadra azzurra. Dopo risultati alterni, alla 6 giorni di San Pellegrino è stato notato da Massimo Ormeni di Honda Italia e dopo alcuni test positivi è diventato pilota ufficiale Honda. 
Claudio ha partecipato a tre Parigi-Dakar negli anni ’80, nel periodo in cui era ancora una gara massacrante che si correva in Africa.
Ha partecipato per la prima volta nel 1987, in sella ad una Honda XR 650 R, ha vinto una tappa a Goa, in Mali il 14 gennaio ed ha vinto il premio “Rookie of the year” quale miglior pilota di moto esordiente.
 La seconda partecipazione nel 1988, quell’edizione è stata irripetibile per gli italiani che correvano con le moto, delle 183 moto alla partenza solo 34 sono arrivate a Dakar e nei primi cinque posti della classifica finale si sono piazzati ben tre italiani: il vincitore Edi Orioli su Honda, al secondo posto Franco Picco su Yamaha ed al quinto Claudio Terruzzi su Honda HRC NXR750R. In quell’edizione Terruzzi ha riportato anche 6 vittorie di tappa e senza alcuni problemi meccanici avrebbe anche potuto concorrere per la vittoria assoluta.

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Durante una intervista del 2012, Claudio, rispondendo ad una domanda sul suo gradimento a correre eventualmente di nuovo la Parigi-Dakar, ricordando quegli indimenticabili momenti, ha risposto: “ No, perché la Dakar, quella Dakar, non tornerà più. Ho ancora un VHS del TG1 condotto da Paolo Fraiese, la prima notizia parlava di Ronald Reagan, la seconda di Claudio Terruzzi che aveva vinto la tappa della Dakar. Ricordo gli striscioni in via Padova a Milano con scritto bentornato Claudio… All’epoca i piloti si perdevano e non si trovavano più, di molti non si è più saputo nulla: smarriti nel deserto per sempre. Oggi con il navigatore è tutto più facile, tutto più sicuro, quasi noioso: meglio fare una gara d’enduro“ .

Nel 1989, Terruzzi lascia la Honda e passa alla Cagiva. La squadra con con Terruzzi, Orioli, De Petri e Picard, forma un gruppo potenzialmente vincente ma una serie infinita di problemi meccanici e di eccessivo deterioramento delle gomme tormentano le moto, la terza partecipazione di Terruzzi alla Dakar non lascia tracce degne di nota.
Oggi a quasi 30 anni dalla sua ultima partecipazione alla Dakar, nonostante nel frattempo sia diventato un manager di successo, amministratore delegato di una società all’avanguardia che fornisce servizi per il miglioramento della qualità ambientale, non ha affatto dimenticato la sua innata passione per le corse di enduro e per il mondo che le circonda.

Fonte: http://www.lagobba.it

Philippe ed Erick Auribault Dakar 1987

I fratelli Philippe ed Erick Auribault sulle piccole Yamaha DT 125 al prologo parigino della Dakar 1987. Dietro si riconosce Martin-Ville sulla Yamaha del Team FD Moto Shop.

Campagna ADV Champion 1987

Campagna ADV candele Champion 1987 con testimonial Hubert Auriol.