Dakar 1986 | Marc e Philippe Joineau e la Suzuki ritrovata

Di Marc Joineau

Cercherò di raccontarvi una delle storie più incredibili e curiose della Dakar ’86 e probabilmente di tutte le Dakar, quella della tragica scomparsa di Thierry Sabine e dei suoi compagni. Ero in corsa con mio fratello Philippe su due Suzuki DR 600 del Team Suzuki France e dopo quanto capitato in quel triste 14 gennaio non me la sentivo più di correre, avevo deciso di abbandonare la gara. Il team non era molto contento sulla mia decisione, ma ritengo tuttora che la mia scelta fu quella giusta.

Mio fratello Philippe invece era ancora in gara, si stava difendendo bene rientrando costantemente nelle prime 15 posizioni. Mi sembra di ricordare che il fatto che vi sto per raccontare, sia capitato durante la speciale di Labé – Kayes di circa 600 km, tappa in cui il destino decise di giocare con lui. Questa speciale prevedeva passaggi in mezzo alla boscaglia fitta con punti già lenti che prevedevano anche piccoli guadi da attraversare.

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All’uscita di uno di questi guadi la moto di Philippe si spense non dando più segni vitali. Lui era un buon meccanico e con l’aiuto di Gilles Salvador, anch’egli su una Suzuki si misero a smontarla per capire cosa non funzionasse più. La diagnosi fu  impietosa e senza appello: l’alternatore lo aveva abbandonato, non c’era più modo di ripartire, la gara era finita. Nel momento di massimo scoramento e di presa coscienza che l’avventura era finita, ad un tratto un ragazzotto locale si avvicinò e gli disse: “nel mio villaggio c’è una moto che sembra uguale alla tua, addirittura ha lo stesso numero di gara! Vieni con me, è a casa di mio cugino che fa il poliziotto!”

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Gilles e Philippe si guardarono e sorrisero, chiedendosi se per caso non si trattasse di uno scherzo o peggio un tranello per poi derubarli. Non potevano certo immaginare che erano finiti in panne a soli 2 km da dove Philippe si era fermato l’anno precedente. Gilles caricò il ragazzo in sella con sé fino alla stazione di polizia da suo cugino. Non potete immaginare la sorpresa, quando Gilles vide che effettivamente quella era la moto di Philippe! L’anno prima mio fratello era stato investito da un’auto e aveva riportato la frattura della spalla e della clavicola. Prelevato e curato dall’équipe medica, chiaramente dovette abbandonare la sua moto sul posto dell’incidente perdendone le tracce definitivamente.

Marc Joineau, decise di ritirarsi dopo la morte di Sabine

Marc Joineau, decise di ritirarsi dopo la morte di Sabine

Incredibile anche solo pensarlo un’epilogo del genere. Finalmente sembrava che tutto volgesse verso una soluzione a quel problema che fino a poco prima sembra va insormontabile. Ma non fu così semplice. Il gendarme infatti, con la meticolosità e la puntigliosità che imponeva il suo ruolo (e probabilmente un’offerta danarosa adeguata), volle una prova che Philippe fosse effettivamente il proprietario della moto che sostava da ormai un’anno nella sua rimessa. Per fortuna il ragazzo, che si era proposto come intermediario, si impegnò per confermare la loro buona fede e la situazione si sbloccò con la sua parola data come garanzia.

Philippe Joineau e la sua Suzuki DR 600

Philippe Joineau e la sua Suzuki DR 600

Ci accompagnarono dove si trovava la moto. Incredibile era proprio lei, la moto di Philippe con cui corse la Dakar 1985, ormai priva di serbatoio, ruote e sella, ma con un’alternatore perfettamente funzionante. Dopo una prima fase di stupore e incredulità Gilles si mise a lavorare con gli attrezzi. Dopo un rapido smontaggio, tornò da Philippe, con l’alternatore di ricambio, che fu rimontato velocemente sulla moto. Una pedalata, poi un’altra e un’altra ancora e la Suzuki riprende a rombare borbottando orgogliosamente. Un saluto veloce al ragazzo, adeguatamente premiato, i due riusciranno a riprendere la gara senza perdere troppo tempo e rimanere in corsa.

Una storia incredibile, che ripensandoci ancora oggi fa sorridere.

Con una macchina della nostra assistenza fuori gara decisi di tornare in quel villaggio con i miei due compagni di strada Pierre Mesplombs e Jean-Marie Bonnot per cercare di recuperare la moto o meglio, ciò che ne rimaneva.

E qui inizia un’altra avventura, disseminata di insidie, che non sto a raccontarvi. Ricordo ancora di aver condiviso un buon pollo con i gendarmi ben felici di trattare con noi. La moto fu recuperata parzialmente smontata, e caricata sul retro della nostra auto. Ci unimmo al rally a Saint-Louis, dove Philippe stava ancora correndo, sempre con la mano ingessata e un polso fratturato, dopo una brutta caduta avvenuto in una tappa di collegamento.

Joineau Philippe 1986

Dopo 15000 km la Dakar era finalmente arrivata alla sua conclusione. Philippe si classificò 16°, risultato incredibile soprattutto considerate nelle sue condizioni fisiche, Gilles 25°. Faccio presente, per farvi capire la durezza di quell’edizione, che solo 29 indomiti guerrieri in moto arrivarono al traguardo. Sui loro volti c’era impresso un misto di tristezza e soddisfazione per il ricordo di Sabine e compagni che non erano li ad aspettarli. Il traguardo di quella durissima edizione aveva suscitato emozioni discordanti nell’animo di tutti gli addetti ai lavori.

Racconto tratto, tradotto e interpretato dalla redazione parosdakar.it su post tratto dalla pagina fb Dakardantan

1986-2021 | Sono passati 35 anni dall’addio di Sabine

L’elicottero glielo invidiavamo tutti. Lo sentivano arrivare da lontano mentre noi si arrancava sulla pista. Buche, salti, polvere. Soprattutto polvere. Quell’impalpabile fech fech attraverso il quale non solo non si vede, ma neanche si respira. Lui passava e dalla pancia dell’Ecureil dell’Aerospatiale una scritta a caratteri giganti sparava: Thierry Sabine.

Non era possibile confonderlo. Sia fosse stato il biondo, magro, simpatico Francois Xavier Bagnoult a guidarlo che lui stesso, volava bassissimo. Sfiorava le piste divertendosi, a volte a prenderci di mira. Se ti voleva fermare per qualsiasi motivo, lo faceva sfrecciandoti sul tetto e piazzandosi poi più avanti librato nell’aria. Gli altri elicotteri volavano più alti, pronti ad intervenire in caso di incidente, ma lui era il cane pastore di un gregge sparso, a volte, per un migliaio di chilometri.

Se lo vedevi alzarsi sulla verticale potevi immaginarlo con lo sguardo fisso lontano su un punto all’orizzonte. Magari decine di nuvolette di sabbia disseminate nel deserto che lui avrebbe cacciato, riunito, guidato. Se non erano bestemmie quelle che gli volavano incontro, certo, non si trattava di complimenti.

 

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Ed il sentimento che tutti provavano per lui in quei momenti era identico: odio; ma anche amore per ciò che riusciva a fare; spingerti dove, da solo, non saresti mai andato.
Neanche pagato a nessun prezzo. Ce lo confidavamo la notte, al bivacco, pelle poche ore concesse per il sonno prima dell’immancabile “briefing” delle sei, quando sarebbe riapparso, inappuntabile, sornione, istrione ad arringare il rally: alla Parigi-Dakar noi tutti giornalisti, fotografi, piloti, meccanici saremmo andati anche gratis.

E dietro a lui eravamo pronti a correre per un mese di fila. Finché Thierry si fosse presentato all’alba per darci le notizie sulla prossima tappa non ci avrebbe mai lasciato indietro. Non gli perdonavamo solo l’elicottero. Quell’aggeggio che sfotteva tenendolo lontano dalla polvere. Lontano inavvicinabile, come qualsiasi Dio che si rispetti. e per
questo motivo ad ogni fine “Dakar” lo punivamo, noi reduci, sulla spiaggia che da Sali Portudal porta alla capitale del Senegal: volava immancabilmente in acqua appena sceso dal suo elicottero.

1465160_10202535770305607_1163106290_nOrmai era un rito ed una tradizione insieme. Ma in quel momento parlava anche la voglia di una seppur parziale vendetta che lo avrebbe purgato di quel suo sbeffeggiarci dai cieli. Una purificazione che gli permetteva, ad ogni 22 gennaio dell’anno, di uscire dal suo ruolo di carnefice delle sabbie per ridiventare, il 1 gennaio dell’anno successivo, il generale di un esercito che per tre settimane non si sarebbe fermato se non dietro suo ordine.

Un ordine che lui, comunque, non avrebbe mai dato. Neutralizzare una tappa si poteva, era una maniera di rallentare la gara quando la tempesta di sabbia sbandava la carovana e costringeva i piloti al riparo, sottovento, delle proprie auto o moto, ma fermare la corsa mai. Non era proprio nella sua mentalità. II bello, il duro, il bestiale della Dakar è che il rally sarebbe comunque continuato, nonostante tutto.

Era l’unica certezza di una corsa altrimenti imponderabile. E anche il punto fermo di Sabine la cui ostinazione nel tentare di pareggiare in conti fra privati ed ufficiali si esprimeva principalmente nel rendere il raid più duro. Anno dopo anno, come se ciò potesse aiutare i1000370_10202535774785719_1168520339_n gentleman della corsa, invece di penalizzarli ulteriormente.

Ma questa era sopratutto la sua fissazione: l’uomo doveva prevalere sui mezzi, per cui negli ultimi tempi le tappe percorse con il solo aiuto della bussola erano aumentate. Dapprima c’era stato il solo Ténéré. Poi era stata la volta della Mauritania. Quest’anno addirittura Thierry scovava l’infernale Bilma-Agadem con i suoi 75 cordoni di dune e, non contento, riesumava anche la Guinea.

Al momento del tragico schianto, in cui oltre a Sabine hanno perso la vita altre quattro persone, tutto era al limite alla Dakar. Probabilmente anche lui stesso. Non erano solo i mezzi in gara ad essere provati, né solo i piloti, ma anche la sua organizzazione, e certamente Thierry Sabine “Le Magnifique”, “Jesus”, l’uomo dai molti soprannomi non si risparmiava.

Viaggiava in elFRANCE-SOIR N° 12.885 DU MERCREDI 15 JANVIER 1986icottero, è vero, ma era la sua voce un po’ stridula, metallica all’uscita del megafono che ti svegliava ogni mattina alle 6 per il “briefing”. Tu potevi avere ancora la polvere agli angoli degli occhi, sentirti stralunato, lui non lo sarebbe stato. Il suo trono mattutino era la sponda di uno dei camion dell’Africatours, e man mano che la gara proseguiva, e sempre di meno erano i concorrenti, più il discorso diveniva un motteggiare fra amici.

Un botta e risposta con i concorrenti sul filo di un umorismo sottile, tutto suo, tipicamente francese. Intraducibile. Ed introdotto, anche se ormai da due anni Thierry andava ripetendo che avrebbe ripetuto il briefing anche in inglese. Lo aveva accennato anche quest’anno, sul Tepasa, la nave che porta da Sete ad Algeri, ma nessuno gli aveva creduto.

Poi lui stesso, più tardi, vedendo Hubert Auriol parlare con un gruppo di giornalisti nella lingua di Albione gli aveva confidato: “Ma come fai? A me proprio non riesce”.
Una debolezza quella di non parlare le lingue. Se ne vergognava. Ma anche una cosa incredibile che il rally, nato come un avvenimento francese, fosse riuscito così relativamente in fretta ad espandersi, farsi conoscere come l’unica, l’ultima avventura degli anni 80′. Una cosa che la gente amava. La gente della strada, non solo i piloti. Chissà se gli sopravviverà.

Testo di Paolo Scalera
Tratto da “Dakar-Dakar 2”

DAKAR 1986 | Scintille in casa BMW!

CAO – Il legame fra il belga Gaston Rahier e la BMW. che ha fruttato due vittorie (moto) nelle ultime due edizioni della Paris-Dakar, si sta

La moto di Rahier doveva essere necessariamente avviata da un compagno

La moto di Rahier doveva essere necessariamente avviata da un compagno

per sciogliere. E non senza polemiche. La scintilla é scoccata mercoledi 15 gennaio. mentre il rally stava trasferendosi da Niamey a Gao.

Nel corso di una prova speciale lunga e tormentata. Rahier ha forato la ruota anteriore. Ha atteso il compagno di squadra Hau e gli ha fatto cenno di fermarsi affinché lui secondo pilota del team cedesse la ruota al suo caposquadra. Ma Hau, che in classifica generale era in quel momento ben piazzato. si è ben guardato dall’obbedire.

Giunto alla fine della p.s. l’inferocito Rahier ha sparato a zero su Hau e sul direttore sportivo della BMW. Beinhauer Sono due incompetenti – ha detto Rahier – e Hau non vincerà mai una Paris-Dakar perché è ingenuo come un bambino, tutto quel che sa fare è seguire chi è più esperto di lui nella navigazione, approfittare cioè della fatica altrui. Questa è la mia ultima gara con la BMW.

La vicenda ha un sapore un po’ ironico perché le accuse rivolte da Rahier ad Hau sono quasi le stesse che l’ex pilota BMW. Hubert Auriol ormai in forza alla Cagiva ha espresso proprio nei confronti di Rahier. Chi la fa l’aspetti, insomma. Ma Rahier ha anche trovato un modo più sottile per vendicarsi: il giorno successivo durante la speciale ha rallentato fino a farsi raggiungere dal compagno di squadra, poi ad un bivio ha portato deliberatamente fuori strada il tedesco per una settantina di chilometri facendo perdere a se stesso e ad Hau una quarantina di minuti.

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Quindi si è fermato, ha poggiato la mano destra sull’avambraccio sinistro e con questo gesto tipicamente napoletano (gesto dell’ombrello ndr.) rivolto al compagno ha aperto ufficialmente la guerra all’interno della squadra. Poi ha subito preso contatti con la Suzuki interessata a entrare in forze nella Paris- Dakar nel 1987.

DAKAR 1986 | Il test di Graziano Rossi sulla Moto Guzzi 750

Ndr: doveroso il pensiero per chi ci ha fornito questo articolo, Pietro Manganoni vera anima della Moto Guzzi alla Dakar, nonché bergamasco doc in trincea in questo duro periodo per la sua città e noi tutti. Grazie.

test di Graziano Rossi
Anche se le foto di questa prova non saranno eccezionali, colpa della giornata uggiosa e buia, l’occasione di provare oggi la Guzzi 750 Parigi-Dakar è troppo ghiotta per rimandarla a chissà quando. Dopo più di 30 anni la Guzzi ripresenta una moto da competizione «ufficiale»: questo è un avvenimento storico e il solo salirci mi ha un po’ emozionato, come dovessi provarla in vista di un Gran Premio. Invece devo solo andare a fare un giro al mare, a guidarla su un fondo che assomigli a quello del deserto, che sarà il campo d’azione, il prossimo gennaio, di questa tutto terreno che speriamo sia il primo passo verso un grande impegno, un grande ritorno allo sport della casa di Mandello Lario. Per la prossima Parigi-Dakar la Guzzi ha preparato tre mo-to che saranno guidate da due francesi. Drobeck e Rigonì, e dall’italiano Torri. Tutta l’organizzazione della corsa è affidata alla squadra dell’importatore francese.

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IN SELLA – Salgo per provare l’assetto e ho una sorpresa: la sella è esageratamente alta e non riesco a toccare in terra se non sporgendomi da un lato; scendo per mettere in moto: l’avviamento è a pedale e per fortuna la posizione della leva è bassa e facilmente accessibile. Infatti parte subito; lascio la frizione piano piano con la prima e gli corro un po’ dietro, poi, quando ha preso un po’ di velocità, gli salto sopra! È il modo più comodo per partire! Più tardi, quando è stata smontata, ho scoperto che la sella ha 10-15 cm di imbottitura e credo proprio che se ne potrebbero lasciare solo 5 per poterci salire più comodamente e non dover chiedere aiuto tutte le volte che bisogna fermarsi. Una volta partito, la Guzzi scopre le sue carte e sono davvero notevoli. Rossi-02Comincio a tirare di più e a correre anche sulla sabbia morbida, a curva-re piano, forte e di traverso, a tirare le marce, a frenare forte, a ripartire con una marcia bassa, a saltare su un dosso artificiale preparato per l’occasione con un’asse rubata a una barca in letargo li vicino.

MANOVRABILITA A TUTTA PROVA – Due caratteristiche mi sembrano eccezionali, e sono molto importanti: la maneggevolezza e la coppia. Questa moto, nonostante a prima vista sia di dimensioni «immense», sorprende per la facilità con cui si piega e si raddrizza, anche andando molto piano, grazie ad un baricentro davvero basso e ad un peso contenuto: 165 kg a secco. Nell’improvvisato salto la Guzzi si comporta decisamente bene dimostrando di essere molto ben bilanciata come pesi. Non pensavo davvero, con una mo-to di questo aspetto, di guidare come con una normale Enduro. Poi la coppia: è vero che il motore non ha molto allungo, ma con qualsiasi marcia, in qualsiasi condizione, la forza dei primi 3-4000 giri è entusiasmante! Addirittura la derapata stretta, che si dovrebbe fare in seconda, non crea problemi neppure a farla in terza o in quarta. Inoltre il motore che sto provando ha già molti km di prove ed è abbastanza spompato, quando sarà ora di partire per Dakar sarà molto più in forma!

TANTA COPPIA IN PIÙ Non gira molto in alto perché il rapporto di compressione è stato portato da 10:1 a 9:1 per avere molta coppia e soprattutto perché il motore non soffra per la benzina con po-chi ottani che si può trovare lungo il percorso. La velocità massima raggiungibile è di 170 km/h e i due ammortizzatori ohlins con 130 mm di corsa, che permettono una escursione di 270 mm e la forcella Marzocchi da 42 mm con regolazione esterna e 280 mm di escursione, riescono a dare alla moto precisione e stabilità anche quando in quarta o quinta piena ci si imbatte in avallamenti o dossi che non avevamo visto.

IL MOTORE –  Di 750 cc è un quattro valvole che sviluppa 60 CV a 7100 giri, è munito di un radiatore per il raffreddamento dell’olio e i carburatori sono Dell’Orto da 30 mm con pompe di ripresa; a serbatoi pieni, 38 litri il normale più uno supplementare sotto la sella da 12 litri, l’autonomia è di 600 km. Il cambio a 5 marce è molto preciso e ben rapportato e la trasmissione a cardano non dà nessun problema per la guida, niente strappi neanche nelle cambiate più esasperate. È invece di grande vantaggio non avere la catena, che a continuo contatto con la sabbia ha bisogno di molta manutenzione e rischia lo stesso di rompersi. I freni sono Brembo: un disco flottante da 270 all’anteriore e uno forato da 250 al posteriore. Le gomme sono Michelin Desert, 17 pollici dietro e 21 davanti, con le «bib-mousse», invece delle normali camere d’aria, che sono salsicciotti di gomma piena montati dentro le gomme per evitare le forature. La strumentazione com-prende il contagiri – contachilometri, la spia dell’olio, il «trip-master» e l’apparecchia-tura per far scorrere il «road-book». Invece la bussola non è sulla moto ma sono i piloti a portarla. Bene, faccio un’ultima tirata, un ultimo salto ed è già quasi buio. Credo proprio che questa Guzzi abbia un gran potenziale, possa inserirsi tra le protagoniste dell’avventura africana e dare grosse soddisfazioni a quelli che l’hanno voluta! Il signor Donghi, responsabile della Moto Guzzi, ha detto che spera in un onorevole esordio, magari di finire nei primi 10 e magari, ma questo non l’ha detto, di riscoprire che cosa significava il nome Guzzi nelle corse 30 anni fa! G.R.

Dakar 1986 | Franco Picco, due ore per una stronzata

 La tappa è Agadez-Dirkou. Si attraversa il deserto del Ténéré su un fondo abbastanza piatto e tutto di sabbia. É una fortuna, perché il giorno prima mi sono lussato la spalla ed ho una piccola frattura ad una mano. Potrò guidare anche con una mano sola, per alcuni tratti. Ho superato il momento di maggior sconforto, 150 chilometri sul “tole ondulée”, con una spalla fuori posto, che al campo un medico francese è riuscito a rimettere in movimento con un colpo da maestro, una bendatura stretta ed una “ingozzata” di pillole contro il dolore.

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Il fondo oggi è molto tenero, per via di una tempesta di sabbia che si è abbattuta sulla pista. Lo scorso anno era molto più duro e veloce. I nostri piani di rifornimento, fatti in base all’esperienza passata, prevedono di fare il pieno all’albero del Ténéré, dopo 200 chilometri, e poi di fare tutta una tirata fino al traguardo. Sono circa 400 chilometri. Ma per via della sabbia morbida la velocità è molto inferiore allo scorso anno, non si riescono a superare i 110, 115 Km/h, ed i consumi sono superiori al previsto.

Inizialmente penso che sia un problema al motore…

Viaggiamo insieme, io ed Andrea Marinoni, mio compagno di squadra. Quando siamo in vista dell’oasi di Bilma, ben distinguibile anche in lontananza per la presenza di un faro che, proprio come quelli dei porti, serve ad indicare la strada alle carovane che attraversano il deserto, la mia Yamaha si ferma. Diavolo, ho rotto – penso – ed invece sono solo rimasto a secco di benzina.

Per fortuna Marinoni ne ha ancora un litro, così cominciamo a travasare dal suo serbatoio al mio, con un imbuto che abbiamo portato con noi per fare il pieno. Pensiamo solo di arrivare all’oasi, dove possiamo fare rifornimento prima di ripartire. Da lì a Dirkou, fine della tappa e della prova speciale, ci sono altri venti, venticinque chilometri. Mentre armeggiamo con imbuto e serbatoio sopraggiungono i primi concorrenti con le auto.

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Le Porsche ci superano velocemente. Facciamo segno ad una Mitsubishi Pajero di fermarsi ed il pilota, stranamente, perché di solito non ci degnano di una occhiata, si arresta in una nuvola di polvere. È Zaniroli… che come me ha finito la benzina proprio in quel punto. Non ci resta che ultimare i nostri travasi.

Ripartiamo per fermarci, con la mia Yamaha nuovamente a secco, proprio a 100 metri dal faro. Ad attenderci troviamo solo dei militari con delle jeep, ma tutte a gasolio. lo sono fermo, tocca ad Andrea Marinoni infilarsi nel villaggio in cerca della sospirata benzina. Torna indietro in un attimo: in previsione del passaggio del rally i locali hanno preparato delle taniche; lui ne ha comperata una ed ha ripercorso la pista guidando con la latta sul serbatoio che gli scivolava da tutte le parti.

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Inizio a vuotare. È un liquido bello chiaro, trasparente, anche se un po’ oleoso. Mi tornano subito alla mente le parole del nostro direttore sportivo: “non fate benzina a Dirkou perchè non è buona”. Mentre Marinoni fa il pieno alla sua moto, che ha lasciato con il motore acceso, io cerco di avviare la mia, ma senza successo. Andrea prova ad aiutarmi, ma non serve, così fermiamo Gualini e lo spagnolo Mas che ci hanno raggiunto, per farci dare una mano.

Niente da fare. L’unico risultato è di perdere un bel po’ di tempo e Marinoni, che in classifica è messo meglio di me, decide di andare avanti per non accumulare ulteriore ritardo. Ma quando monta in sella si spegne anche la sua moto, e la storia si ripete. Gualini prova a tirarlo con una fune, ma una volta cade lui ed una volta Andrea, senza risultati. Così che mentre loro si allontanano a quel modo io comincio a smontare la candela ed il filtro, pensando che ci sia qualche problema con la pompa della benzina.

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Mi basta avvicinarmi al carburante per percepire un odore strano. Faccio annusare anche ad un militare che mi sta intorno ed ho la conferma ai miei dubbi : è gasolio! Non c’è niente altro da fare che cercare della benzina. Mi da una mano un soldato e con la sua jeep andiamo a cercarla. Naturalmente Marinoni è fermo poco più avanti : gli dico di smontare il serbatoio e di aspettarmi.

Vago a vuoto fino a quando proprio in fondo al paese trovo un vecchio che fuori dalla casa ha un bidone con dentro la benzina. Il prezzo è d’amico: per darmene una tanica vuole 500 franchi. Da quel momento è una corsa nella corsa. Puliamo il serbatoio, cambiamo la candela, buttiamo un po’ di benzina nel carburatore e una volta rimontato tutto con tre pedalate le Yamaha vanno in moto. Sono in un bagno di sudore, e dopo essermi asciugato in tutta fretta riparto. Due ore di ritardo per una stronzata! Anche questa, però, è la Dakar.

Tratto da Dakar Dakar 2
Testo Paolo Scalera
Foto Dune Motor

Advertising Alpinestars 1986

Dakar | La sopravvivenza in un valigetta

Nei due briefing che istituzionalmente aprivano la Dakar, quello di Parigi e quello sulla nave che portava ad Algeri, Thierry Sabine non si stancava di ripeterlo qualora vi perdeste non abbandonate mai il vostro mezzo. Mai. L’istinto dell’uomo, infatti, in questi casi inusuali tradisce : spinge a cercare aiuto, ma il primo aiuto un corridore della Parigi-Dakar sa, invece, che deve dado ai propri soccorritori.

Deve cioè facilitargli il ritrovamento. Il primo comandamento, dunque, é non abbandonare l’auto. Il corollario di Balise_2questo non dipingerla preferibilmente di giallo, colore che la rende invisibile nel deserto da un elicottero. La seconda regola prepararsi ad attendere. Una attesa, é chiaro, di un soccorso che non sarà immediato. Solo dopo 12 ore, e comunque mai di notte, si potrà iniziare con la prima operazione, la più semplice, ma anche la più importante. L’accensione della radio-balise.

Nell’equipaggiamento di ogni corridore, infatti, c’e una valigetta Samsonite che contiene il necessario per facilitare l’avvistamento. Il cuore dell’equipaggiamento é una radio che opera su di una sola banda di frequenza. La sua carica dura 48 ore ed il segnale, continuo, é un filo di Arianna per i soccorritori. Ma di notte il deserto è una immensa coltre senza riferimenti e confini. È il momento di sparare i razzi colorati che con la vivida luce del giorno sarebbero invisibili, mentre un fumogeno potrà essere lanciato quando un velivolo, magari, incrocia fuori dalla nostra portata.

Un filo di fumo, infatti, è visibile da molto lontano, e proprio grazie all’accorgimento di aver bruciato i pneumatici della sua auto uno ad uno, Simonin, in Mauritania nel 1984 fu trovato dopo tre giorni di ricerche. La gomma infatti fa molto fumo e brucia lentamente. Quindi l’ultima risorsa, come fu all’alba dell’uomo, é il fuoco. Per questo fra le tante raccomandazioni per i neo iscritti c’e quella di avere sempre con se almeno i fiammiferi, un coltello ed il telo di sopravvivenza.

Cos’é quest’ultimo? semplicemente un leggerissimo foglio di alluminio che da una parte riflette i raggi del sole, riparando dal calore, mentre avvolgendoselo addosso isola dal freddo. Ripiegato, sta in una tasca. Ma é molto semplice perdersi? Sembra una domanda scontata, invece con piccoli accorgimenti é possibile ridurre questo rischio al minimo. Il primo, naturalmente, é che appena ci si rende conto di aver sbagliato strada é più prudente ripercorrere le proprie tracce. Anche se ciò porta via del tempo.

 Schott HardenNel deserto, qualunque CAP, cioè rotta di bussola, si stia seguendo, si farà una marcia indietro di 180°. Imperativo é riprendere la pista principale. Ed uno dei trucchi, semplice ma vitale, è che quando le circostanze richiedono continue deviazioni per evitare, magari, tratti di pista troppo rovinata, si sappia sempre da che parte la si lascia. Se a destra o a sinistra. Non é difficile, intatti, che a forza di intersecarla alla ricerca del terreno più solido non ci si ricordi più da che parte si trovava n’ultima volta. La “pista” africana non è una strada asfaltata, è solo la rotta della consuetudine da villaggio a villaggio.

Può rovinarsi e divenire impraticabile, in un punto. Una nuova consuetudine traccerà, allora, una nuova pista, parallela, che tornerà a quella principale. E così decine, centinaia di volte. Tanto che nella savana più che nel deserto il terreno apparirà a volte come un dedalo inestricabile di sentieri. Si parla sempre, alla Dakar, di concorrenti che hanno sbagliato strada prendendo, per questo, ore di penalità. Bene, cioè accade quasi sempre quando il rally abbandona il deserto per le savane.

Nelle sconfinate distese del Ténéré infatti ad aiutarci c’è la bussola, e poi la posizione del sole. Servono principalmente nervi saldi. Quando la vegetazione invece forma schermi impraticabili, non c’è bussola o sole che tenga. Al massimo possono tornare utili le carte, possibilmente quelle militari, dettagliatissime, per rendersi conto della propria posizione. Tuoi i migliori equipaggi le hanno, e non sono solo utili nei momenti d’emergenza, anzi, non é raro vedere i piloti studiarsele prima del via. Prendere nota dei bivi, dei villaggi. Come sempre, anche in Africa, la migliore sicurezza viene dalla prevenzione.

Fonte Dakar Dakar2

Testo Paolo Scalera

Claudio Torri “Pink Panter”, dalla Dakar 1986 all’Australia

Di ritorno dalla sfortunata Dakar 1986, terminata con un ritiro a causa di un problema al forcellone della sua Moto Guzzi, Claudio Torri non si perde d’animo e organizza subito una nuova avventura.

La moto viene aggiornata aerodinamicamente con un cupolino portafaro, come da tendenza in quegli anni, e verniciata completamente di rosa e iscritta al Safari Australia dell’anno successivo. Purtroppo l’esperienza australe non ebbe molta fortuna, culminata con un ritiro causa incidente stradale con un pick-up che provocò la frattura del bacino del povero Torri.

 

HONDA NXR 750 modellino Tamiya François Charliat

Dopo diversi articoli dedicati a moto stradali o da corsa, questa volta torniamo a parlare di fuoristrada estremo, in quanto la protagonista è la regina di questo tipo di gare, cioè la Parigi-Dakar. Il modello preso in esame è la Honda NXR 750, vincitrice della maratona africana nel 1986 con francese Cyril Neveu. La moto, una bicilindrica raffreddata a liquido, realizzata appositamente per questo tipo di gare dalla HRC, il reparto corse della Casa del Sol Levante, sviluppava più di 70 cv ed è stata la prima moto raffreddata a liquido a vincere la durissima competizione africana. Il modello in scala 1:12 è realizzato dalla giapponese Tamiya.

All'interno del cupolino troviamo il cruscotto digitale con la bussola e il road-book inserito nel manubrio. Il telaio accoglie perfettamente il blocco motore con la marmitta e i vari manicotti.

All’interno del cupolino troviamo il cruscotto digitale con la bussola e il road-book inserito nel manubrio. Il telaio accoglie perfettamente il blocco motore con la marmitta e i vari manicotti.

Iniziamo il montaggio dopo aver studiato vari pezzi che compongono la scatola di montaggio. Come sempre la qualità è elevata, con stampate ben rifinite ed esenti da bave di lavorazione, e con particolari in metallo, come la molla dell’ammortizzatore posteriore e la griglia di protezione dei fanali anteriori in lamierino fotoinciso. Seguendo le indicazioni sulla verniciatura delle varie parti del motore, iniziamo il montaggio con l’inserimento dei vari cavi e manicotti a corredo. Il telaio, in due pezzi, accoglie perfettamente il blocco motore al quale vengono aggiunti le marmitte e gli ultimi accessori che lo completano.

Utili le indicazioni per tagliare perfettamente su misura vari tubi realizzati in due diversi diametri per differenziare in questo modo cavi dai manicotti. A questo punto passiamo al montaggio della ciclistica iniziando dal forcellone posteriore. La catena è realizzata in un pezzo unico e comprende anche la corona. Per quanto riguarda le ruote, bisogna assicurarsi che le due metà dei cerchi siano ben incollate e che la colla abbia fatto presa prima di montare il pneumatico, onde evitare che il cerchio possa aprirsi. L’ammortizzatore posteriore, pur essendo fisso, è composto da alcuni pezzi che lo rendono molto fedele all’originale. Iniziando il montaggio delle sovrastrutture bisogna provvedere alla colorazione di alcuni particolari.

Anche per la Honda NXR 750, riprodotta in scala 1.12 dalla Tamiya, la qualità dei vari componenti è elevata. Le stampate sono infatti ben rifinite. Diversi i particolari in metallo, tra i quali la molla dell’ammortizzatore posteriore.

Poiché la fascia dorata di divisione è realizzata tramite decalcomania è sufficiente colorare la zona blu estendendola un paio di millimetri oltre la decal affinché quest’ultima sormonti il colore e quindi dia una linea di unione perfetta. Un consiglio: assicuratevi che il colore sia perfettamente asciutto prima di posizionare la decalcomania Il serbatoio supplementare con inserito il codino è il primo pezzo di carrozzeria da montare. Si passa poi al montaggio dei radiatori con il telaio di supporto e lo si completa con l’inserimento dei vari manicotti.

Il serbatoio diviso a metà è l’altro componente di carrozzeria che si affronta prima di passare al montaggio della forcella, con relativa ruota anteriore Sella e targhe porta numero laterali completano il montaggio della zona posteriore. All’interno del cupolino trovano posto, inseriti in un apposito telaio di supporto, il gruppo ottico a doppio faro e il cruscotto digitale con la bussola. Il road-book è inserito nel manubrio e va completato con il foglio stampato nelle istruzioni che riproduce fedelmente alcune note del per-corso. Il montaggio del cupolino è l’ultima operazione per completare il nostro modello. Il lucido protettivo per le decalcomanie (che le rende uniformi con le zone verniciate) è il tocco finale per questa Honda NXR 750 che ricorda le ampie distese di sabbia, le dune e il fascino dei grandi raid africani.

Dakar 86 – Il diario di Aldo Winkler

Dopo lunghi preparativi e tante emozioni, un mucchio di tempo rubato al lavoro che però non è stato sufficiente soprattutto per definire i dettagli sulla moto. Partenza per Parigi arrivo a Rouen e disbrigo nella stessa città delle formalità amministrative della gara, trasferimento in moto a Versailles (che freddo) un piccolo episodio quando siamo partiti ci siamo dimenticati il fatto che faceva freddo e con í guanti da cross abbiamo dovuto fare questi 60 chilometri al gelo.

Tre chilometri di ghiaccio, impossibile stare in piedi. Prologo vinto da Poli che montò le gomme chiodate.

Tre chilometri di ghiaccio, impossibile stare in piedi. Prologo vinto da Poli che montò le gomme chiodate.

A Parigi una sosta di alcuni giorni permette di fare i rotolini, per inciso i rotolini sono il road book che viene dato sotto forma di libro per metterli dentro la scatola del note book bisogna accorciarne un foglio dopo l’altro per fare in maniera che  possano essere arrotolati e srotolati. Si cerca di riposare nonostante una grossa emozione e anche tensione che continua a salire. Il prologo a 60 chilometri (sotto la neve) si verifica una cosa bestiale, la moto è altissima senza averci fatto la minima mano si dimostra inguidabile. il prologo dura (3 km) si dimostra una cosa incredibile era una lastra di ghiaccio con rotaie di fango sotto dure, non si contano i voli non si stava in piedi che faticaccia la moto da nuova sembra già vecchia distrutta dai voli.

Aldo Winkler a sinistra, e Batti Grassotti i protagonisti di questa avventura

Aldo Winkler a sinistra, e Batti Grassotti i protagonisti di questa avventura

Dopo un capodanno non eccezionale perché è un po’ la tensione un po’ la compagnia, aleggiava l’ansia della partenza. Il primo di gennaio un freddo intenso alla partenza, sono molto emozionato quasi spaventato quando parto non ho neppure il coraggio di voltarmi per salutare Paoletta, avevo il timore di non riuscire più a partire. I primi chilometri li faccio con Batti (Grassotti il suo compagni di Team ndr), sotto un freddo pungente che non ci si spiega come si possa andare in moto. La partenza da Parigi è una cosa emozionantissima sembra di percorrere un cordone umano da Parigi a Sete, tutti che ti salutano e festeggiano, purtroppo la fretta di arrivare guasta questa possibilità di entrare in contatto con questo entusiasmo. I primi problemi il freddo e la pioggia impediscono al motore di funzionare bene. Si spegne di continuo, scoppietta e non va per niente bene. Questo fatto mi crea ansia incredibile e mi aspetto di fermarmi in qualsiasi momento. Ad un certo punto la moto si spegne e Batti non si accorge della mia fermata. Cerco di raggiungerlo viaggiando da solo fino al Sete (anche lui ebbe dei problemi e al buio non lo vidi). Mi prende una nostalgia come non mai mi è presa, vorrei Paoletta e dall’emozione piango sotto al casco. Cerco qualcosa per poter scriverle e dirle che la amo ma non lo trovo. Nel frattempo un giapponese sulla moto il numero 2 (Yasuo Kaneko ndr) viene colpito in pieno da una macchina e muore sul colpo, vedere l’incidente e pensare che poteva succedere a me mi reggeva ulteriormente, ma subito bisogna cancellare quest’idea altrimenti non si riparte più.

aldo7Arrivo a Sete alle 2 del mattino (eravamo partiti alle 8 del giorno prima) imbarchiamo la moto dopo mille difficoltà. Non troviamo Grisoglio (la nostra assistenza ndr) con la nostra roba e finalmente alle 3 andiamo a dormire. Naturalmente ad Algeri dopo interminabili code burocratiche partiamo alle 6 di sera ed è quasi buio, ci aspettano 700 chilometri di trasgerimento. Piove e fa freddo, siamo bagnati fradici, su una strada fatta tutta di curve di montagna con asfalto nero senza strisce dove non si vedeva nulla. Batti andava meglio di me e mi accodo a lui anche se non vedevo comunque nulla. Per fortuna la strada migliora con i chilometri e non piove più, arriviamo alle 2 del mattino e dormiamo per terra. L’ansia della moto che non funziona bene continua.

Prima tappa ore 6.00 la partenza. Partiamo in ordine inverso e questo si verifica in tutta l’Algeria. Chi è a metà classifica è fregato, perché deve superare i primi che sono lenti e viene superato dagli ultimi che sono veloci, risultato viaggi costantemente nella polvere. Tutto bene fino a quando rompo il trip master. Naturalmente mi perdo in una pianura di piccole dune di sabbia piene di migliaia di tracce in tutte le direzioni. Mi raggiunge Gilles Picard, lo seguo, poi vedo Picco ma continuo a perdermi sempre di più. Mi consola il fatto che dopo poco tempo formiamo un gruppo di in una trentina tra i quali i più forti in cerca della pista giusta. Il primo contatto con il road book è sgradevole troppe note con chilometri sbagliati e pochi disegni e tanto testo in francese. Il primo contatto con l’Africa Tour non è male, si mangia bene e non si fa troppa coda ma non danno l’acqua!

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Seconda tappa: mi scoppia l’ammortizzatore e i molti fondo corsa indeboliscono il telaio. Raggiungo comunque lnsah e qui mi lavo in albergo nella stanza di Boano. La pista con molte buche e pietre con tratti veloci, lnsalah-Tam due speciali una veloce, mi raggiungono le macchine, non si vede nulla. E’ veramente pericoloso perché nella polvere quando vieni superato hai quei 200 metri in cui corri nel nulla, un’angoscia. Vedi passare di fianco a te massi enormi, voragini e pensi “bastava 1 metro in là e adesso chissà dove ero”? Seconda speciale fatta con Batti, lo aspetto perché rompe il giunto è finiamo la speciale con i motori che rattano e non vanno quasi più.

Il rapporto che di instaura con la propria moto diventa quasi mistico, gli parli, la supplichi, le fai confidenze. Diventa una compagna con cui condividi la natura e tutte le sue espressioni.

Nel trasferimento a Tam mi scoppia la mousse, ci fermiamo ad un bar, ma procediamo per fare sciogliere ulteriormente la mousse. L’asfalto è pessimo, intervallato da una pista bruttissima piena di fesh fesh (sabbia impalpabile) con grosse rotaie sotto provocate dal passaggio dei camion. Ad un certo punto non vedo più Batti e nonostante la mousse nei pezzi, torno indietro per una decina di chilometri alla sua ricerca, pensando che fosse caduto. Non lo vedo. Torno in direzione Tam. Avendo sempre il rimorso che Batti, sapendo che avevo forato, non mi avrebbe abbandonato. Ripensando a quei dieci chilometri rifatti alla sua ricerca, al fatto che non lo avevo trovato. Cambio la gomma e proprio mentre gonfio la camera d’aria, per fortuna l’assistenza arriva e cambio ruota riparto manetta, mancano ancora 150 km. Si fa buio e si rompono pure i fari, e proseguo al buio con le luci delle stelle, e arrivo in tarda notte in tempo per non prendermi la forfettaria a Tamarasset.

In albergo trovo Batti, e non c’è nemmeno il tempo per lavarsi. Tappa Tam Tam sull’Assecrèm mi trovo bene nelle pietre. Mi procuro uno spavento incredibile per passare nella polvere un avversario, esco di pista e passo in un punto con pietre grandi a manetta e mi faccio un volo. In aria si spegne la moto e casco in piedi. Grazia divina! Ho rotto il dado che tiene l’ammortizzatore al telaio, l’asta del freno ha sfondato la marmitta. Finisco lentamente la tappa continuando a non sfruttare in motore, soffro parecchio nei sorpassi dopo quello spavento.

"Ero talmente disperato che l'avventura fosse finita, pregavo che l'assistenza arrivasse. Armando sostitui il motore e ripartii per i restanti 600 km, la notte mi aspettava...

“Ero talmente disperato che l’avventura fosse finita, pregavo che l’assistenza arrivasse. Armando sostitui il motore e ripartii per i restanti 600 km, la notte mi aspettava…”

Tam Agades, partenza in un grande fiume prosciugato pieno di sabbia molle, il motore cala e si indurisce, continuo fino ad un pezzo di pista dura dove mollo un attimo. Si spegne il motore. Sono fermo, e comincio a smontare a rimontare per farla partire, sudo tutta l’acqua in corpo, non mi rimane altro che smontare il motore sperando che arrivi l’assistenza. Che arriva verso le 5.30 dopo aver aspettato per sei ore fra un misto di disperazione, rassegnazione e incazzatura. Ore di fuoco. cambio motore e riparto spaventato di trovarmi nel deserto di notte, non sapendo dove andare, passo il confine con il Niger, faccio il pieno da una autobotte in pieno deserto. Continuo e mi perdo. Non vedo più tracce e sono fuori pista tra rocce pietre e sabbia molle. Prendo il monocolo e vedo delle luci mi dirigo verso quella direzione e trovo delle macchine insabbiate. Ritrovo fiducia e con questa anche la pista, riparto ma mi mancano ancora 600 km all’arrivo. Mi preoccupo di rimanere sempre sulle tracce per non perdermi. La pista era un misto di fech fech, sabbia molle e rotaie dure dovuto al fatto che tutto rally era già passato compresi i camion. Naturalmente riduco la velocità, la poca visibilità l’altezza della moto, la pista sono un insieme impressionante di difficoltà. Le cadute non si contano più, ogni caduta si fa sempre piacere fatica a rialzare, falla ripartire poi, che fatica!

"Ero stanchissimo, ma mi godevo comunque il mitico Ténéré..."

“Ero stanchissimo, ma mi godevo comunque il mitico Ténéré…”

La stanchezza mi assale e mi fermo al camion Belgarda in panne e dormo un per recuperare energie. Arriva di nuovo l’assistenza, ripartiamo e mi rincuorano standomi dietro, mi fanno luce e quando cado mi aiutano a rialzarmi. Non ce la faccio più, per un po’ di km guida Ciaudano (dell’assistenza ndr) ma riprendo la moto in tempo per fare gli ultimi 150 chilometri di asfalto a manetta per arrivare in tempo alle otto e non prendere la penalità. Alle 8.30 riparto per la speciale, l’assistenza la vedo solo per un minuto, sono sconvolto e non prendo nulla. Purtroppo sarà l’ultima volta che la vedrò. La tappa del Ténéré sarà una cosa impressionante ma bellissima, si è in soggezione al cospetto del grande deserto, ma la tappa la trovo facile. Ma il motore si indurisce di nuovo. Mi fermo e lo lascio raffreddare, tiro l’aria e riparto andando piano con l’angoscia che si spacchi e che mi lasci a piedi. Al minimo rumore rimango terrorizzato, parlo alla moto, la prego di continuare, faendo gli ultimi 150 chilometri al buio fino a quando per fortuna vedo le luci di alcune auto che mi indicano la strada.

Nel frattempo ho rotto il giunto della catena, ma con sorpresa riesco ad aggiustare tutto bene con la massima

"JCO responsabile di Sonauto, gran pilota e gran signore. Una volta l'ho aiutai a disinsabbiare la sua moto, da allora anche se era in Speciale si fermava per chiedermi se era tutto ok"

“JCO responsabile di Sonauto, gran pilota e gran signore. Una volta l’ho aiutai a disinsabbiare la sua moto, da allora anche se era in Speciale si fermava per chiedermi se era tutto ok”

calma. Dormo per terra ma il freddo rimane ancora persistente. Ho male hai denti e ho le mani con profondi tagli per il freddo. Dirku-Agadem si rivela una tappa infame, dune trasversali segnalati da paletti di cui alcuni caduti. Il vento cancella le tracce, questa si rivela una tappa molto pericolosa, le dune a forma di onda alla sommità si interrompono bruscamente con pendii a volte perpendicolari. Non sapendolo le prime dune le ho saltate, facendo salti impressionanti. Infatti questa tappa provoca molti incidenti, Mercandelli si infortuna alla spalla, la Anquetil cade procurandosi un trauma alla spalla, alla mandibola, ai denti e agli zigomi. E’ drammatico vederla in un bagno di sangue. Beppe Gualini cade e si rompe i legamenti del ginocchio. Un camion Tatra si cappotta in avanti, e uno dei guidatori rimarrà paralizzato. Arrivo ad Agadem, che si rivela solo un forte militare in rovina in mezzo al deserto. Non arriva niente ne da mangiare, ne il sacco a pelo per via di un disguido. Con Batti vado ad un pozzo a 5 km e con la disperazione della sete bevo fregandomene di tutto.

Agadem – Zinder, anche questa tappa infame, lunghissima in un zig-zag di saliscendi di sabbia molle, il paesaggio da desertico lentamente si trasforma in Sahel 400 km fatti in pochissime ore. Finita la speciale ci aspettano altri 600 km di trasferimento. Qui vediamo Baron appena caduto su un tratto di asfalto brutto, purtroppo rimarrà coma irreversibile per anni a causa di questo incidente. Con Batti mi fermo a mangiare in un posto infame però mangiamo bene in dispetto al luogo e arriviamo la notte tardi. La mia moto comincia a consumare olio.

"Giornata di riposo a Naimei, in albergo con tutti i privati italiani per sistemare le moto".

“Giornata di riposo a Naimei, in albergo con tutti i privati italiani per sistemare le moto”.

Zinder – Niamei: lungo trasferimento tutto di pista per 600 km mangiando la polvere delle macchine che ci superano. Parto per la speciale ma alla partenza mi si rompe il cambio. La moto rimane in terza su una pista molto sabbiosa. Batti prosegue e la cosa non mi piace, io sarei stato dietro di lui per aiutarlo. Parto molto agitato e naturalmente cado di continuo. Si buca il serbatoio e perdo benzina come una fontana dal rubinetto. Mi rialzo più in fretta possibile dando calci al serbatoio nel tentativo di ripararlo alla meglio. Finisco la speciale e il trasferimento a Niamei di 200 km arrivo a notte fonda. Niamei giorno di riposo, trovo da saldare il telaio e perdo l’ultima speranza di arrivare in fondo perché speravamo che l’assistenza arrivasse. Ci aspetta una notte di fuoco, non ho dormito per via delle zanzare che ci hanno mangiato vivo. Al mattino avevamo le mani e la faccia gonfie dalle punture. La Dakar non ha pietà: partenza alle 4 del mattino.

Alcuni momenti immortalati della Dakar 1986. Nella foto in alto la grande Veronique Anquetil.

Alcuni momenti immortalati della Dakar 1986. Nella foto in alto la grande Veronique Anquetil.

Sconvolti dalla notte precedente ci aspetta una speciale di 450 km. Mi perdo quasi subito e mi trovo completamente solo senza tracce in un paesaggio terribile di arbusti, collinette e guadi,  con spaccature enormi. Per fortuna trovo una macchina con un motociclista giapponese e in loro compagnia la disperazione non prende il sopravvento. Seguendo Zaniroli troviamo la pista ma l’orientamento è molto difficile. Trovi macchine in direzione opposta alla tua, che alimentano i tuoi dubbi. Nella savana bisogna seguire le tracce, ma a volte è impossibile neppure i camion lasciano tracce, piegano gli arbusti e loro si raddrizzano come nulla fosse. Non ho più il road book da Agades perché erano erano sul camion assistenza che non è mai arrivato. Arrivo a fine tappa che è notte e gli ultimi chilometri  a manetta per paura del buio, ma cado parecchie volte. Mi ritrovo a chiedere a tutti l’acqua.

All’arrivo della speciale vedo Batti anche lui distrutto a tal punto che gli devo far partire la moto. Ci aspettano ancora 120 km di trasferimento e 160 di speciale che facciamo affiancati, quasi impauriti. Percorriamo quasi un chilometro alla volta, e cadendo a turno facciamo tutti 120 chilometri. Arriviamo a Gourmararus alle 2 del mattino, qui tutti sono sconvolti. L’elicottero di Sabine è precipitato ed è morto con altre quattro persone. Siamo tutti stravolti. Ci fanno partire al mattino alle 10 per fare 1100 km fino a Bamako di cui 160 di pista. Qui vedo l’elicottero precipitato, era ridotto ad un metro cubo di metallo! Arriviamo a Bamako alle 3 di notte, stravolti e la fretta di arrivare ci fa tirare sull’asfalto.

Sfioro una mucca in mezzo alla strada che colpisco di striscio con la spalla. Mi sono visto il corno in gola. Dopo questo spavento rallento e perdo Batti, il mio fanale è insufficiente anche perché la seconda lampada I’ho data a lui.

Nella speranza di raggiungere Batti riaccellero. Non faccio a tempo da riprendermi dello spavento della mucca che mi vedo un tir senza luci e senza rifrangenti fermo in mezzo alla strada. Grosso spaventoma ormai ci ho fatto l’abitudine. Come al solito arrivo a notte inoltrata. Poche ore di sonno e sono di nuovo sveglio per partire. 60 km di trasferimento e 700 km di speciale e di nuovo 300 di trasferimento di pista. Ormai siamo scoraggiati. Batti non vuole più partire, l’organizzazione è nel pallone, C’è poca assistenza medica e due elicotteri in meno. Parto e inizio la speciale alle 10. La pista è lenta da 40 kmh di media, curve, rotaie, buche, sabbia, nella savana. Il posto è bello, ma sono indeciso se continuare! Mi fermo, mangio e riparto, Batti arriva ma era completamente nel pallone, andava forte si schiantava. Basta, decide di ritirarsi.

Boano con il suo meccanico "Garino".

Boano con il suo meccanico “Garino”.

Con Boano e Germanetti siamo gli unici italiani rimasti in gara, ci rincuoriamo e andiamo avanti. Ci rialziamo quando cadiamo, ormai non ci si può più fermare. Siamo in mezzo al nulla. La pista è terribile, lenta e piena di pietre in mezzo alla foresta. Quasi all’imbrunire buco la ruota posteriore, tento di ripararla ma non ci riesco. La rimonto e cerco assistenza in un piccolo villaggio. Centinaia di persone mi attorniano. Sembra incredibile che così tante persone possano abitare in quattro capanne di legno e fieno. Mi aiutano e riesco a ripartire. Dopo poco tempo la mousse davanti cede e la moto diventa inguidabile oltre al fatto che nel frattempo è sceso il buio. Incontro un pilota con una gamba rotta lo rincuoro arrivata l’assistenza riparto.

Sono in una foresta con vegetazione molto fitta, e la pista è veramente brutta, pietre, scoli d’acqua molto profondi con la risalita con polvere finissima che non ti permette di vedere le pietre sotto. Caratteristici sono i ponti fatti con quattro assi, se preferisci c’è la deviazione e si passa nell’acqua con grosse pietre. Il buio e la tensione non mi permette di gustarmi così tanta meraviglia. in un guado rimango intrappolato perché sbaglio la risalita. Quando la vedo non riesco a imboccarla bene perché c’erano dei solchi profondi provocati dai camion. Con il fango alle ginocchia e la moto piantata fino alle ruote quasi impennata la sposto di forza e finisco le ultime energie. La metto in posizione verticale e dopo infinite scalciate riparte e a spinta mi tolgo dalla morsa del fango. Nel frattempo la catena si era allungata a tal punto che girava su quel povero pignone ormai logoro.

Batti Grassotti immortalato a Bamako, dopo un trasferimento demenziale.

Batti Grassotti immortalato a Bamako, dopo un trasferimento demenziale.

Proseguo ma si incrociano gli occhi per la stanchezza, cado e rimango sotto la moto senza la forza di tirarmi su, con il piede sotto la moto. Aspetto in quella posizione un bel po’ di tempo fino a quando fortunatamente passa un’assistenza della Cagiva e mi mettono in piedi. Riparto ma poco dopo mi fermo ormai stremato e dico addio alla gara, e mi butto per terra a dormire. Dopo un po’ di tempo il freddo mi sveglia e riparto, sempre con la mousse anteriore andata. Arrivo a Labe all’una del pomeriggio, e li sento la lieta notizia, era giorno di riposo e la gara è stata interrotta, L’indomani posso ripartire, sono ancora in gara. Partenza alle 8 mi aspettano 250 km di mulattiera incredibile, peggio dell’Assecrem, pietre, rotaie di scoli d’acqua e salite discese ripide. Se fossi stato in Italia neanche con una moto da trial l’avrei fatto quel pezzo.

Gran Hotel Dakar :D

Gran Hotel Dakar 😀

Faccio quasi 600 metri sul bordo del precipizio, su una strisciolina larga 20 centimetri.  Per fortuna finiscono anche quei chilometri e la speciale sucessiva sta per iniziare. Infatti dopo il confine mi aspetta un’altra di 400 km. Con sorpresa noto che dopo 200 km sono rimasto senza olio! Ormai il motore va a olio e un po’ di benzina, non riesce ad andare neppure agli alti regimi. Parto per la seconda speciale, ma non ci sono con la testa, sbaglio molto e  faccio molti dritti sbagliando strada. Dopo poco perdo la percezione della mia velocità, mi sembra di andare piano invece andavo fortissimo. Prendo una buca e poi un’altra, cappotto in avanti, faccio un volo di sei metri e rimango in aria per un’infinità di tempo. Svengo. Appena ripreso vedo la moto distrutta con un rubinetto della benzina divelto. La stendo dal lato opposto in modo da non perdere altra benzina e cerco di sistemare la perdita. Sono sconvolto, stravolto, dolorante e terrorizzato. Senza luci, con ancora molti chilometri da fare al buio.

"Ci sono momenti in cui si procede per inerzia, l'isitnto di sopravvivenza è il sentimento che ti porta avanti..."

“Ci sono momenti in cui si procede per inerzia, l’isitnto di sopravvivenza è il sentimento che ti porta avanti…”

Mi rimetto in sesto e riparto nel tentativo di arrivare a fine tappa con la luce. Faccio altri 20 km altra buca, altra cappottata ma questa volta mi ritrovo con la moto a ben 12 metri dalla buca. Stavolta mi sono anche fatto male, per fortuna nulla di rotto, ma ti dolori ci sono. Ripensandoci mi vengono i brividi. Ormai la moto è distrutta, tutta storta, perdo i sensi due volte e mi esce il sangue dal naso. Riprendo i sensi dopo parecchio tempo. Mi riprendo e il primo desiderio è di arrivare alla fine. Faccio quello che posso ormai è una sfida con me stesso e con la mia forza di volontà. Avanzo a passo di lumaca fino ad un villaggio, dove chiedo della benzina per finire la tappa,  pago 10 litri  40 dollari, sempre meno dei 500 franchi che volevano. Mi mancano ancora 150 km ma senza illuminazione procedere è praticamente impossibile. Mi metto in mezzo alla strada e fermo tutti chiedendo di starmi dietro per illuminarmi la strada. Dopo aver ricevuto il rifiuto di quasi una ventina di auto, trovo dei partecipanti peruviani che accettano a patto di andare forte perché sono in speciale e non vogliono perdere posizioni.

"Il deserto ti presenta tante tipologie di difficoltà: dalla sabbia alle dune, dalle rocce al fech fech..."

“Il deserto ti presenta tante tipologie di difficoltà: dalla sabbia alle dune, dalle rocce al fech fech…”

Faccio quello che posso prendendomi dei  rischi notevoli con una moto praticamente inguidabile. Arrivo alle 22 e incredibilmente non ho neppure preso la forfettaria, ma appena mi fermo crollo e di botto sento il dolore. Chiedo a Giorgio di ripararmi la moto e vado a dormire, logicamente sempre per terra. Al mattino successivo Giorgio mi dice di non riuscire a riparare la moto e così come è ridotta non ha senso  continuare. Insisto, ma non c’è nulla da fare, abbandono la corsa, ma ancora non me ne faccio una ragione. Prendo tre razioni di Africa Tour e vado alla stazione. Elargisco una mancia a ragazzo che mi dice cosa devo fare.  La burocrazia per trasportare la moto è una babele infinita, finalmente sembra essersi risolto tutto, devo solo aspettare il treno. Per fortuna vedo due italiani, che lavorano per la FAO, mi rassicurano e mi garantisco che porteranno a casa. Mi danno da mangiare e mi riportano alla stazione. Di forza carichiamo la moto su un treno merci puzzolente e pieno di pietre. Finalmente dormo e persino le pietre sembrano un letto comodo.

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Arrivato a destinazione scarico la moto aiutato da alcuni compagni di viaggio, trovo un taxi e incredibilmente la carico sul tetto. Il taxi era fetido, ma almeno mi ero rimesso in movimento. Scende la notte e il taxi si ferma al crocevia dell’ingresso della città di Dakar. Il tassista mi porta nella piazza che era anche la fermata dei bus e gentilmente mi offre un caffelatte in un bar frequentato da persone poco raccomandabili. Finalmente il tassista decide di ripartire e mi porta dove avevo prenotato I’hotel prima di partire, sperando che qualcuno fosse già arrivato.

Un piccolo rammarico, se fossi ripartito sarei arrivato in fondo. Infatti la tappa che partiva da Kaies venne annullata e I’organizzazione decise di evitare la Mauritania e andare in convoglio da Kaies a Sant Luis per poi fare la passerella all’arrivo. Mannaggia!

Fonte: pagina facebook di Aldo Winkler